Anime & Manga > Lupin III
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Autore: serenestelle3    14/05/2013    1 recensioni
Insieme agli inseparabili Jigen, Goemon e Fujiko, Lupin si reca a Montelusa, in Sicilia, per compiere quello che potrebbe diventare uno dei suoi colpi più celebri. Anche questa volta sulle loro tracce c’è l’infaticabile Ispettore Zenigata, che sarà affiancato da una figura proveniente dal suo passato. Quello che né Zenigata né Lupin e i suoi sospettano è che la Mafia sa del loro arrivo e ha organizzato un comitato di benvenuto tutt’altro che amichevole. Un cross-over con le storie di Camilleri su Montalbano.
Genere: Avventura, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Goemon Ishikawa XIII, Koichi Zenigata, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Tematiche delicate
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III – Le camurrìe sono come le ciliegie.
 

Nota dell'autrice; i personaggi di questo capitolo si esprimono nello stile dei romanzi di Camilleri, quindi in italiano contaminato da espressioni dialettali siciliane. Se non siete abituati ai romanzi o non capite qualcosa vi suggerisco la sezione "Il Camilleri-linguaggio" sul sito del Camilleri Fan Club, www.vigata.org
 


Quella mattina, mentre andava in ufficio, Montalbano notò che il traffico era notevolmente aumentato negli ultimi giorni.

In seguito al ritrovamento del fantomatico tesoro perduto di Gelone, sembrava che gli affittacamere e gli albergatori di Montelusa avessero fatto il tutto esaurito. Ai turisti e ai curiosi provenienti da ogni angolo del globo non era rimasta altra scelta che accamparsi nei comuni più vicini, come Vigata e Calascibetta.

Tutto quel trambusto avrebbe normalmente ridotto il commissario fuori dalla grazia di Dio; e invece ottenne l’effetto contrario. Se andavano tutti verso gli scavi archeologiche, significava che la spiaggia sotto casa sua, a Marinella, sarebbe stata relativamente tranquilla per tutto il giorno. La sera, poi, quelle orde di invasori sarebbero state troppo stanche dopo una lunga giornata per gozzovigliare in riva al mare, mentre lui avrebbe potuto godersi la frescura della sera e il rumore della risacca senza tante rotture di cabasisi. Il cielo sgombro di nuvole, unito al mare cristallino e a un venticello leggero che rinfrescava l’aria, avevano il potere di rallegrare il cuore al Commissario.

Scambiò qualche amichevole gestaccio con gli altri automobilisti imbottigliati nel traffico, ma con poca convinzione e un sorrisetto di scuse, come a dire che lo faceva più che altro per abitudine. Nell’ultimo metro di strada si mise persino a canticchiare a bocca chiusa. Smise solo una volta che fu all’altezza del commissariato; non voleva che i suoi colleghi lo credessero impazzito.

Appena mise piede nell’ingresso, vide Catarella correre trafelato verso di lui.

“Ciao, Cataré, che hai?”

“Ah, dottori dottori! Ci sta Fazio di là, chiede di parlare pirsonalmente di pirsona con vossia!”

“A quest’ora?”, chiese sorpreso Montalbano, sentendo svanire di colpo il buonumore che l’aveva accompagnato fin lì. “E che fu? Che successe?”

Catarella allargò le braccia, sconsolato.

“Nun lu sacciu, dottori. Fazio dice che la cercò alla casa sua di lei, ma che siccome lei non si trovava in casa…”

“Hai gana di babbiare, Cataré? Certo che ero in casa!”

Ma poi si ricordò che la sera prima aveva staccato il telefono e si era dimenticato di riattaccarlo. Del resto, aveva un ottimo motivo per isolarsi dal mondo; Adelina gli aveva fatto trovare in frigo i suoi paradisiaci arancini, quei capolavori inenarrabili che la fedele cameriera preparava solo di tanto in tanto secondo una pregiatissima ricetta di famiglia.

“Vabbé”, sospirò il Commissario, rassegnato. “Vado a vedere che vuole Fazio. Senti, Cataré, se mi cercano al telefono, io non ci sono per nessuno, capito?”

“Sissi, dottori”, rispose Catarella, saltando prontamente sull’attenti.

