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Autore: atassa    13/05/2013    0 recensioni
Una serie di sfortunati racconti è una storia di undici capitoli ormai completata. Qualcosa nel mondo sta succedendo, qualcosa di malvagio, di oscuro e chi lo fermerà? Una serie di destini che sono condannati ad intrecciarsi fra di loro, ma non per tutti è una condanna.
Genere: Horror, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Uno.

Giorno uno. La pioggia mi cadeva fredda sulle spalle e mi bagnava i capelli ambrati. Respiravo a fatica. Avevo corso per più di due chilometri, sotto la fredda e rilassante pioggia. Mi fermai sotto un albero, aveva grandi foglie verdi che non facevano arrivare l’acqua. Strizzai quanto potevo i vestiti e i capelli.  Respirai profondamente e ripresi a correre verso casa. La pioggia mi cadeva fredda sul collo, come tanti chiodi di ghiaccio. La strada era scivolosa e camminavo ai margini per attecchire più facilmente le suole delle scarpe al terreno. Cominciò a piovere più forte e il vento aumentò. Mi rifugiai sotto il tetto di un negozio, e guardai la pioggia che cadeva incessantemente. Era così rilassante e salutare, vedere come lei lavava la città del suo sporco. Un uomo dagli occhi a mandorla e dall’aria mesta uscì dal locale e m’invitò a entrare, secondo lui mi sarei ammalata di quel passo. Accettai con un largo sorriso, il locale era riscaldato da un cammino, l’ambiente era familiare. Rimasi ferma sulla soglia a guardarmi intorno. L’uomo mi fece segno di sedermi. Mi sedetti nello sgabello vicino al fuoco. Mi rilassai e sedetti scomposta, il calore mi riscaldava il cuore, procurandomi sollievo. Una cameriera che portava una graziosa sciarpa verde pistacchio al collo mi porse una cioccolata calda con panna e mandorle. Mi sorrise materna.
“Spero che tu non sia allergica alle mandorle”. Disse mentre tornava a servire i pochi clienti. Scossi la testa e bevvi profondamente, leccandomi la panna che si era depositata sulle labbra. La appoggiai sul tavolino di metallo davanti a me, mi alzai lentamente in piedi raggruppando la mia roba. La donna mi guardò di sottecchi e rise. L’uomo che prima mi aveva fatto entrare si frappose fra me e la porta.
“Scusi signore, non intendevo essere maleducata, ma io non ho con me dei soldi e non posso pagare il servizio che mi avete offerto”. Sussurrai intimidita dalla stazza dell’uomo. Lui sorrise malizioso.
“Non ti preoccupare bambina, pagherai in altro modo”. Sospirai lieve. La faccenda si metteva male. Mamma non ne sarebbe stata entusiasta. Mandai giù il groppo che avevo in gola e mi guardai in torno in cerca di una via di fuga. L’uomo e la cameriera si scambiarono uno sguardo d’assenso. Tornai a guardare l’uomo. Aveva una grande cicatrice nel mezzo della fronte, che col tempo era diventata rosata.
“E come potrei pagare, vi do la mia parola che tornerò domani con i soldi da casa”. Detto, questo cominciai a camminare verso l’uscita, ma l’uomo mi prese con forza il braccio tirandomi in dietro.  Mugolai di dolore e guardai la presa che aveva su di me. Lui mi strattonò portandomi sul retro del locale, scalciavo e mi dimenavo, la cameriera ci seguiva ad ogni passo. Io la fissavo spaventata, mentre l’uomo m’impediva di urlare tappandomi la bocca. La donna rise fragorosamente e prese una siringa tra le mani. I miei occhi si muovevano alternando il viso dell’uomo e l’ago della siringa che la cameriera stringeva fra le mani. Vacillai, ma mi presero prima che cadessi e m’iniettarono sotto cute una sostanza sconosciuta.  Forse è droga, mi vogliono uccidere, perché? Non ragionavo, la vista mi si annebbiava, non riuscivo a rimanere in piedi e la lingua impastata. Sembravo un cucciolo ferito. Mi vennero le lacrime agli occhi, ma non riuscivo a controllare il corpo, non ero in grado nemmeno a piangere! Mamma… Tremavo e vedevo sempre più annebbiato, fissai l’uomo, credo avesse lasciato la presa su di me. Una possibilità per scappare. Cercai di correre, di scappare, ma le gambe mi divennero molli e caddi rumorosamente sul duro pavimento di pietra. Cominciarono a ridere, ridevano di me. La cameriera mi diede un calcio, i tacchi mi perforarono il petto, lasciandomi senza aria. Ripresi fiato e mi alzai pesantemente. L’uomo aprì una grande porta blindata e mi ci buttò dentro. Caddi sulle ginocchia e cominciai a respirare affannosamente e a piangere. Dalle mani sbucciate mi usciva copioso il sangue. Mi voltai in dietro, la porta di schiuse in un boato, lasciandomi da sola e al buio, gattonai fino a battere la testa contro il muro, cambiai direzione, girandomi di sessanta gradi a sinistra e ricominciai a gattonare, fino all’angolo della camera. Mi rannicchiai portando le ginocchia al petto. Cos’ho fatto di male, ricominciai a piangere lacrime salate. Ho soltanto creduto alla gentilezza di un uomo e ora morirò o peggio… Persi i sensi, la droga mi oscurava la mente.
