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Autore: avalon9    02/12/2007    6 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Gentilissime lettrici e gentilissimi lettori,

Gentilissime lettrici e gentilissimi lettori,

 

vi prego di scusare questo mio ritardo, ma purtroppo impegni e problemi di vario genere mi costringono a dedicare pochissimo tempo al computer. Tuttavia, spero ardentemente di poter postare al più presto il prossimo capitolo.

Intanto, vi lascio questo parto della mia mente, nella speranza che sia di vostro gradimento. Vi avevo lasciato in una situazione di sospensione: Alessandra ferita e Sesshomaru che si appresta a riportarla a palazzo.

Adesso, l’interrogativo si sposta su come reagirà il nostro Demone davanti all’accaduto? Avete un’idea?

Per scoprirlo, basta leggerlo. Poi, se volete, fatemi sapere se ho deluso le vostre aspettative, se vi ho sorpreso o se sono riuscita a leggervi nella mente.

 

Infine, ringrazio infinitamente tutti coloro che leggono, colore che commentano e in particolar modo:

 

Celina: leggere le tue parole è sempre un onore e uno stimolo a trovare il tempo per concludere almeno la prima parte di questa mia storia. Hai colto perfettamente il fulcro: Alessandra e Sesshomaru, anche se per motivi diversi, sono persone sole. Di certo, il loro incontro ha cambiata qualcosa nei rispettivi animi, tuttavia non va dimenticato che appartengono a due realtà diverse. Riusciranno davvero a fondersi, o resteranno solo in sintonia? Già in questo capitolo adombro il problema, ma sarà in futuro che proverò a svilupparlo meglio. Un grazie sincero per le tue parole. Un abbraccio.

 

Kaimi_11: mi rincresce sinceramente che tu sia costretta a cambiar casa. Spero che riuscirai ad ambientarti in fretta, e che la nuova locazione sia piacevole. Un abbraccio.

 

Lilika: felice di vedere il tuo nome fra i commenti, e imbarazzata per i complimenti che mi hai inviato. Spero che continuerai a seguire la storia. Un abbraccio.

 

Hypnotic Poison: sono felicissima di rivedere il tuo nome e sapere che la storia continua a riscuotere la tua attenzione. Ti ringrazio infinitamente per il commento, e sono contenta di sapere che ti aggrada il modo in cui sto trattando il rapporto fra Inuyasha e Sesshomaru. Proprio come sottolinei tu, è uno dei perni della storia e si svilupperà molto anche in seguito, soprattutto nella seconda parte, dove il peso della relazione fra i due fratelli sarà affatto secondaria. Comunque, già nel prossimo capitolo (il 46. Portami via) ne avrai un assaggio: Inuyasha e Sesshomaru a confronto. Non si preannuncia nulla di tranquillo.

Alessandra. Alessandra, come dici giustamente tu, fatica. Molto per capire e provare a vivere alla corte inuyoukai. Ha cercato di mascherare la sua fragilità umana e di apparire perfetta, ma forse non è stato un bene. Me lo dirai tu, se vorrai, dopo aver letto questo capitolo. Concordo con te: Alessandra si meriterebbe che Sesshomaru le dicesse chiaro e tondo di amarla. Ma non avverrà. Mai. Questa è una delle poche cose che sono sicura di che non scriverò: nessuna dichiarazione da parte del Principe. Spero, con questa anticipazione, di non indurti ad abbandonare la storia. É vero che Sesshomaru non dirà mai ashiteru ad Alessandra, ma questo non significa che non glielo farà capire. Ormai, sappiamo bene che le parole non sono il punto forte del nostro Demone.

Sono altresì contenta che le coppie che ho adombrato incontrino il tuo favore. Per quanto riguarda Sango e Miroku, già in questo capitolo avranno un nuovo momento di intimità, ma sarà soprattutto nella seconda parte che la loro coppia (eh sì, lo ammetto: non ho la minima intenzione di farli separare)avrà uno spazio maggiore. Shin e Homoe, invece, sono al momento una piccola incognita. Soprattutto perchè la yasha ha dei segreti non trascurabili nel suo passato. Vedremo.

Per rispondere alle tue domande, adesso: in effetti, Shippo e rimasto a Musashi, ma presto tornerà in scena,; inoltre hai perfettamente ragione: le parole di Alessandra (sarebbero in greco, ma ho riportato la traduzione italiana per maggior comodità. Tanto, Sesshomaru non conosce entrambe le lingue) sono proprio quelle del V canto dell’Iliade, il saluto fra Ettore e Andromaca.

Di nuovo grazie per il tuo commento. Un abbraccio.

 

Lucy6: benvenuta! Sono davvero felice che la storia abbia riscosso il tuo interesse e non preoccuparti: le parole che mi hai scritto non le considero affatto sciocchezze. Al contrario. Sentirmi dire che con la mia piccola storia ti ho riportato all’adolescenza è un complimento che mi imbarazza moltissimo e non sono sicura di meritare. Grazie infinite.

 

 

Con affetto e riconoscenza,

 

Avalon

 

 

 

CAPITOLO 45

ANGOSCIA

 

 

Non andava bene. Non andava affatto bene.

Yaone scostò con un gesto stanco la frangia che le copriva gli occhi. Era arrabbiata. Molto arrabbiata. Avrebbe avuto bisogno di lui, del suo consiglio, della sua saggezza, e Ashitaka l’aveva lasciata sola. Di nuovo. A gestire una situazione, questa volta, davvero più grande di lei. Una realtà in cui era pressochè impotente. E la cosa le bruciava da morire. Non era possibile. Inconcepibile. Lei che era la miglior alchimista che i demoni potessero vantare. Maledetta, ma pur sempre impareggiabile. Lei avrebbe dovuto gettare la spugna. Rassegnarsi davanti alle sue scarsissime capacità. Non sapeva cosa fare. Non sapeva più cosa tentare.

 

Rabbia. Rabbia. Rabbia. Verso di lui, e soprattutto verso se stessa. Non era possibile che non riuscisse a trovare un rimedio. Eppure, benchè si sforzasse, leggesse e rileggesse i testi medici e sapienzali, non trovava nessun rimedio che le sembrasse efficacie. Ed erano ore, ormai, che Alessandra restava immobile in quel letto. Sempre più pallida, sempre più debole. Dannazione! Era un essere umano, non un demone come loro. Yaone non sapeva esattamente quanta resistenza avesse, come il suo corpo avrebbe potuto reagire ad una possibile cura. Un farmaco debole sarebbe potuto risultare inefficacie; uno troppo forte, avrebbe potuto decretare reazioni troppo violente in un corpo umano. Sempre che avessero realmente una certa importanza, i farmaci. E se lei riuscisse a trovare qualcosa di adatto. Di tentabile. Niente, invece. Brancolava nel buio. Nello sconforto totale.

 

Si sedette accanto al futon con un sospiro stanco. Il petto di Alessandra era lento nel respiro. Quasi innaturale. Slacciò lo yukata e la auscultò di nuovo. Lo faceva di continuo. Quasi nell’illusione di accorgersi che si era sbagliata. Che aveva fallito la diagnosi. Possibile. Possibilissimo. Non se ne intende di corpi umani. Non li conosce. Può aver sbagliato. Deve aver sbagliato.

Richiuse i lembi del kimono. No. Lo sapeva benissimo. Non aveva sbagliato. Non poteva ingannarsi in modo così grossolano. Ma davvero avrebbe preferito sentirsi dire che aveva commesso un errore madornale, invece che quella fosse la verità.

 

“Come sta?”

 

Homoe si sedette accanto all’alchimista, sfiorandole la spalla. In quegli ultimi giorni, sembrava che una cappa pesante avvolgesse il palazzo, e soprattutto l’ala riservata al Principe. Nemmeno Rin usciva più a giocare nei giardini. Era più facile trovarla rannicchiata in un angolo della sala da pranzo, con accanto Kiba. Yaone ricambiò lo sguardo della yasha. Se si eccettuava Kagome, la hime del Nord era l’unica, fra loro, ad aver riportato ferite lievi in combattimento e per questo le era stato possibile affiancarla nelle cure mediche e sostituirla all’ospedale. Yaone aveva la priorità di occuparsi di Alessandra, tanto che ne aveva preso il posto. Adesso, era lei che chiamavano archiatra. Sorrise amara. Sapeva benissimo che i cortigiani e vari demoni erano felici del fatto che la ningen fosse rimasta ferita e che lei le fosse succeduta nella carica. Erano disposti ad ignorare i suoi trascorsi, se questo equivaleva a non dover sopportare una donna umana a capo dei guaritori.