Fazio era seduto dietro la scrivania del suo ufficio, occupato con alcune carte dall’aspetto ufficiale. Al solo vederle, Montalbano si sentì assalire da una violenta orticaria; se c’era una cosa al mondo che odiava, e che probabilmente aveva odiato anche nelle sue vite precedenti – ammesso che ne avesse avute – era proprio dover firmare scartoffie.

“Fazio, ti ci metti anche tu a scassarmi i cabasisi di primo mattino?”, lo apostrofò sgarbatamente, indispettito al pensiero della tortura che lo attendeva se davvero quelle carte erano riservate a lui.

“Mi scusasse, dottore. Ma ho pensato che era meglio se lo sapeva. Aieri a sira mi telefonò un amico della Polizia di Frontiera per contarmi una facenna stramma…”

“E tu contala pure a mia”, fece Montalbano, incrociando le braccia sul petto.

Fazio, che conosceva il carattere del suo superiore, rispose con una domanda.

“Dottore, l’ha sentito che il tesoro del Tiranno…?”

“Sì, andrà in parte al Museo di Montelusa”, ribatté Montalbano, sempre più irritato.

“Fra una simanata e mezzo si terrà l’inaugurazione ufficiale.”

“Lo so. E tu mi telefoni a casa per venirmi a dire queste minchiate?”

“Dottore, aspetti a giudicare. All’inaugurazione capace che sarà presente anche la Sovrintendenza dei Beni Culturali…”

“Capace di sì, Fazio, hanno organizzato loro gli scavi!”

Fazio gli lanciò un’occhiata quasi compassionevole.

“Dottore, davvero non se lo ricorda? Alla Sovrintendenza ci lavora a Nicolò Cuffaro, che è vigatese, figlio di Cuffaro Gerlando, che è uno dei nipoti di…”

“Di Don Sìsìno Cuffaro”, concluse per lui Montalbano. “Fazio, lo so. La cosa non piace neppure a mia, ma che ti posso dire? Finché Nicolò Cuffaro non fa qualche cazzata, noialtri teniamo le mani legate.”

“Dottore, stavolta la cazzata, con rispetto parlando, l’ha fatta accettando di presenziare all’inaugurazione.”

“Non è un crimine, Fazio. Rientra nei suoi doveri di sovrintendente e nei suoi diritti di libero cittadino.”

“Dottore, come le stavo contando, l’amico mio che sta alla Frontiera mi fece avere via fax il passaporto di uno che due giorni fa arrivò all’aereporto di Trapani.”

“Embè?”

“Sempre l’amico mio disse che il nome sul passaporto gli pareva di averlo già sentito. Così mi feci pirsuaso a svolgere qualche ricerca. E la sa una cosa?”

“No”, rispose il Commissario, che a quel punto era sinceramente confuso. Fazio sorrise, come un prestigiatore sul punto di eseguire il più formidabile dei trucchi

“Il passaporto appartiene a un tale Calogero Di Mauro.”

“E chi è?”

“Ho fatto qualche ricerca. Nato a San Paolo, in Brasile…”

“Aspetta. E’ figlio di emigrati?”

“Sissi, dottore. Questo Calogero Di Mauro è un quarantino, non maritato. Ufficiosamente, travaglia come ricercatore universitario in una facoltà di Storia.”

“E ufficialmente?”

“Ufficialmente, è figlio del fu Diego e della fu Antonietta Sinagra”, rispose Fazio, con gli occhi scintillanti.

Montalbano rimase senza fiato. Prima che potesse dire qualcosa, però, Fazio proseguì;

“E c’è di più. Diego Di Mauro, il padre, scappò in Brasile poco dopo che ci fu un’ammazzatina qua da noi, in cui perse la vita la cugina di Don Lillino Cuffaro, il figlio di Don Sisìno.”

“Non me lo ricordo.”

“E certo, dottore, lei ancora a Mascalippa stava”, fece il sottoposto, ridendo di cuore. “Comunque prove non ne trovammo, fatto sta che Diego Di Mauro mollò capra e cavoli e si portò la famiglia al sicuro, lontano dall’Italia e dalla mano di Don Sisìno. Sennonché diversi anni doppo, quando il figlio è decino, Diego Di Mauro muore sparato. Un colpo solo in mezzo agli occhi. Sul catafero ci sono i documenti, i soldi, nulla che faccia pensare a una rapina.”

“Mentre tutto fa pensare a una vendetta organizzata dai Cuffaro,” rifletté Montalbano.

Fazio annuì.