Giorno due.
Una luce si accese in un Click e in pochi instanti passai da un buio senza fine a una luce al neon che mi accecava. Socchiusi gli occhi cercando di abituarmi alla differenza di luminosità. Una donna entrò, aveva i capelli legati in una coda e alti tacchi blu, dietro di lei entrò un uomo, dall’aria minacciosa- li riconobbi subito, erano quelli che mi avevano imprigionato, mi guardai le mani, aprendole e chiudendole a mio ordine, avevo ripreso il controllo del mio corpo, potevo scappare, mi guardai intorno, dovevo solo aspettare il momento perfetto. La donna mi sorrise aveva un’altra siringa in mano e delle pillole dai colori accesi. L’uomo un termometro per ambiente. La cameriera si avvicinò e mi porse le pillole. Io le guardai, stringendole in un pugno. Lei sospirò esasperata.
“Questa non aiuta la tua attività celebrale”. Disse mentre mi metteva la siringa davanti agli occhi. L’uomo dopo aver posto il termometro sull’unico chiodo della camera si avvicinò a noi.
“Ti suggerisco di prendere le capsule che hai in mano, senza che io ti debba somministrare questa”. Disse agitando il siero. Deglutii. Che cosa vogliono da me? Incrociai lo sguardo dell’uomo, che mi sorrise amichevolmente.
“Che cosa sono?”. Dissi alludendo alle pillole. Lei alzò gli occhi al soffitto, poi velocemente tornò a fissarmi, strinse la siringa fra le mani e mi pugnalò il braccio con essa. No, non di nuovo! La vista cominciò ad annebbiarsi e la gola a farsi secca. La cameriera mi tappo il naso, costringendomi ad aprire la bocca e mi mise in gola le pillole, poi tenendomi chiuso naso e bocca me le fece deglutire, dopo mi lasciò andare. La gola mi doleva, non ero mai riuscita a digerire le pillole e una mi era andata di traverso, sputai saliva mentre loro uscivano dalla stanza e mi lasciavano al buio totale spegnendo la luce in un Click. Cominciai a sudare, avevo sete e fame. Tempo prima era uscita arrabbiata da casa perché la mia famiglia non voleva che io invitassi una mia amica e mi ero ritrovata in questo, chissà se ora mi stavano cercando, chissà da quanto ero imprigionata là dentro. Cominciai a piangere, di nuovo, questo non aiutava la mia sete.

Giorni quattro.
Riaccesero la luce, attendevo la loro entrata, la donna aveva un grosso livido sulla guancia e un labbro gonfio, l’uomo la seguiva, si diresse verso il termometro. La donna aveva in mano le solite pastiglie, un bicchiere d’acqua e del pane con una torta alle mandorle su un vassoio sopra la mano destra, nella sinistra stringeva la solita siringa con la solita sostanza trasparente all’interno.
“Sedici gradi, credo ancora tre somministrazioni e sarà pronta”. Disse l’uomo con lo sguardo sul termometro. La donna mi si avvicinò e posò il vassoio a pochi metri da me.
“Ho sete e fame”. Dissi secca, mentre guardavo la donna negli occhi, questi s’illuminarono. Con uno stimolo mi allungò il vassoio, fino a sfiorarlo. L’uomo si avvicinò a noi e mi fissò.
“Mangia allora”. Disse lei mentre non allontanava lo sguardo da me. Scossi la testa.