 

“Sopravvive. Per il momento”

 

Parole che le costavano caro. Perchè, in definitiva, Yaone non sapeva per quanto ancora Alessandra avrebbe potuto reggere. Non aveva mai certezze per chi la interrogava, non aveva risposte incoraggianti per gli sguardi d’angoscia che riceveva. Poteva solo abbassare sconsolata la testa e mordersi un labbro per evitare di agitare di più gli animi. Per il resto, si fissava impotente le mani. Le sue mani, che più di una volta erano venute in aiuto alla ragazza nel periodo trascorso a lavorare assieme, che più di una volta si era sostituite alle sue per maggiore esperienza, adesso non potevano fare niente. Per lei era totalmente inutili.

 

“Sesshomaru-sama?”

 

Homoe cambiò il fazzoletto umido dalla fronte della ragazza. La febbre non accennava a diminuire, e nemmeno i bagni gelidi cui avevano costretto il corpo di Alessandra avevano dato risultati. Il viso restava pallido e bruciante. Sempre peggio. Andava sempre peggio. E l’alzata di spalle di Yaone alla sua domanda sul Principe non era molto incoraggiante. Non lo si era più visto. Sparito. Dissolto. Erano tre giorni che di lui non si avevano più notizie. Yaone aveva provato ad entrare nei suoi appartamenti, ma aveva trovato la fusuma chiusa. Bloccata.

 

Tre giorni. Homoe non riusciva a crederci. Ormai, quasi più nessuno di loro teneva la misura del tempo trascorso da quella notte. Quando Sesshomaru si era ripresentato a palazzo distrutto dalla fatica, grondante sangue e sudore, a piedi e senza esercito. Con lui c’era solo Inuyasha, ormai allo stremo delle forze e che aveva consumato ogni sua energia probabilmente per tenere l’andatura del fratello. Era crollato a terra appena messo piede nella piazza d’armi. Il Principe, invece, era riuscito ad avvicinarsi a passo malfermo all’entrata del palazzo. Vederlo camminare quasi con la forza della disperazione faceva un effetto strano. Ghiacciava il sangue quasi più del suo normale e austero portamento. Fra le braccia, stringeva il corpo privo di sensi di Alessandra, arsa dalla febbre. Sesshomaru era riuscito a trasportarla fin nella sua stanza e ad adagiarla sul futon, ignorando le occhiate incredule della corte e angosciate dei ningen e di Rin.

 

Yaone era arrivata quasi subito, e aveva costretto i presenti a uscire in corridoio, reclutando Kagome come infermiera con Homoe e permettendo di restare solo al Principe e ad Inuyasha, che si era rifiutato di farsi anche solo medicare se prima non gli avessero dato informazioni sulle condizioni di Alessandra. Yaone aveva tagliato la rozza fasciatura con cui l’hanyou aveva cercato di bendarla, mettendo a nudo la ferita e il seno di Alessandra. L’aveva girata sul fianco sinistro e aveva iniziato a pulire la ferita, conscia che gli occhi del Principe era fissi su Alessandra. Sesshomaru non riusciva a distogliere lo sguardo. Suo fratello era arrossito e aveva voltato la testa di lato, ostinandosi a fissare le nervature del legno, quando era stato scoperto il seno della ragazza, ma lui niente. Aveva continuato a guardarla impassibile. Incurante nei mormorii contrari e delle esortazioni a voltarsi della miko. Sesshomaru aveva continuato a guardare il corpo nudo di Alessandra. I seni rovinati da piccoli graffi e contusioni per la caduta, l’addome macchiato del sangue che era colato dalla ferita lungo la schiena e sui fianchi. Le braccia abbandonate sul materasso, e la testa reclinata inerte di lato. Con i capelli sciolti e attorcigliati dal vento e dal fango.

 

Aveva visto Yaone rimetterla supina e posare l’orecchio nell’incavo dei seni. Sesshomaru aveva aperto e chiuse le mani in un gesto automatico, quasi cercando di cogliere una sensazione smarrita. Aveva sentito sotto gli artigli la morbidezza delle forme della ragazza. Aveva accarezzato la sua pelle, sfiorato il suo copro; aveva stuzzicato la carne con malizia ed era stato solo per poco che non le aveva strappato il kimono di dosso, per meglio assaporare il piacere della pelle che si tocca, che si riscalda, che si sfiora. Per pochissimo, non l’aveva avuta nuda fra le braccia. Si era ripromesso mentalmente, quando era uscito dai suoi appartamenti, che vinto quello scontro sarebbe tornato per portarla da qualche parte. Subito. Non le avrebbe permesso di prendere nemmeno un fagotto che l’avrebbe portata via da palazzo. Loro due. Solo loro due. Rin si sarebbe opposta, ma non gli avrebbe disubbidito. Forse gli avrebbe tenuto il broncio per un po’, ma lui non avrebbe ceduto. Non quella volta. Voleva Alessandra, solo lei. E l’avrebbe avuta lontana dalle regole della corte.

 

Era tornato a palazzo. E Alessandra era nuda davanti a lui. Le labbra secche, la bocca socchiusa, i capelli scarmigliati e il corpo abbandonato sul letto fra abiti e lenzuola sfatte. Il respiro pesante e la pelle disegnata dal bronzo delle candele. Sudata e cosparsa da un tremito leggero. Sesshomaru aveva stretto i pugni fino a graffiarsi i palmi e contratto i denti. Non l’avrebbe voluta vedere così; non era così che voleva la sua nudità, il suo abbandono, il respiro e la pelle sudata. Non c’era nulla di eccitante, nulla di seducente. Solo una strana morsa che gli chiudeva lo stomaco, che lo avrebbe fatto urlare volentieri. Aveva sentito in lui qualcosa di nuovo, di sconosciuto: una consapevolezza sottile farsi strada nella sua mente, serpeggiare lenta e indefinibile, ma pronta a morderlo da un momento all’altro.

 

Aveva ricacciato indietro quel vago disagio che aveva iniziato a pervaderlo. Non era quello il momento di concedersi elucubrazioni mentali. Aveva sentito il corpo farsi sempre più pesante; lentamente le forze residue avevano iniziato ad abbandonarlo, assieme al sangue che scorreva dalle ferite che gli segnavano il corpo. Inuyasha, alla fine, stremato, si era accasciato accanto a lui, il respiro pesante e faticoso. Una macchia scura si era allargata sui tatami, e l’odore del sangue aveva infastidito l’olfatto del demone. Sangue youkai, hanyou e umano. Il sangue di Alessandra. Aveva gettato uno sguardo distratto ai suoi artigli, incrostati di grumi rappresi e terra. Avevano toccato il sangue della ragazza. Non era dissimili da quelli di altri demoni che ne avrebbero lacerato la pelle senza riguardo, senza preoccupazione. Eppure lei si era fatta sfiorare da quelle mani letali, aveva lasciato che il demone toccasse il suo corpo, gli aveva concesso il suo respiro, le sue labbra. Liberamente.

 

Sesshomaru aveva provato l’impulso di inginocchiarsi accanto al corpo della ragazza e stringerlo a sè, amarlo come per trasmettergli la sua forza vitale, il suo potere rigenerativo. Avrebbe voluto leccare la sua ferita, asciugare il suo sudore contro la sua pelle, perderla in un piacere che le avrebbe offuscato la mente, le avrebbe fatto dimenticare il dolore. Avrebbe voluto anche solo semplicemente toccarla, sfiorare il viso pallido e bagnato di sudore, frenare i tremiti violenti che la scuotevano quando Yaone interveniva sul suo corpo. Invece, era rimasto in piedi, immobile. Atteggiando il volto e la postura a superiore indifferenza. Era sembrato stesse osservando quasi con noia l’affaccendarsi delle yasha attorno ad Alessandra. Inuyasha gli aveva anche ringhiato qualcosa contro, sottovoce, ma lui non lo aveva ascoltato. Si era limitato a catalogare quelle parole come un disturbo per la sua mente, e quindi le aveva eliminate.