“Quindi questo Calogero cresce, aspetta l’occasione buona per vendicare il padre, e quando sente che  Nicolò Cuffaro lavora alla sovrintendenza di Montelusa, decide di approfittarne. Ha il porto d’armi?”

“Sissi, dottore. Lo prese qualche anno fa, doppo che un pazzo per poco non lo sparò. Quistioni di fimmine.”

“Ti sei informato bene”, si congratulò Montalbano. “Sei riuscito a sapere dove alloggia Di Mauro?”

“A Montelusa, con un vecchio professore amico so’.”

“Fazio, se sta a Montelusa, noi purtroppo in questa faccenna non possiamo entrarci. Anzi, dovremmo passare tutti gli atti alla procura.”

Fazio fece una faccia scura, da due di Novembre.

“Ma io non credo che Calogero agirà all’inaugurazione”, proseguì Montalbano, che ora seguiva il filo dei suoi pensieri. “Secondo me l’ammazzatina a Cuffaro si terrà qua da noi.”

“Babbia?”, domandò incredulo Fazio.

“Assolutamente no. Fazio, a Montelusa ci sta il Barone, ti ricordi?”

Riccardo Barone, un ricco imprenditore del posto, era stato al centro di alcune indagini su un caso di riciclaggio e contrabbando di armi da taglio. Anche se gli inquirenti non erano riusciti a trovare nessuna prova decisiva a suo carico, Montalbano si era persuaso che il Barone avesse agganci con la mafia. E una conferma in tal senso era arrivata più tardi per bocca dell’onorevole Vannicò, storicamente legato alla famiglia dei Sinagra. Se si doveva stare a sentire Vannicò, il Barone non solo era un mafioso lui stesso, ma comandava un clan particolarmente agguerrito, che nel giro di un ventennio aveva triplicato il suo giro d’affari ed esteso il suo raggio d’azione ben oltre i confini della Sicilia.

Montalbano vide che Fazio si illuminava in viso.

“Quindi, dottore, vossia si è fatto persuaso…”

“Bada bene che è solo una mia idea. Se Calogero Di Mauro ammazza Nicolò Cuffaro a Montelusa, o il Barone è stato avvertito prima e ha dato il permesso, oppure per i Sinagra e i Cuffaro sono cazzi amari. Secondo me, Di Mauro chiederà a Nicolò di incontrarlo qua a Vigata.”

“Perché proprio a Vigata, scusi?”

“Perché è territorio delle due famiglie, Fazio”, rispose Montalbano, scoccandogli un’occhiata infastidita. “In questo modo, una volta vendicato a Diego di Mauro, possono far passare la cosa per una vendetta ordita dai Sinagra, mentre l’esecutore materiale è libero di tornarsene in Brasile. E a quel punto, ti saluto e sono. Bih! Che grandissima camurrìa!”

In quel mentre entrò il vice di Montalbano, Mimì Augello. Come al solito era in forma impeccabile, senza un capello fuori posto e con l’aria rilassata di chi ha trascorso la notte sollazzandosi in compagnia femminile. Montalbano gli era sinceramente affezionato, lo considerava allo stregua di un fratello; ma quand’era di cattivo umore – e le scoperte di Fazio avevano cancellato in un lampo la spensieratezza di quel mattino, così come ogni residuo della mangiata di arancini – Mimì aveva il potere di dargli sui nervi come nessun altro, in commissariato.

“Allora, che novità ci sono?”, chiese sorridendo Augello.

“Te lo conta Fazio”, ribatté Montalbano, sgarbato. “Io vado nel mio ufficio.” E uscì senza neppure degnare di un saluto né il suo vice, né Fazio.

“Ma che ho detto di male?”, fece Augello.

Per tutta risposta, Fazio allargò le braccia, come a dire è fatto così.

 



“Domando pirdonanza, dottori.”

“Dimmi, Cataré”, sospirò Montalbano, che era seduto da mezz’ora alla sua scrivania a rimuginare sulla faccenda di Calogero Di Mauro.

“Tilefonarono adesso per lei di pirsona personalmente. E io, come vossia mi disse di fare, gli arrisposi che lei personalmente di persona non c’era.”

“Sei stato bravo, Catarè. Congratulazioni.” Nel pronunciare quelle parole, il Commissario si sforzò di usare un tono il meno sarcastico possibile, il che non era affatto facile.

“Grazii, dottori.”