“Ho più fame e sete di questo”. La gola mi doleva. L’uomo mi prese per i capelli, tirandomeli violentemente. La donna fece segno di lasciarmi.
“Tu fa la brava bambina e ti porterò un’intera caraffa d’acqua e un bel pollo al forno”. Disse mentre mi sorrideva materna. Mamma… Sospirai, presi le pillole e me le infilai in bocca, inghiottendole. L’uomo mi aprì con forza la bocca, non opposi resistenza.
“Le ha inghiottite”. Disse acido, mentre si allontanava da me. La donna sorrise.
“Giacché sei così una brava bambina, ti lasceremo dieci minuti di luce per mangiare”. Si alzò e andò alla porta, l’uomo la seguì dandomi le spalle, aprirono e chiusero la porta. Ero sola, di nuovo sola, ma finalmente non ero drogata. Mi affrettai ad aprire la confezione della torta e la mangiai velocemente, bevvi metà del bicchiere e mi tenni il resto per le prossime ore o giorni.
Giorni cinque. Accesero la luce per una lunga frazione di tempo prima di entrare, la cameriera portava un cerchietto con delle renne sopra. Sono già arrivate le feste di Natale. Pensai tristemente. L’uomo entrò come da copione dopo di lei, sfiorandole i talloni. Si diresse verso il termometro. La donna si avvicinò a me sorridendo, aveva una un vassoio tra le mani e la siringa nella tasca destra. Guardai il vassoio con l’acquolina in bocca. C’erano biscotti al cioccolato, pollo al forno con salsa barbecue e una bottiglia di plastica d’acqua minerale. Respirai profondamente, inalando il dolce odore. La cameriera posò il vassoio per terra a pochi metri da me e lo spinse con i piedi, poi con estrema cautela estrasse la siringa dalla mano, togliendole il tappo di plastica protettivo.  L’uomo ci si avvicinò.
“Ventitré gradi, tra poco raggiungeranno il calore ideale”. Disse rivolgendosi alla donna. Avvicinai il vassoio e mi avventai sul cibo, mangiando il pollo con le mani, sporcandomi la maglietta di salsa, alternando il pollo a dell’acqua. La donna mi guardava disgustata.
“Ora basta, prendi prima le compresse”. Disse lei porgendomi le pillole colorate. Io le presi lentamente, rigirandomele fra le mani, studiandole.
“Non mi drogherete, vero?”. Dissi mentre avevo lo sguardo fisso su una capsula in particolare che aveva un colore rosso acceso. La donna mi guardò, senza alcun timore di incrociare il mio sguardo. Riflessi il volto nei suoi occhi, quanto erano scuri.
“Ingoia quelle pillole senza discutere”. Disse acida. L’uomo si avvicinò a me, pronto a ferirmi a un suo ordine. Deglutii. Mi buttai in bocca le pillole e le ingoiai, ingerendole con dell’acqua.  La donna mi sorrise radiosa. Si alzò velocemente da terra, dandomi le spalle. L’uomo mi fissava, come fossi un esperimento di laboratorio.
“Hai dieci minuti e poi spegniamo la luce”. Disse fredda mentre camminava verso la porta. Io ingoiai la saliva che avevo in bocca e respirai profondamente. La porta si richiuse alle loro spalle. Attesi qualche secondo. Mi alzai, guardandomi in torno. Le gambe mi cedettero e caddi con le ginocchia. Mi rialzai lentamente. La camera era color ruggine.
“Sembra rame”. Dissi in un sussurro. Il tono della mia voce mi faceva sentire meno sola. Non c’erano finestre. Mi avvicinai alla porta, appoggiandoci l’orecchio. Ci bussai. Sembrava pesante. Abbassai la maniglia, la porta era chiusa a chiave. Presi velocemente il piatto di plastica del pollo e cercai di passarlo tra la fessura della porta, era troppo stretta. La luce si spense.
“Cavolo!”. Mi abbassai a terra e gattonai fino all’angolo in cui era posto il cibo. Cercai tentoni il pollo e cominciai a morderlo, arrivai fino all’osso e me lo tenni accanto a me, poteva essere utile. Poi l’acqua, con due mani, battendole come per applaudire per afferrarla senza farla cadere, la trovai dopo poco e ma lo portai alla bocca, poi la appoggiai cautamente su dove credevo si trovasse il vassoio, cercai i biscotti e li masticai piano, la cioccolata era appiccicosa e aveva un gusto amaro. Finiti i biscotti, mi alzai in piedi e mettendo l’osso in tasca, avvicinai le mani al muro, girai in tondo fino ad arrivare al termometro che adagiai a terra, limai l’osso fino a farlo diventare appuntito sul ferro arrugginito. 