 

Alla fine, Yaone aveva rialzato sul Principe uno sguardo indecifrabile: rassegnazione, dolore, impotenza, frustrazione. C’erano mille emozioni e sentimenti contrastanti in quegli occhi verdi. Si era alzata per inginocchiarsi di fronte a lui. Consuetudine. Una donna non può rivolgersi ad un uomo restandogli alla pari. In quel momento, Sesshomaru aveva odiato profondamente i rigidi cerimoniali del suo mondo, che gli impedivano di ricevere subito una risposta che gli premeva. Eppure, era riuscito nuovamente a dominarsi, a razionalizzare che doveva continuare a mantenere la maschera di indifferenza che da sempre gli era propria. Anche in quella circostanza; soprattutto in quella circostanza. Aveva ascoltato le parole di Yaone senza batter ciglio, corrugando appena la linea sottile delle sopracciglia. Coperto di sangue e sporco di sudore e terra, il viso del Principe, sempre distaccato e superiore, appariva come una maschera terribile e disumana. Forzatamente innaturale. Aveva appena sollevato il capo per abbracciare la stanza con lo sguardo, le reazioni attonite e angosciate della hime di Kita, della miko, perfino del suo fratellastro. E poi, lei. Alessandra. Si era concesso di indugiare sul suo copro appena velato dallo yukata, sulla floridezza di un seno che era scivolato oltre i lembi dell’abito. La linea sinuosa del collo, salendo fino al viso provato, con i capelli scarmigliati. La bocca socchiusa in modo quasi innaturale.

 

Aveva appena annuito e si era voltato con passo lento, per impedire alle poche forze rimastegli di tradirlo. Aveva voluto uscire da quella stanza, cancellare il gorgoglio di quel respiro che gli aveva perforato l’udito. Il Principe aveva richiuso dietro di sè la fusuma, erano risuonate le domande di chi aspettava fuori dalla stanza, un chiacchiericcio veloce, che non aveva ottenuto alcuno risposta. Sesshomaru si era ritirato nei suoi appartamenti, e nessuno lo aveva più visto.

 

Yaone sospirò. Dopo aver applicato ad Alessandra una cannula per drenare la ferita, si era risolta a comunicare la situazione anche a chi attendeva fuori dalla stanza. Osservò distratta Homoe che sostituiva le bende e risistemava la cannuccia d’argento. Con stizza dovette ammettere a se stessa che non era servita a molto. La ferita non si era infettata, ma nonostante il drenaggio la parte alta della schiena della ragazza e il petto si erano gonfiati. E con loro la febbre era salita ancora di più. Nessun cambiamento, nessuna differenza.

 

Alessandra giaceva nello stesso stato in cui l’avevano vista, tre giorni, prima, i suoi amici, quando Yaone aveva permesso loro di entrare, subito dopo che il Principe era uscito. Erano scivolati in silenzio nella stanza, ancora reduci dalla battaglia e affaticati. Necessitavano tutti di cure, più o meno impegnative, e di molto riposo. Soprattutto Inuyasha aveva faticato molto a restare cosciente e a seguire il discorso della yasha. Lo aveva sentito anche pochi istanti prima, ma riascoltarlo gli era stato necessario: ancora non gli sembrava possibile.

 

“Purtroppo, la ferita di Alessandra non è come le altre”.

 

Yaone si era tormentata le mani, sfregando fra loro i palmi in un innaturale disagio. Non era certo la prima volta che comunicava diagnosi preoccupanti, eppure, quella volta, ogni parola le bruciava sulla lingua. Con quell’inizio era decisamente riuscita a catturare l’attenzione di tutti, anche se avrebbe preferito poterli rassicurare e mandarli tutti a riposare, invece di dover continuare quel maledetto colloquio.

 

“La punta della naginata deve averle leso un polmone. Sento gorgogliare il sangue ad ogni respiro” Prendere tempo. Aveva disperatamente cercato di prendere tempo. Per non dover esprimere la sua inadeguatezza, la dolorosa impotenza che sapeva avrebbe dovuto affrontare davanti a quella ferita in un corpo umano.

 

“Cosa significa?”

 

Nel silenzio pesante della notte, il tremore di quella domanda aveva fatto correre un brivido lungo la schiena dei presenti. Miroku, tuttavia, aveva trovato la forza, forse la disperata follia, di porla, quella domanda. Perchè quella spiegazione non era completa. Ne era certo. Mancava qualcosa, qualcosa di molto importante, che Yaone sembrava non riuscire a formulare, non sembrava essere in grado di concretizzare.

 

“Cosa significa?” aveva ripetuto in un piccolo grido che si era distorto fino ad assomigliare allo squittio di un topolino. Si era appoggiato a Sango più pesantemente, aggrappandosi all’ultimo barlume di energia che gli restava per afferrare una spiegazione che Yaone doveva dar loro. Accidenti a lei: doveva parlare!

In quel momento, Alessandra aveva emesso un rantolo e la saliva le era uscita dalla bocca mista a sangue, spandendo una larga chiazza rossa sul cuscino.

 

“Significa che Alessandra potrebbe morire”

 

Inuyasha aveva stretto maggiormente il saya della sua spada mentre le parole gli erano uscite in un soffio roco e impalpabile. Dannazione, dannazione, dannazione! Colpa sua! Era tutta colpa sua! Perchè non le aveva impedito di montare su quel maledetto cervo; perchè non aveva avuto la forza di trattenerla al sicuro sull’altura; perchè non si era minimamente accorto che Hakudoshi le era apparso alle spalle e aveva scagliato quella dannata naginata. Se solo fosse stato un po’ più attento, si era continuamente rimproverato, Alessandra non avrebbe subito alcuna ferita. Aveva abbassato la testa e affondato i canini nelle labbra fino a farle sanguinare. Aveva cercato, inutilmente, di soffocare nel dolore fisico quello che sentiva che gli stava rodendo l’anima. Insopportabile.

 

Si era ridestato solo quando Kagome lo aveva scosso per una spalla, invitandolo a lasciare la stanza. Anche lui necessitava di cure e poi, purtroppo, loro non potevano far nulla per aiutare la ragazza. Alessandra avrebbe dovuto contare su se stessa per guarire, anche se non significava che loro l’avrebbero abbandonata.

 

Yaone si alzò per socchiudere la shoji. Una coltre di nebbiolina leggera ovattava i contorni del giardino, mentre una pioggerellina sottile continuava a cadere e appesantire l’aria umida e greve. Sospirò. Già in condizioni normali la stagione delle piogge risultava sgradevole anche per loro demoni, ma per Alessandra, in quelle condizioni, doveva essere una vera tortura. Il caldo era soffocante e opprimente e servivano davvero a poco anche le stuoie di bambù. Le avevano fatto indossare un yogi estivo per cercare di controllare la sudorazione troppo abbondante e per agevolarla nel respirare. Con scarsi risultati, purtroppo. Il respiro era un rantolo sofferente e profondo che non poteva far ben sperare. Al contrario, più il tempo passava, più si assottigliavano le speranze che Alessandra potesse guarire.

 

Yaone si appoggiò stancamente all’intelaiatura delle porte. Era stupido pensarlo, ma non accettava che la sua capacità medica venisse messa in dubbio da un corpo umano. Non lo sopportava. Si concesse un sorrisino ironico. Il Principe l’avrebbe uccisa immediatamente se avesse anche solo immaginato che lei viveva quel caso clinico come una sfida verso se stessa e le sue capacità. Alessandra poteva benissimo esser equiparata ad una cavia su cui testare rimedi e possibili soluzioni. Scosse la testa rialzando un ciuffo di capelli sfuggito alla complicata acconciatura. Era la sua parte demoniaca a formulare quei pensieri, non l’interesse che aveva di curare Alessandra. E consciamente sapeva di non potersi permettere di sbagliare.