Catarella sembrava stranamente restio a tornarsene al centralino. La sua esitazione fece squillare un campanello d’allarme nel cervello di Montalbano; magari al telefono c’era Livia,  oppure il Questore Bonetti-Alderighi, con cui Montalbano si era trovato ai ferri corti fin dal primo giorno.

“Ti hanno detto chi erano?”, domandò cautamente.

“Dottori, io mi dubitavo se contarglielo o no”, rispose sollevato Catarella. “Siccome che vossia mi aveva espressamente comandato di dire che in ufficio non …”

“Catarè, posso sapere chi era al telefono o no?!”

“Al tilefono ci stavano i signori Cocchi e Renata che chiedevano di parlari con lei di lei.”

“I signori chi?!”, allibì Montalbano.

“I signori Cocchi e Renata, dottori. Quelli della tilevisioni.”

Montalbano rimase letteralmente di sasso. Vuoi vedere che i pochi neuroni superstiti nel cervello di Catarella avevano deciso di dare forfeit?

“Catarè, ma sei sicuro che hanno detto di chiamarsi proprio così?”

“Cocchi e Renata dissero, dottori! Lo giuro!”

“E che vogliono questi signori?”

“Ci vogliono parlari dei lupi, dottori.”

“Quali lupi?”, chiese il Commissario, sempre più stupito.

“Nun lu sacciu, dottori. Qualichicosa che c’entra il Giappone.”

“Senti, Cataré, vedi se riesci a richiamarli e poi passameli.”

“Ma dottori, vossia mi disse allora allora…”

Subito!”, sbraitò Montalbano, esasperato. Catarella fece un salto di un metro sentendo il suo superiore alzare la voce; fece un inchino ridicolo e si precipitò fuori dall’ufficio, blaterando una profusione di scuse e sproloqui.

Dopo neppure dieci minuti, il telefono sulla scrivania del Commissario si mise a squillare.

“Pronto? Montalbano sono.”

“Buongiorno, Commissario”, rispose una voce maschile e impostata dall’altro capo del telefono. Aveva un marcato accento giapponese, il che poteva spiegare almeno una parte del delirio di Catarella. “Spero di non disturbarla”, proseguì l’uomo, scandendo lentamente le parole come chi non è abituato a esprimersi in una lingua straniera. “Sono l’Ispettore Koichi Zenigata, dell’Interpol.”

L’Interpol? E che vogliono da me?, si chiese stupito Montalbano.

“Mi dica, Ispettore. Posso fare qualcosa per lei?”

“Forse sì. Mi dica, lei ha mai sentito parlare di un ladro chiamato Lupin?”

“Quello dei romanzi di Leblanc?”, azzardò il Commissario, a cui ormai pareva di trovarsi in un film demenziale di quelli dove ti riprendono a tua insaputa.

“No, un suo discendente. Per l’esattezza, si tratta del nipote. Lupin III.”

“Ah, sì, ne ho sentito parlare”, disse Montalbano, accigliato. “Mi pare che abbiano girato persino un paio di film su di lui…”

“Già”, rispose Zenigata in tono tetro. “E hanno fatto collezionare al mio personaggio una serie di figuracce.”

“Ispettore, la capisco, ma che ci vuol fare? Anche su di me hanno girato una serie tv con un attore che neppure mi somiglia…”

Montalbano cercava disperatamente di mostrarsi calmo, ma se quella conversazione surreale non fosse finita subito, sentiva che si sarebbe messo a urlare. Un Ispettore dell’Interpol che gli telefonava in ufficio per parlare di trasposizioni filmiche? Ma quando mai?

“Ad ogni modo”, proseguì Zenigata, dopo qualche istante di silenzio, “la chiamo per un motivo ben specifico. Abbiamo ragione di credere che Lupin abbia lasciato l’ultima sua base accertata, a Tokyo, per raggiungere la provincia di Montelusa e rubare quel tesoro archeologico di cui parlano i giornali. Il tesoro perduto…”

“… di Gelone, sì. Però, mi scusi, perché lo viene a dire a me? Io a Vigata sto, a sei chilometri dalla provincia.” Invano cercò di ricordare se in Giappone si usasse un’altra unità di misura; per fortuna, Zenigata lo trasse d’impaccio.

“Lo so, commissario. Ma uno dei Sovrintendenti alle Antichità che hanno organizzato gli scavi ci risulta appartenere a una famiglia malavitosa che opera principalmente nella sua città. Un certo Nicolò Cuffaro”, disse, pronunciando con evidente difficoltà il nome italiano.