Giorni sei. Ti fa sentire potente, invincibile avere un’arma con te, anche se non la sfoderi. Avevo l’osso appuntito dietro la schiena, sotto la maglia e aspettavo che entrassero per scappare, forse sarei rimasta ferita nell’intento o forse mi avrebbero ucciso, ma sempre meglio che morire da vigliacchi. Non sono mai stata una ragazza paziente e se oggi lascerò questo mondo, non lo sarò mai. Non mi avrebbero mai lasciato libera, non prima di avermi tagliato un dito o due. Vedo davvero troppo Criminal Mind.  Accesero le luci, il familiare Click riempì la stanza. Cominciai a contare mentalmente quanto ci mettevano a entrare. Attesi seicentoventuno secondi, all’incirca dieci minuti e mezzo. La cameriera entrò, indossava una minigonna rossa e una camicetta d’oro, dietro di lei entrò un uomo, non il solito uomo, ma un giovane di circa vent’anni di corporatura media e pelle abbronzata, dietro di lui, il responsabile del locale. Il ragazzo mi fissava scrupoloso, come fossi un esame da laboratorio, forse ero proprio quello. La donna aveva in mano il solito vassoio, con insalata, pesce e gelato al cioccolato e una caraffa d’acqua. Ero malnutrita, mangiavo sola una volta il giorno, o quello che pensavo fosse un giorno, ma le pietanze erano buone. In un bicchierino di plastica erano state messe le pillole dai colori accesi. Mi passò il vassoio appoggiandolo per terra e passandomelo con un calcio. Inghiottii le pillole e mi avventai sul cibo. Dovevo essere paziente, uscita da lì, mi avrebbero curato. La donna annuiva sorridente. Il capo del locale non venne neanche a controllare se avevo preso realmente le pillole, per quanto in fretta ingurgitavo il cibo, andò invece al termometro, controllando come a suo solito la temperatura, chissà se accendevano i termosifoni, da quando ero lì, mi sembrava fosse leggermente aumentata, le seguenti parole furono per me una conferma.
“Trentacinque c’è, un ultima volta ed è pronta!”. Disse smanioso e raggiante. Il ragazzo lo guardò, senza mutare espressione. La donna sorrise e mi guardò materna. Io socchiusi gli occhi e posai la mano dietro la schiena, sfiorando il pugnale. Troppe persone, non so nemmeno se ce la farò con due. Ricominciai a mangiare mettendomi in bocca tutto il gelato in una volta.
“La fame aumenta”. Disse la donna mentre teneva lo sguardo fisso su di me, le sorrisi. Ritornai ad avventarmi sul cibo, finito il pasto bevvi la bottiglia d’acqua in un solo sorso. Il nuovo uomo annuì.
“Credo sia abbastanza, tornerò domani”. Disse secco e se ne andò, uscendo dalla massiccia porta come se niente fosse. I miei rapitori lo seguirono. Spensero la luce due minuti dopo.
Giorni sette. La fanno facile nei film, il cattivo o i cattivi perdono sempre e il bene vince, io sono il bene, i miei rapitori, i cattivi e allora perché non sono ancora uscita da qui. Il coltello mi aveva ferito la schiena durante la notte, graffiandomela. Cominciavo ad avere fame, tra pochi istanti sarebbero tornati, con quell’uomo, era spaventoso, la sua calma mi faceva fremere i nervi. Molti racconti narrano della quiete prima del disastro, ed è esatto, quando c’è stato il terremoto in Giappone, prima il mare si era ritirato e molti erano andati a vederlo, prima del disastro c’è la calma. Accesero la luce, interrompendo i miei pensieri. Cominciai a contare. Seicentoventinove secondi, all’incirca dieci minuti e cinquanta. Sempre di più. Entrarono con il solito ordine, la donna portava nel vassoio le solite pillole e un accendino, niente cibo. L’uomo dietro di lei, il ragazzo aveva una telecamera in mano e il direttore del locale andò a controllare la temperatura. Con un sorriso nella bocca sdentata annunciò la temperatura, cosa centrasse con me non l’avevo ancora scoperto.