 

Si voltò verso l’interno della stanza, indugiando sul basso tavolino ingombro di piccoli pesi e bilance, erbe mediche, dosatori, alambicchi e altri strumenti medici e testi. Sembrava quasi che si aspettasse che da un momento all’altro la risposta emergesse dal nulla che le avvolgeva la mente, chiara e limpida. Banale. Per salvare la ragazza e chiudere la ferita al polmone. Eppure, sapeva benissimo che non avrebbe avuto nessuna illuminazione divina, nè alcun aiuto da altri. Avrebbe potuto consultarsi con gli altri guaritori a palazzo, ma un po’ per orgoglio un po’ perchè li riteneva totalmente incapaci di fornirle qualche elemento utile, aveva preferito rinunciare.

 

“Cosa pensate di fare, Yaone-san?”

 

Homoe continuava a frizionare la fronte e le labbra della ragazza con un panno umido, nel tentativo, pressochè vano, di recarle un po’ di sollievo almeno dal caldo e dalla febbre che la divorava. Era rimasta al capezzale di Alessandra per delle ore, in quei giorni, mentre Yaone dosava e preparava mille ritrovati a poca distanza dal futon. La stanza della ragazza assomigliava di più ad un laboratorio officinale che a una camera da letto, ma Yaone aveva optato per quella soluzione, disdegnando la maggior tranquillità dello studio che avrebbe avuto a disposizione, pur di essere costantemente presente e poter intervenire con tempestività in caso di bisogno.

 

La hime di Kita l’aveva vista tentare molteplici combinazioni, interrogare più volte Kagome e Sango in rapporto al corpo umano, ricorrere a quei pochi farmaci che erano sopravvissuti a quei mesi, saccheggiando le cassette mediche di Alessandra e della stessa Kagome, che ne aveva dovuto spiegare effetti e controindicazioni alla meno peggio. Purtroppo, nemmeno i calmanti per la febbre avevano effetti soddisfacenti, e soprattutto erano di durata molto limitata. Ed erano ormai tre giorni che la ragazza non riprendeva conoscenza.

 

Homoe temeva davvero che nemmeno le tanto decantate arti mediche di Yaone avrebbero potuto aver effetto, anche perchè finora la yasha si era limitata a piccolissimi interventi, piuttosto mirati a evitare che la ferita si infettasse e la situazione si complicasse ulteriormente, che a somministrare veri e propri ritrovati o rimedi. Era palese, quindi, che nemmeno Yaone sapeva cosa fare, o forse non si arrischiava a far nulla di troppo pericoloso. Una possibile soluzione sarebbe stata quella di inserire una canula direttamente nel polmone di Alessandra attraverso la ferita, per poi aspirare il sangue, almeno fino alla completa suturazione della piaga. Tuttavia, Homoe ne era consapevole, quel gesto sarebbe stato davvero un tentativo estremo, cui ricorrere se la situazione fosse degenerata senza possibilità di ritorno. Al momento, invece, il corpo di Alessandra reagiva ancora agli stimoli, e il respiro, benchè pesante e frammisto al sangue che risaliva la gola, era costante. Era probabile ipotizzare, quindi, che la ferita avesse sì leso il polmone, ma non in modo da compromettere del tutto la respirazione e da far soffocare la ragazza. Si poteva invece supporre che la lama della naginata si fosse spinta nei bronchi solo per pochissimi centimetri, e che quindi sarebbe bastato il tempo a risolvere la situazione. Concesso che il fisico di Alessandra avesse resistito abbastanza.

 

Tuttavia, il rilucere sul tavolino della canula d’argento e la bacinella di ceramica necessaria ad aspirare il sangue dai polmoni non permettevano a Homoe di sperare per un decorso relativamente tranquillo e naturale. Sembrava che Yaone stesse solo aspettando il momento adatto per impugnare quegli strumenti, far rovesciare di lato il corpo della ragazza e invaderlo con il metallo. La yasha sentì un brivido pervaderle il corpo al pensiero della difficoltà che l’operazione comportava e al conseguente rischio, altissimo, di fallimento.

 

“Se sarà necessario, Homoe-san. Solo se sarà necessario”

 

Yaone aveva colto la scintilla di trepidazione nello sguardo della hime e aveva capito benissimo il senso della sua domanda. No. Non era intenzionata ad arrendersi, nè voleva tentare quell’operazione, almeno finchè avesse nutrito anche solo una remota possibilità che il corpo di Alessandra riuscisse a superare da solo il forte trauma. Aveva fatto parola solo con Homoe di quell’estrema soluzione, che le si era formulata nella mente appena aveva realizzato l’entità del danno subito dalla ragazza. Tuttavia, accantonarlo e ignorarlo, concentrandosi invece su altri possibili espedienti, le era sembrata la soluzione migliore per non cedere ad un pessimismo che avrebbe potuto rivelarsi anche controproducente. Invece, assieme alle ore, scemavano anche le speranze e la fiducia, e quella canula mandava un bagliore quasi spettrale agli occhi della yasha.

 

Yaone si lasciò scivolare lungo lo stipite, reclinando appena di lato la testa. Accidenti a lui, che l’aveva lasciato sola ad affrontare un compito così gravoso. Ecco: se ci fosse stato lui, probabilmente Alessandra sarebbe già stata guarita. Si mordicchiò un dito, con uno strano sorriso sulle labbra. Inutile recriminare. Non poteva permettersi rimpianti in quel momento. E nemmeno concessioni mentali che la distraessero dal suo compito.

 

Eppure...vorrei che fossi qui...Ashitaka...

 

 

*****

 

 

“Sei qui cagnolino?”

 

Il mugugno che ricevette in risposta convinse Koga ad entrare nella stanza. C’era un odore di chiuso e di sangue vecchio che gli dava la nausea. Raggiunse le shoji imprecando quando inciampava in qualcosa di non definito e duro e le spalancò. La luce del primo pomeriggio riempì la stanza occupata da Inuyasha e Miroku, e Koga potè concedersi un profondo respiro. L’aria umida non gli dispiaceva affatto. Quando era cucciolo, si divertiva molto a correre nei boschi in quella stagione, quando l’odore di resina e corteggia era così intenso che sembrava di poterlo gustare solo mordendo l’aria. E aveva sempre amato anche la sensazione di ovata che ti circonda le membra se cammini in quella nebbiolina fine. Ti sembra quasi di nuotare in un mare invisibile, con l’aria pensate sulla pelle e i capelli che si fanno lucidi e umidi. Sensazioni che gli sono sempre state care. Ricordi di un’infanzia lontana, quando non era un principe, ma solo un cucciolo di lupo. Storse la bocca. Il tempo non aveva cambiato troppo le cose, dovette ammettere a se stesso.

 

Koga aveva preso il posto di suo padre a capo del clan degli Yoro, ma la sua vita non aveva subito un grande cambiamento. Restava il giovane youkai arrogante e sicuro si sè di sempre. Fin troppo sicuro, aveva dovuto ammettere alcune volte a se stesso di malavoglia. Eppure, se in certe situazioni non ci fosse stato Inuyasha a tirarlo fuori dai guai, probabilmente non se la sarebbe cavata. Avrebbe dovuto ringraziarlo, se non fosse per il fatto che proprio non sopportava l’idea di abbassarsi ad ammettere di dovergli qualcosa. Diamine! Il cagnolino si sarebbe montato la testa, e lui non lo avrebbe proprio sopportato.

 

Si passò una mano fra i capelli, sospirando pesantemente. Non avrebbe mai creduto che reggere l’esercito degli ookami potesse essere un compito così gravoso. Suo padre non gli aveva mai detto nulla di particolare al riguardo e, a voler esser sinceri, lui non era mai stato un tipo portato alla strategia militare e alla tattica. Combatteva seguendo il semplice istinto, abbandonandosi agli stimoli che gli venivano trasmessi dai suoi sensi sviluppati, lasciando che la parte più ferina e selvaggia del suo sangue si impadronisse della sua mente. Non era il semplice gusto della battaglia e della morte a entusiasmarlo. Era la caccia ad eccitarlo. L’idea di dover braccare l’avversario, stringerlo in una morsa angosciante dopo avergli dato magari l’illusione della salvezza. Rincorrere la sua preda per potergli leggere il terrore e la furia disperata negli occhi, sparire dalla sua visuale per sentirlo respirare di sollievo e poi ghermirlo alle spalle, affondando gli artigli o i canini nella carne. Koga non disdegnava di azzannare un avversario. Al contrario, in alcune circostanze, le sue zanne erano l’arma più efficacie di cui disponesse, acuminate e forti tanto da poter stritolare il braccio di un hanyou.