A quelle parole, il povero Montalbano rimase impalato di fronte al telefono come un baccalà.

“Commissario?”, domandò sorpreso Zenigata. “E’ ancora lì?”

“Sì, Ispettore, ci sono. Mi dice una cosa? Ma lei come fa a sapere di Nicolò Cuffaro?”

Dall’altra parte del telefono giunse una risata. “Sappiamo fare il nostro lavoro qui all’Interpol, Commissario.”

“Lo vedo”, ammise Montalbano a denti stretti. In neanche mezz’ora di telefonata, l’Ispettore Zenigata era già riuscito a stargli solennemente sui cabasisi.

“Sospettiamo che Lupin voglia mettersi d’accordo con questo Cuffaro per trafugare il tesoro. Vista la posizione privilegiata di quest’ultimo, far sparire la refurtiva appoggiandosi ai suoi complici di Vigata non sarà difficile.”

“Quindi, lei mi sta chiedendo di tenere d’occhio i movimenti della famiglia Cuffaro?”

“Essenzialmente sì.” Zenigata esitò per un attimo. “Commissario, sarò onesto con lei. Ho dedicato tutta la mia vita a correre dietro a Lupin da un angolo all’altro del globo.”

Cosa dovrei rispondere? Complimenti?, si chiese Montalbano.

“Molto ammirevole da parte sua, Ispettore.”

“Grazie. Sento che questa è la volta buona per arrestarlo, finalmente. Ci tengo molto. Per questo mi sono permesso di chiedere il suo aiuto; lei è piuttosto famoso, qui all’Interpol.”

Ancora una volta, Montalbano restò senza parole. Non era abituato alla popolarità e alla fama; sotto i riflettori Mimì Augello gli dava decisamente dei punti.

“Commissario?”

“Sì, mi dica”, fece lui, riscuotendosi dallo sbalordimento.

“Posso contare sulla sua collaborazione per questa indagine?”

“D’accordo, Ispettore. Faremo tutto il possibile. Mi tolga una curiosità; lei in questo momento da dove sta chiamando?”

“Sono atterrato proprio oggi a Palermo. Mi fermerò in Italia fino all’inaugurazione del tesoro; conoscendo Lupin, cercherà di approfittare della situazione per dare il massimo risalto al colpo.”

“E noi terremo gli occhi aperti. Ispettore, la saluto e la ringrazio per averci voluti informare”, concluse Montalbano. Non appena ebbe riattaccato il telefono, sbraitò; “Fazio! Augello! Subito nel mio ufficio!”

Fazio e Augello entrarono a precipizio.

“Oddio, che fu?”, chiese Mimì, con l’aria di chi aspetta di sentire che è scoppiata una guerra.

“Assittatevi tutti e due, che vi devo contare una cosa”, ordinò Montalbano. “Fazio, hai informato il dottor Augello di Calogero Di Mauro?”

“Sì, me l’ha detto”, fece Augello.  “E allora?”

“E allora non c’è solo Di Mauro a interessarsi di Nicolò Cuffaro. Mi ha telefonato un Ispettore dell’Interpol dicendo che lo cercano da Tokyo, in Giappone.”

A quelle parole, tanto Fazio quanto Augello fecero un salto sulla sedia.

“Minchia!”, esclamò Mimì.

“Con la Yakuza s’è sciarriato?”, chiese Fazio con un filo di voce.

“La Yakuza non c’entra. Adesso vi spiego”, fece Montalbano. Rapidamente, riferì la conversazione che aveva avuto con Zenigata e i suoi sospetti che il fantomatico Lupin III potesse mettersi in affari con i Sinagra. Alla fine, Mimì corrugò la fronte.

“Non mi piace”, disse.

“Eh”, convenne Montalbano. “Se è per quello, nemmeno a mia. Adesso le camurrìe attorno al tesoro sono due.”

Fazio ridacchiava fra sé.

“Dottore, questa è troppo bella! Io, le pillicole su quel Lupin, tutte me le vidi.”

“E bene facesti, Fazio”, osservò Montalbano, votandosi verso di lui. “Allora puoi darci un’idea di come lavora.”

“Ma le pillicole non contano”, ribatté piccato Augello. “Sono roba di finzione, di fantasia.”