“Quarantadue, è un forno!”. La donna sorrise raggiante, con lei il ragazzo. Fico, sono davvero un esperimento da laboratorio. Pensai sarcastica. La donna schioccò le dita e il ragazzo accese la telecamera, puntandomela a dosso. Lei cominciò a parlare.
“Questo è l’esperimento numero 0024, applicato all’elemento fuoco, il soggetto gode di buona salute è femmina e ha un’età di sedici anni. Nei giorni abbiamo somministrato lei quattro volte il siero Brann999”. Mi girò attorno, prendendo l’accendino dal vassoio. Prese fiato.
“Un passo in dietro, non sappiamo se e quanto il siero abbia attecchito”. Disse mentre accendeva l’accendino. Si girò verso di me, guardandomi fissa negli occhi. Io la guardai intimorita. Lei mi sorrise diabolica, gli zigomi si accentuarono e la bocca si allargava, svelando denti bianchissimi. Mi butto l’accendino acceso a dosso. Cercai di proteggermi con le mani, inutilmente, sentii un colpo sulla spalla quando l’accendino mi cadde a dosso, ma non mi scottai. Aprii gli occhi per controllare se si fosse spento, era acceso ed io avevo preso fuoco. Forse è lo choc. Tutti mi guardavano sorridenti. Mi misi la mano infuocata davanti agli occhi, girandola per controllare le scottature. Nessuna, la mia pelle non reagiva al calore. Mi tolsi l’accendino di dosso, buttandolo lontano da me. Il fuoco cessò in quell’istante.
“Sorprendente”. Disse il cameraman. Io mi guardai sbalordita e d’impulso tirai fuori l’osso appuntito, si era bruciato e con esso i vestiti. Io no, non mi ero neanche scottata. Che malattia era mai questa.
Giorni undici. Sono molti giorni che non mangio, lo avverto, quello che credevo fosse il giorno dopo la rivelazione della strana malattia, mi aspettavo l’accensione delle luci e che venissero a portarmi del cibo, ma niente, il buio completo inondava la stanza.  Ora udivo il ticchettio di passi in lontananza. La luce si accese nel solito Click mi alzai in piedi, cercando di non perdere l’equilibrio, era pronta a usare la mia arma, anche se fossero stati in trecento! Mi appostai al lato, dove la porta si apriva. Sarei scappata e se avessero osato fermarmi li avrei pugnalati con l’osso appuntito. Era strano che non me lo avessero tolto. La donna aprì la porta e camminò avanti per lasciar passare il ristoratore, fermai la chiusura della porta con la mano e la aprii per scappare, l’uomo mi afferrò per i capelli, tirandomeli e mi riportò dentro la cella, io gli mollai un fendente, dalla ferita sgorgò sangue non appena ritrassi il pugnale, l’uomo non esitò e con un calcio mi mandò a faccia a terra, sputai sangue dalle labbra lacerate. Chiusero la porta. La mia unica via d’uscita.  La donna mi guardava dall’alto, rovesciandomi a dosso la zuppa calda e l’acqua che teneva del vassoio.
“Se non fai la brava, non mangi”. Disse come per addestrare un cane. La donna prese dalla tasca la siringa e me la inietto nel braccio. Persi i sensi. 
Giorni dodici. La stanza era illuminata, strano. Pensai. Mi alzai in piedi, vacillando per la fame. Sapevo che una persona poteva sopravvivere sette giorni senza acqua. Speravo che fosse passato molto meno. Girai per la stanza passando la mano sui muri, notai uno specchio posto accanto al termometro. Guardai il mio riflesso, mi avevano rasato e marchiata sul palmo della mano. Nella mano ora avevo una cicatrice rosata con la forma del sole. Mi avevano vestito con un camice da malato. Mi riflessi nuovamente, sperando che stavolta avessi ritrovato i miei capelli. Non accadde, gli occhi erano valorizzati dalle occhiaie profonde e scintillavano. Entrarono in un grande frastuono, dietro di loro un gruppo di persone, dall’apparenza erano medici. La donna mi guardò malamente, indossava una parrucca fatta con i miei capelli. Vomitai, ma non avendo mangiato niente non ne derivò altro che un rantolo.