 

Giocherellò distrattamente con l’hanaba obi del suo iromuji. Se ci pensava, il suo modo di combattere era l’opposto di quello di Sesshomaru. Lo aveva visto per la prima volta combattere veramente solo alcuni giorni prima, in quella maledetta battaglia che poteva ancora avere un epilogo tragico. Doveva ammettere a se stesso che la freddezza del Principe era stata capace di lasciarlo sconcertato. Conosceva bene il modo di combattere di Inuyasha, avventato e impulsivo come il suo quasi, e si era aspettato una tecnica simile da parte anche del fratello, soprattutto ricordando l’esito disastroso dello scontro fra i due fratelli mesi prima, che quasi avevano demolito il dojo. Invece, Sesshomaru aveva sfoggiato una tecnica di spada magistrale e un’abilità nel calcolare mosse, schierare le file dell’esercito e avanzare con la sicurezza delle spalle coperte per una eventuale, anche se improbabile ritirata. Koga ne era rimasto travolto, quasi affascinato. Fra loro la differenza di età poteva esser considerata minima, appena cento anni, eppure, l’inuyoukai si era mostrato un condottiero perfetto. Poco importava che, alla fine, avesse lasciato il campo senza nemmeno curarsi della sorte dei suoi uomini e del destino del suo avversario. Aveva delegato loro il

compito di chiudere la partita il più in fretta possibile e ricondurre l’esercito a palazzo.

 

Scosse la testa. Non era certo quello il momento migliore per perdersi in riflessioni riguardo la differenza che intercorreva fra lui e Sesshomaru. In definitiva, poteva accettare che il Principe vantasse maggior esperienza in campo logistico, ma nel resto si equivalevano e lui non gli sarebbe mai stato inferiore. Sesshomaru poteva anche esser a capo del Consiglio, ma in conclusione detenevano, nelle rispettive Famiglie, la medesima posizione. Con un sospiro e un sorrisetto che assomigliava a un ghigno si risolse infine a voltarsi. Non era certo per disquisire mentalmente che si era recato nella stanza del cagnolino. Il fatto era che, anche se l’idea gli andava di traverso, doveva ammettere che era u po’ preoccupato per lui. Insomma: era da quando era uscito dalla camera di Alessandra che non si muoveva dalla sua stanza. E la pazienza e l’immobilità non erano certo caratteristiche dell’hanyou.

 

Si avvicinò al futon e si sedette pesantemente a terra, soppesando il volto con un mano. Inuyasha non si mosso minimamente. Continuava a ignorarlo e fissare il soffitto, sdraiato sul suo futon e con un braccio dietro la testa. Koga non potè esimersi dal notare che il braccio che si era ferito in battaglia restava disteso lungo il fianco. Tuttavia, non riusciva a credere che ancora la ferita non fosse guarita. In fondo, Inuyasha aveva sempre mostrato un’ottima capacità di guarigione, che spesso aveva sorpreso anche lui, un demone completo. Eppure, lo vedeva con i suoi occhi: la manica del nagajuban era chiazzata di un tenue alone rossastro. L’odore di sangue che gli aveva dato fastidio quando era entrato. Eppure, era certo che Kagome fosse riuscita a fargli togliere il suo kariginu per lavarlo. Quindi, dal momento che l’hanyou lo reindossava, quel sangue non poteva esser vecchio, ma solo fresco.

 

Koga era stizzito dal comportamento di Inuyasha. Non rispondeva alle provocazioni, non si degnava di ascoltarlo, non gli prestava la benchè minima attenzione. E la cosa gli dava davvero sui nervi. In modo insopportabile. Alla fine, gli afferrò il braccio sinistro, stringendo lì dove c’era il segno del sangue, ottenendo in risposta un rantolo soffocato, qualche imprecazione e un’artigliata che gli strappò alcuni capelli dalla frangia, ma che in definitiva evitò senza problemi allontanandosi con un salto.

 

“Chikuso, Koga no baka!”

 

“Ma allora ce l’hai ancora la lingua, cuccioletto!”

 

Inuyasha fermò il suo sproloquio e le sue ingiurie, fissando basito l’espressione a metà fra lo strafottente e il contento dell’ookami. Quel maledetto! Ma non poteva trovare un metodo meno drastico se proprio voleva la sua attenzione?! Gli aveva fatto un male tremendo! E adesso la ferita aveva ripreso a sanguinare, dopo che finalmente sembrava avviarsi a cicatrizzarsi. Inuyasha sbuffò constatando di avere la mano impegnata di sangue, che sentiva nuovamente percorrergli il braccio. Adesso, avrebbe dovuto cambiare di nuovo la fasciatura, rimetterci quell’estratto d’erbe che gli aveva preparato Kagome e sperare che facesse effetto in fretta. Non ne poteva più di avere un braccio quasi inutilizzabile.

 

Masticando amaro per imporsi di non assassinare immediatamente Koga, si liberò del nagajuban e strappò con un gesto secco la fasciatura. Storse la bocca in una smorfia. Assieme alla stoffa, si erano lacerati anche alcuni brandelli di carne appena rimarginata. L’impacco aveva fatto presa, incollando la benda alle labbra della ferita, e il suo gesto brusco non aveva certo contribuito a fermare il sangue. Assottiglio gli occhi e fissò quasi con disgusto la piaga sul bicipite. L’osso non era più visibile, ma i fasci muscolari si stavano riformando con estrema lentezza, e adesso sanguinavano. Poco, per fortuna. Doveva aver rotto qualche capillare e basta, ma comunque gli bruciava terribilmente. Sentiva un odore rivoltante mescolarsi al suo sangue, facendogli assumere una tonalità leggermente più scura. Storse la bocca. Il veleno che quel maledetto youkai gli aveva iniettato in corpo stava iniziando a perdere il suo effetto. All’inizio, il sangue usciva nero e maleodorante. Infetto. Adesso, anche se la youki avversaria rallentava di molto il processo di autoguarigione, almeno stava perdendo forza. Ancora pochi giorni, e il veleno sarebbe scomparso del tutto; poi, in capo a un giorno se non a poche ore sarebbe stato di nuovo in forma.

 

Spalmò come meglio potè l’estratto che Kagome gli aveva preparato e cercò di fermare un lembo della fascia per poi avvolgerla. Strinse le labbra. Non era affatto semplice bendare il braccio con l’ausilio di una sola mano. Alla fine stava per rassegnarsi e mandare al diavolo bende e ferite quando, con sua sorpresa, Koga gli strappò di mano la benda e iniziò a medicarlo. Senza risparmiagli frecciatine, certo, ma Inuyasha, stranamente, si sentì contento, e mentre gli rispondeva a tono si ritrovò a sorridere. Litigare con Koga era un ottimo sistema per scacciare la tensione e ritrovare una complicità e un’antipatia di facciata che lo faceva sentire accettato e non commiserato.

 

Fissò l’ookami che finiva di fasciargli il braccio. Era davvero inusuale vederlo senza la sua corazza e le pellicce. Salvo restando gli artigli, Koga avrebbe anche potuto passare per un essere umano, a distanza. E il kimono che indossava contribuiva a rendere l’illusione. D’altro canto, la sua corazza era stata mezza distrutta dopo che lui e Sesshomaru avevano lasciato il campo di battaglia, e Koga aveva riportato sul petto una serie di ferite che dovevano avergli reso penoso indossare un qualcosa che non fosse morbido. Anche se ormai il principe degli Yoro era quasi guarito gli era stata assolutamente preclusa la sua armatura per evitare abrasioni che avrebbero potuto far riaprire le cicatrici ancora fresche. Aveva protestato per un po’, ma alla fine si era fatto piccolo-piccolo davanti alla rabbia esasperata di Kagome. Koga, in quel moneto, aveva capito la tensione che la ragazza aveva vissuto in quelle ore e che continuava a sentire su se stessa. Lei era uscita incolume dagli scontri perchè tutti si erano affacendati per tenerla al sicuro con Rin. Inoltre, Kagome si rimproverava di non esser riuscita a trattenere Alessandra a palazzo. Se era stata ferita e adesso era in fin di vita era anche colpa sua, che non aveva fatto quasi nulla per impedirle di andare.