“Mimì, finché non abbiamo modo di incontrare quest’Ispettore dell’Interpol, dobbiamo arrangiarci con i mezzi che abbiamo. Fazio, che sai di questo Lupin?”

“Dunque, dottore. In primisi, Lupin è un mago degli ammucciamenti. Cambia faccia ogni volta che gli gira. In secundisi, i colpi generalmente non li fa da solo, ma in compagnia di due complici. Uno di questi è un cecchino miricano, non mi ricordo se di Nuovaiorca o qualche altro posto. L’altro è giapponese, tiene una specie di spada che taglia pure l’acciaio.”

Mimì Augello fece un verso sarcastico, tipo ‘tsk’.

“Quindi sono da considerarsi armati e pericolosi?”, chiese Montalbano, inarcando le sopracciglia.

“Armati sì, dottore. Pericolosi, dipende. Quando può, Lupin cerca di arrubare e basta, senza spargimenti di sangue.”

“Vuoi dire una specie di ladro gentiluomo, come Luthring?”

“Sissi, dottore. Ah, dimenticavo, putacaso che con loro c’è anche una fimmina.”

“Una fimmina?”, chiese subito Mimì Augello, sempre il primo a rizzare le antenne quando si parlava di donne. “E chi sarebbe?”

“Una picciotta, latra pure lei, molto avvenente, con due minne granni come…”

“A Fazio, ma che ti metti a fare la comparsa di Mimì?”, protestò Montalbano. Prevedibilmente, il suo vice adesso sembrava molto più interessato a quelle che fino a poco prima aveva definito sprezzantemente ‘pillicole di fantasia’. Sai che novità!, pensò sarcastico il Commissario.

“Mi scusasse, dottore”, rispose Fazio, mortificato.

“Senti, Fazio, adesso tu stai lavorando a qualche caso?”

“Io? No, perché?”

“Allora prendi l’auto, vai a Montelusa e mettiti alle costole di Niccolò Cuffaro. Bada che non ti devi far accorgere. Voglio sapere se è tranquillo, se ti sembra scantato da qualcosa, dove va, con chi s’incontra…”

“Posso andarci io,” suggerì prontamente Mimì.

“No, Mimì, tu non ci puoi andare”, lo zittì Montalbano. “Siccome che le pillicole ti sdignano, tu ti metti in contatto con l’Interpol e cerchi di scoprire tutto quello che puoi su questo Lupin e la sua banda.”

“Va bene”, annuì Fazio.

“Se proprio insisti…”, borbottò Augello. Si vedeva lontano un metro che era scocciato; forse sperava che pedinando Cuffaro avrebbe potuto vedere se la complice di Lupin corrispondeva alla descrizione fornita da Fazio. Per interesse puramente professionale, eh!, si disse Montalbano con una punta di malignità.

“Benissimo. Allora per prima cosa…”

Non finì la frase che Catarella entrò trafelato nell’ufficio, sbattendo la porta e facendo saltare per aria i tre poveri poliziotti.

“Ah, dottori dottori! Tilefonò proprio adesso la signorina Livia da Bonchidassa, io le dissi, come mi aveva raccomandato vossia, che lei di lei non era…”

“Uscite”, borbottò Montalbano, rivolto ai suoi colleghi. “Devo telefonare.”

Fazio si affrettò a ubbidire; Mimì, invece, se la prese comoda, attardandosi sulla porta e lanciando un sorrisetto di scherno al Commissario. Montalbano capì che era il suo modo di prendersi la rivincita per la faccenda della ladra con le “belle minne”.

“Mimì, alzi il culo da te o ti devo pigliare a calci?”

“Va bene, va bene, me ne vado!”, fece Mimì, sempre con quel sorrisino di superiorità. Montalbano si trattenne a stento dal scaraventargli dietro un portadocumenti, e pochi minuti dopo era al telefono con la sua fidanzata, Livia.

“Pronto, amore? Salvo sono.”

“Ah, ma allora ci sei!”, rispose lei, gelida. “Ho chiamato qualche istante fa; il tuo collega Catarella mi ha detto che non eri in ufficio e non sapeva neppure quando saresti tornato!”

“Livia, ti prego, fammi spiegare…”

Mentre incominciava l’ennesima azzuffatina con Livia, Montalbano pensò sconsolato che al mondo esisteva un’unica incontrovertibile verità, e cioè che le camurrìe sono come le ciliegie; una tira l'altra.

  
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