“E’ pronta per i test”. Annunciò il capo del ristorante. I medici annuirono, uno di loro prese dalla tasca un accendino. Me lo tirarono, lo presi al volo.
“Accendilo ed espandi il suo calore con la mente”. Mi disse uno di essi. Io rimasi immobile, con lo sguardo vuoto e l’accendino stretto nella mano. Che cosa stupida!
“Se farai come ti diciamo noi, ti lasceremo andare”. Disse la cameriera. Io la guardai malamente. Come se l’avessero fatto davvero.
“Potrebbe essere l’unico portatore attivo del Brann999”. Obbiettò uno dei medici. La cameriera fece loro segno di stare in silenzio.
“Tornerà, ora fa come ti dicono e fra un’ora sarai fuori da qui”. Dovevo almeno tentare, se fossi uscita, sarei tornata a casa e dopo li avrei denunciati. Accesi l’accendino, la fiamma mi riscaldò la mano.
“Ora pensa a irradiare il fuoco intorno a te”. Risi silenziosamente. Mi sentivo stupida a pensare di  -irradiare il fuoco intorno a me-.
“Stupefacente è un portatore attivo del Brann999”. Disse uno dei medici. Io aprii gli occhi, scoprendo che stavo nuovamente bruciando viva. La donna si avviò alla porta aprendomela.
“Vai, ma ricorda, tornerai da noi”. Risi amaramente.
“Certo, con la polizia e tutto il resto”. La donna mi guardò cupa e fece cenno che me ne dovevo andare prima che ci ripensasse.
“Lilith non ne sarà contenta!”. Obbiettò un medico. Il capo del bar gli fece cenno di stare in silenzio. Avevo i piedi scalzi e sembravo appena uscita da un ospedale e conoscevo anche la mia finta malattia, da come i capelli mi erano stati rasati. Cominciai a correre verso casa. Il sole splendeva alto nel cielo e mi riscaldava le membra. Suonai il campanello di casa. Mia madre aprì alla porta, appena mi vide il suo volto s’illuminò e mi abbraccio forte, quasi stritolandomi. Poi cominciò a urlare dal terrore. Aprii gli occhi per vedere cosa stava succedendo. Mia madre ed io stavamo bruciando vive, solo che io non ne sentivo il dolore. La vita lasciò il corpo di mia madre poco dopo. Non era una fiamma normale, bruciava più velocemente colpendo all’istante gli organi vitali, riducendoli in polvere. Mio padre corse fuori dalla casa, il suo sguardo andò subito verso mia madre, morta sull’uscio della casa, poi a me.
“Cos’è successo?”. Mi chiese mentre mi veniva in contro per abbracciarmi, mi scostai per non toccarlo. Lui guardò amaro il mio movimento.
“Cos’è successo a tua madre, rispondi!”. Urlò con le lacrime agli occhi.
“E’ morta, sono stata io a ucciderla”. Dissi triste con lo sguardo rivolto al basso. Mio padre mi schiaffeggiò, bruciò vivo anch’esso insieme con me. Con le lacrime agli occhi indietreggiai correndo. Tornai al bar, correndo, dove la cameriera mi attendeva sorridente. La guardai sconvolta.
“T’insegnerò a controllarti”. Disse sorridente.
“Tu sapevi che al mio tocco tutti muoiono!”. Lei rise.
“Sì, certo”. Lei mi stava accuratamente a distanza, cercai di toccarla, ma lei si abbassò con i riflessi all'erta.
“Che cosa sono ora?”. Chiesi rassegnata al mio destino.
“Un’incendiaria”. Disse beffandosi di me.
Giorni quindici. Avevo scoperto di essere un’incendiaria, al mio tocco la gente intorno a me moriva, avevo cercato più volte nel corso dei tre giorni di toccare la cameriera e il ristoratore, ma loro schivavano le mie mosse. Stanno coltivando i miei poteri, il loro intento e che un giorno potrò incendiare uno stato intero sono la nuova arma contro la lotta per il nuovo mondo, presto una certa Lilith verrà a prendermi, mi porterà nel suo castello e poi combatteremo insieme per una guerra che non mi riguarda, per far accedere tutto questo dovranno passare sul mio cadavere. Per ora credo di poter riuscire a incendiare l’intero locale ma dato che la mia cella è ricoperta di rame, il fuoco non la oltrepassa, ho un nuovo piano, la prossima volta che entrano li brucerò vivi. Si accesero le luci. 

  
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