 

Si era arrabbiata con Koga solo perchè era stato lui l’ultimo con cui aveva avuto da discutere. Sango, Miroku, Ayame, Kumamoto, Koga stesso...Sembrava che tutti provassero gusto a volerla assolutamente tranquillizzare e a minimizzare le loro ferite. Persino Inuyasha, nonostante il braccio inutilizzabile e la stanchezza che lo avvolgeva quando era rientrato a palazzo con Sesshomaru, aveva avuto la forza di fare il gradasso e asserire che aveva solo qualche graffio. E lei non lo sopportava proprio quando faceva così. Aveva rimpianto per un istante il fatto di avergli tolto il rosario. Avrebbe voluto sbatterlo a terra mille volte, per fargli capire che era preoccupata e che non c’era nulla di male nel fatto che fosse ferito. Invece, aveva pestato i piedi per terra e se ne era andata dalla stanza dove l’aveva aiutato a trascinarsi appena Yaone aveva comunicato loro le condizioni di Alessandra.

 

Inuyasha non aveva quasi più lasciato la sua camera. Si era limitato, qualche volta, a trascinarsi fino a quella di Alessandra passando per l’engawa per evitare di incrociare qualcuno. Sperava in una notizia positiva, ma Yaone poteva solo scuotere la testa alla sua muta domanda. Allora, ritornava indietro o si spingeva fino alla camera di Kagome e Sango. Non entrava mai, ma restava seduto accanto alle colonne di legno anche per tutta la notte. Aveva fatto pace con Kagome in fretta, quando lei era tornata ancora offesa e preoccupata a medicarlo, ma poi non aveva avuto molte occasioni di passare un po’ di tempo da solo con lei. Kagome aiutava Homoe all’ospedale da campo, anche se ormai la maggior parte dei demoni si era rimessa o era stata curata. Erano loro ningen a essere lenti nel riprendersi, o chi aveva subito ferite piuttosto gravi o fastidiose come lui e Koga.

 

Anche Sesshomaru era ferito

 

Una consapevolezza che gli aveva attraversato più volte la mente, in quei giorni. Quando sedeva sull’engawa, a volte rivolgeva l’attenzione alle stanze di suo fratello. Nessuno lo aveva più visto da quando era rientrato a palazzo, ed era Jacken a tenere le direttive a corte, dal momento che Kumamoto era rimasto ferito e per un po’ avrebbe necessitato di riposo. Inuyasha storse la bocca. In fondo, anche il galoppino di suo fratello poteva rivelarsi utile in certe occasioni. La situazione del palazzo era di certo l’ultimo pensiero del Principe in quel momento. Tuttavia, Inuyasha non era certo di quale fosse il primo dei pensieri di suo fratello. Va bene non compromettere le apparenze, ma almeno una visita di tanto in tanto, giusto a scopo informativo, avrebbe anche potuto farla ad Alessandra. Di notte, poi, non ci avrebbe messo niente a scavalcare la finestra e raggiungere la stanza della ragazza. Lo aveva già fatto, Inuyasha lo sapeva, glielo aveva raccontato la stessa Alessandra.

 

Niente, invece. E la cosa gli dava un maledetto fastidio. Gli faceva rabbia. Se al posto di Alessandra ci fosse stata Kagome, lui non si sarebbe mosso di un millimetro dal suo fianco. E si sarebbe dannato mille volte l’anima per non esser stato in grado di proteggerla. E Sesshomaru, invece, cosa ha fatto? Niente. Assolutamente niente! Continua a restare rinchiuso in quella sua maledetta stanza. Se solo avesse già ripreso un po’ di forza, Inuyasha sarebbe andato di persona a trascinarcelo fuori. Al diavolo anche le apparenze e la corte! Alessandra stava soffrendo molto, e assieme ai giorni passavano anche le speranze che guarisse. Restava appesa alla vita quasi con disperazione. E suo fratello non si degna nemmeno di informarsi delle sue condizioni.

 

Strinse i denti fin quasi a far scricchiolare la mascella. Gli faceva una tale rabbia. Possibile che davvero gli importassero di più la sua reputazione e il suo orgoglio della vita della donna che amava? Un sussulto. Sesshomaru...suo fratello amava davvero Alessandra? Inuyasha era certo dei sentimenti della ragazza perchè lei stessa glieli aveva confessati, ma, se ci rifletteva bene, non aveva nessun elemento concreto che avvallasse l’ipotesi di un possibile sentimento di amore in suo fratello. Storse la bocca risistemandosi il kariginu. Sesshomaru avrebbe preferito farsi uccidere piuttosto che pronunciare una simile confessione, e comunque riuscire a comprenderlo dai suoi atteggiamenti o dall’espressione era partita persa. Lui lo sapeva bene. Il Principe non concedeva mai nulla che facesse realmente intuire il suo pensiero.

 

Però l’ha portata via dal campo di battaglia

 

Inuyasha si era aspettato che Sesshomaru lo raggelasse con una delle sue occhiate di sufficienza e gli ordinasse di portare al palazzo Alessandra. Non è dell’inuyoukai l’abitudine di abbandonare il campo a battaglia iniziata; soprattutto se il rischio è una sconfitta. Sesshomaru era capace di dar fondo a tutto se stesso pur di non uscire mai battuto da uno scontro. Soprattutto se l’avversario poteva considerarsi al suo livello come si presentava Morigawa, oltre al fatto che era un demone paragonabile a loro padre. Tuttavia, suo fratello aveva ricusato lo scontro e se ne era andato. Con la sua consueta eleganza e con abbastanza lucidità da lasciare ai suoi sottoposti e alleati direttive abbastanza esaurienti perchè la sua assenza non compromettesse l’esito dello scontro. Inuyasha sospirò. Se fosse stato al suo posto, lui si sarebbe completamente dimenticato di tutto, avrebbe preso Kagome e avrebbe solo iniziato a correre verso una qualsiasi fonte di salvezza: Jinenji, Kaede-baba o...Accidenti! Verso chiunque! Purchè potesse aiutarlo. Sesshomaru, invece, gli aveva di nuovo, forse davvero inconsapevolmente, sbattuto in faccia le differenze che intercorrevano fra loro: la passionalità del suo sangue misto contro la glacialità del sangue puro. Suo fratello, almeno esteriormente, non perdeva mai la calma e non si lasciava mai travolgere dagli avvenimenti. Anche se coinvolto in prima persona, era capace di discernere ogni pensiero e mantenere la mente lucida. Razionale. Fredda.

 

Si lasciò cadere con un rumoroso sospiro sul futon. La mente di Naraku era davvero contorta, e più di una volta i suoi cervellotici piani li avevano depistati e tratti in inganno, ma anche cercare di comprendere un po’ la mente di suo fratello era impresa che in certi momenti gli sembrava disperata. Non che se ne fosse mai interessato particolarmente, per carità; tuttavia, quando se lo trovava davanti su un campo di battaglia, Inuyasha doveva ammettere a se stesso di provare una strana soggezione verso di lui. Da piccolo, quando lo aveva visto per quella prima e unica volta, aveva provato il desiderio di essere come lui, di diventare come quel fratello apparso all’improvviso e poi scomparso. Nella sua piccola mente affamata di sicurezza, di affetto, di un qualsiasi punto fermo, Sesshomaru si era trasfigurato nel modello da eguagliare, in tutto e per tutto. Era stato lo spazio di un respiro, il tempo di uno sguardo veloce, e l’unica cosa che davvero era riuscito a catturare era stata l’immagine di un ragazzino bianco ammantato di luce e con occhi gelidi, eppure tanto gli era bastato per eleggere, inconsciamente, quel fratello mai realmente conosciuto a sostituto del padre, a eroe da eguagliare.

 

Non lo avrebbe confessato nemmeno sotto tortura, e con il tempo quella visione ideale e trasfigurata aveva assunto una concretezza tagliente e spietata, ma Inuyasha doveva ammettere a se stesso che, in un modo o nell’altro, Sesshomaru era stato ed era ancora il suo termine di paragone. Quasi la sua ossessione. Però...però non riusciva a capire un accidente di quella testa dura! Alessandra lo ama; Alessandra è andata da lui in mezzo ad uno scontro e adesso è davvero in condizioni disperate. E lui? Lui se ne disinteressa! Le dice che è importante e poi non si degna nemmeno di apprendere qualcosa sulla sua salute. La ignora! Si dimentica di lei! Inuyasha continuava a rimuginare su quell’assurdo comportamento, ma l’unico cosa che otteneva era un fastidiosissimo mal di testa. Sapeva perfettamente che arrovellarsi il cervello per cercare di capire suo fratello era un’inutile perdita di tempo, ma se non faceva qualcosa rischiava che quell’attesa lo facesse impazzire.

 

“Ma si può sapere cos’hai?! Non ti riconosco più!”

 

Inuyasha storse la bocca mentre portava una mano alla testa contusa. Pensare non era proprio il suo forte se lo portava addirittura dimenticarsi della presenza di Koga, che però provvedeva con la sua consueta delicatezza a ricordargli che non era solo. L’ookami iniziava sinceramente a preoccuparsi. Solitamente, quando loro due erano a così stretto contatto, tempo due minuti e rischiavano di venire alle mani per chiarire le divergenti opinioni. Inuyasha, invece, non si era mosso per tutto il tempo che aveva impiegato a fasciargli il braccio e lo aveva completamente dimenticato, almeno a giudicare dalla sua espressione. Non gli piaceva. Proprio no. Si trovava quasi a disagio davanti quel botolo fin troppo taciturno e riflessivo. Sbirciò la porta. Se almeno fosse entrata Kagome avrebbe potuto farle un po’ di corte, così tanto per smuovere un po’ la situazione apatica. Ridacchiò fra sè e sè. Appena Ayame lo fosse venuta a sapere, gli avrebbe fatto una di quelle scenate di gelosia da mettere in imbarazzo anche il più menefreghista degli uomini. Si umettò le labbra concedendosi un ghigno. Forse non gli sarebbe del tutto dispiaciuto sentirla inveirgli contro per potersi chinare su di lei e sussurrarle all’orecchio qualcosa sulla loro notte d’amore. La sua yasha avrebbe perso subito la sua baldanza, sarebbe arrossita e poi, ancor più arrabbiata, avrebbe preso a rincorrerlo per il castello. Sì. Ottima strategia per riportarla alla sua tenda, nel suo letto.

 

Sospirò scostando la frangia. Doveva tagliare un po’ quei dannati capelli. Gli finivano sempre negli occhi. Tuttavia, Koga doveva ammettere che, se non fosse stato per i suoi capelli, Ayame si sarebbe accorta del suo sguardo disperato quando l’aveva vista cadere a terra ferita da un soldato nemico. Koga non ricordava bene cosa fosse successo: odore di sangue di lupo, quello di Ayame; lei che striscia per terra premendosi il fianco; e il nemico che si avvicina a lei. Troppo vicino. Koga aveva lasciato che il suo sangue demoniaco esplodesse e lo trascinasse contro il suo avversario, squartandone il corpo con gli artigli e le zanne e bevendone il sangue. Sembrava una belva ferita e il suo viso imbrattato di sangue e sudore, con gli occhi quasi del tutto dorati. Si concesse un sorriso. Vedere ayame in pericolo lo aveva quasi spinto a trasformarsi, ad abbandonare le sembianze umane come poche volte si permetteva. Suo padre gli aveva insegnato le diverse forze che coabitano in un demone superiore come loro: la potenza ferina della forma animale e una forza mutevole della forma umana. Se, trasformato, fra lui e Sesshomaru non intercorreva differenza alcuna di istintività e feroce comportamento, sotto l’aspetto umano erano davvero agli antipodi: tanto controllato e distaccato l’inuyoukai quanto lui era passionale e impulsivo. Koga sapeva benissimo che non erano certo quelle le caratteristiche più adatte ad un principe, tuttavia non aveva mai dato peso a rigidi cerimoniali e il consenso nel suo popolo lo aveva ottenuto proprio grazie al suo temperamento schietto e a tratti rozzo. La corte inuyoukai, così controllata e composta, era per lui una vera e propria tortura.

 

Sbuffò. Le ferite al petto si erano rimarginate quasi completamente e in capo a uno o due giorni avrebbe potuto reindossare una corazza. Un ringhio si formò nella sua gola mentre la sua mente tornava velocemente preda dell’irritazione che l’aveva attraversata quando un demone aveva avuto l’ardire di strappargli la corazza a unghiate. Aveva fatto una brutta fine il suo nemico, ma lui ci aveva rimesso l’armatura di suo padre. Doveva ricordarsi di chiedere a Inuyasha se conoscesse un buon fabbro capace di riparargliela. Ci era affezionato, in definitiva. Ci sarebbe andato appena lasciato il palazzo. Stava davvero raggiungendo il limite e se ancora era rimasto era stato solo per permettere ad Ayame di recuperare del tutto le forze.

 

Bugiardo

 

Si massaggiò il collo. Non era proprio una bugia, ma nemmeno tutta la verità. Ayame avrebbe impiegato ancora un po’ di giorni a rimettersi completamente dalle ferite e dalle contusioni, soprattutto considerando il fatto che quella battaglia era stata il suo battesimo delle armi. Lui aveva cercato in tutti i modi di tenerla nelle retrovie, di proteggerla, ma la yasha era ribelle, orgogliosa e non aveva accettato le rudi e imbarazzate premure dell’ookami. Lo aveva seguito in prima linea per combattere con lui; per dimostrargli che non era una bambolina di porcellana ma che sarebbe stata degna, un giorno, di essere davvero riconosciuta come sua compagna. Koga incassò leggermente la testa mugugnando qualcosa. Per sua fortuna, Inuyasha era ancora troppo smarrito nei suoi ragionamenti per prestar attenzione al suo rossore. Ma lui non ci poteva far nulla: ricordare il corpo nudo della yasha, le sensazioni che quella notte gli avevano trasmesso lo mandavano in confusione, tanto che, ne era sicuro, se avesse aperto bocca avrebbe balbettato.

 

Quella era la seconda ragione per cui non si era ancora deciso a lasciare il palazzo: voleva poter restare ancora un po’ con Ayame. Riportarla da suo nonno significava ricostruire il distacco e l’indifferenza che avrebbe dovuto mantenere fino alla morte di Naraku. Ne aveva parlato anche con lei, in quei giorni, e Ayame in principio si era rifiutata di ascoltarlo: se davvero la considerava sua compagna, se davvero quel morso che si erano scambiati era la prova del loro sposalizio, perchè lei non poteva indossare le pelli del clan di Yoro e accompagnarsi a lui? Perchè doveva ancora rivolgerglisi come ad un amico o al proprio principe e non come all’uomo che amava? Koga aveva maledetto se stesso per quel discorso che l’aveva intristita, ma era necessario che lei sapesse: era la sua compagna,e questo nessuno avrebbe potuto cambiarlo; tuttavia, lui aveva una promessa da rispettare e fino allo scioglimento di quel voto, avrebbero dovuto continuare a tenere nascosto il loro legame. Per prudenza. Koga non avrebbe mai sopportato l’idea che Ayame fosse in pericolo per averlo seguito e perchè era legata a lui. restare al sicuro con il patriarca sulla montagna era l’unica soluzione possibile per proteggere la yasha e permettere a lui di rincorrere la sua vendetta con la sicurezza che, quando fosse tornato, lei sarebbe stata lì ad aspettarlo. Perchè, adesso, era certo di voler tornare.

 

In definitiva, però, c’era anche una terza ragione per cui risiedeva ancora a palazzo: Alessandra. Curiosità, interesse, compassione, coinvolgimento. Per molte ragioni che non aveva nè la pazienza nè la voglia di indagare, l’ookami era rimasto. E tutte quelle motivazioni confluivano nella ragazza. Voleva sapere se si sarebbe salvata; rivedere Inuyasha con la sua espressione che lo faceva tanto arrabbiare e Kagome mettersi fra di loro per separarli. Sapeva benissimo che, con quello che era successo e con la vita in comune che aveva trascorso in quei mesi, qualcosa era cambiato in modo irreversibile. Tuttavia, benchè la sottile consapevolezza di aver passato un limite lo attraversasse ogni volta che vedeva Inuyasha e Kagome insieme, anche se solo stavano parlando, lui non riusciva ancora ad accettare quella situazione. Quel cambiamento.

 

E poi c’è Nijiya

 

Koga poggiò stancamente una braccio sulla gamba tesa, sbirciando nel giardino. Il sole iniziava a calare e con lui anche il caldo soffocante del primo pomeriggio. In serata, si sarebbe potuto sperare in un leggero venticello. Nijiya. Non era stato pronto a trovarselo davanti. Non in quel modo. Disteso addormentato su un futon e pieno di bende. Lo aveva cercato per tutto il campo di battaglia. Era stato ben deciso ad affrontarlo e capire finalmente se quello che aveva davanti era suo fratello o un demone che gli somigliava soltanto. Strinse gli occhi. La cicatrice doveva essere una prova sufficiente, ma lui non si voleva del tutto convincere. Aveva avuto troppa paura di illudersi e poi vedersi sgretolare fra le mani quell’illusione. Ci era dovuto andare a sbattere contro per esser certo che il terzo principe del Kansai era in realtà quel fratello scomparso secoli prima.

 

Kyoko-sama gli aveva spiegato vagamente che Nijiya era stato portato sul Continente da Takakuni, un loro inviato, dopo che lo aveva soccorso in una foresta. Aveva riportato un’amnesia che gli aveva fatto dimenticare la sua origine e il suo passato e d era cresciuto con i principi del Kansai come uno di loro. Era stato il loro incontro a far scattare qualcosa nella mente dell’ookami, fino a costringerlo a riportare alla luce tutti i ricordi seppelliti da secoli. Adesso, spettava a loro decidere se considerarsi nemici o cercare di ricostruire un rapporto smarrito nel tempo. Koga, in principio, dovette ammettere a se stesso di esser geloso di suo fratello: trattava lui, un suo consanguineo, come un estraneo, e riservava le sue attenzioni ai principi del Kansai. Tuttavia, aveva cercato di dominare quel moto violento che lo prendeva ogni volta che vedeva Shin e Nijiya assieme. Si era ripreso quasi del tutto, e ormai anche lui non aveva più scusa da accampare per rinviare una conversazione che era, come minimo, dovuta a entrambi.

 

“Come pensi di fare con Koji?”

 

Koga trasalì. Ma che diavolo stava succedendo? Inuyasha non era certo mai stato delicato nel porre le sue domande, ma addirittura colpire al primo attacco a parole era un vero miracolo. La vicinanza del monaco iniziava ad avere effetti benefici anche sul cervello dell’hanyou, ipotizzò Koga. Sbuffò. No. Si era sbagliato. Lo sguardo di Inuyasha era troppo ingenuo perchè celasse doppi intenti. Semplicemente, doveva aver rinunciato a consumarsi la testa su qualsiasi cosa lo stesso facendo impazzire.

 

Koji. Lo chiamavano tutti così. Il nome che gli era stato dato dagli inuyoukai del Kansai. Un nome diverso da quello deciso per lui da loro padre. Si passò una mano nei capelli. Come avrebbe dovuto chiamarlo lui? Scrollò le spalle. Ci avrebbe pensato al momento adatto. Appena in grado di montare, lo avrebbe invitato a seguirlo fuori da quel palazzo claustrofobico. Se davvero doveva, voleva, parlare con suo fratello allora preferiva farlo all’esterno, fra i boschi in cui era cresciuto, dove loro erano cresciuti per un po’.

 

“E tu con Sesshomaru?”

 

Koga sorrise mostrando i canini appuntiti. Gli piaceva provocare Inuyasha e lo divertiva la faccia crucciata dell’amico. L’hanyou non sopportava che gli si rispondesse con un’altra domanda, e lui lo sapeva bene. Tuttavia, non riteneva ancora il tempo di chiarire le sue intenzioni. Il come e il quando avrebbe cercato di chiarire le cose con suo fratello riguardava solo lui, anche perchè significava esser abbastanza forti da sentirsi dire di non voler più tornare, da doverlo disconoscere. Allora, molto più facile provocare, affondando nella stessa piaga. Inuyasha, in definitiva, non era messo meglio di lui in quanto a rapporti fraterni e lui stava seriamente disperando che sarebbe mai riuscito a far parlare quei due in modo civile. Se restavano da soli per più di cinque minuti c’era il rischio che mettessero mano alle spade e in presenza di terzi non avrebbe mai parlato di se stessi. Koga incrociò le mani dietro la testa. Situazione persa. Forse, in definitiva, l’unico modo per farli parlare sarebbe stato proprio un duello, ma Kagome non lo avrebbe mai permesso. E poi, non era certo il caso di mettersi a litigare in quel frangente, mentre Alessandra era in fin di vita.

 

Koga non sapeva esattamente se la ragazza fosse semplicemente uno strumento per il Principe dell’Ovest, ma di certo le aveva riservato uno strano trattamento. A ben pensarci, era stato davvero inusuale il fatto che avesse delegato a lui e Kumamoto la fine dello scontro e se ne fosse andato dal campo di battaglia. Era ferito, d’accordo, ma rimuginando su come gli era sempre stato descritto il principe degli inuyoukai si sarebbe aspettato piuttosto di vederlo gettarsi nella mischia pur di riscattare il so onore e annientare un avversario che lo aveva, volente o nolente, tenuto in scacco per dei mesi. La vittoria che avevano conseguito aveva bel largamente riabilitato il prestigio di Sesshomaru che, presente o meno sul campo di battaglia, ne assumeva comunque tutti i meriti, ma non lo aveva visto impegnato nello scontro con Morigawa. E benchè, probabilmente, lo youkai mostrasse apparente indifferenza per quel confronto mancato, la corte non poteva esimersi dal commentare con acidità e stupore la scelta del loro signore di affidare ad altri la battaglia decisiva per salvare una semplice ningen.

 

“Quello è un caso disperato. E io non ho voglia di farmi ammazzare!”

 

Inuyasha ricambiò il ghigno. Parlare con suo fratello era pressochè impossibile in condizioni normali; sarebbe stato un suicidio provare ad avvicinarsi a lui in quel momento, quando nessuno era in grado di capire cosa gli passasse per la testa. Anche se Inuyasha si era accorto di avere una voglia matta di andare a tirarlo fuori dalla sua torre d’avorio e trascinarlo nella stanza di Alessandra. Sentì un brivido lungo la schiena al solo immaginare la reazione di Sesshomaru ad una sua intrusione. Se al momento non gli aveva ancora detto nulla per la libertà con cui aveva assunto il controllo della guarnigione a palazzo, forzare troppo la mano sarebbe stato come gettarsi nelle fauci del lupo. Sesshomaru non lo avrebbe mai perdonato. Però...però non gli piaceva. Ecco. Lo aveva ripetuto mille volte, e ogni volta la rabbia gli montava al cervello.

 

Raggiunse Koga sull’engawa e si lasciò cadere a terra. Quella situazione gli metteva addosso una tensione quasi insopportabile. Soppesò il volto con una mano e sbirciò gli appartamenti di suo fratello. Immobili. Irreali. Come se non appartenessero a quella realtà. Come se fossero la porta su un altro mondo. Inuyasha sbattè le palpebre come per schiarirsi la vista. Cosa aveva pensato? Un altro mondo? Quello degli youkai? Quello che aveva sempre rifiutato lui? Si massaggiò la testa. Non riusciva bene a definire la sensazione che gli aveva attraversato il cervello. Suo fratello che appartiene ad un altro mondo. Non fisicamente, ma in qualche altro modo. Quel distacco, quella superiore indifferenza e l’inespressività del suo sguardo come cifre di paragone di un diverso modo di vivere e, forse, percepire. Se si concentrava, le poche reminescenze che riusciva ad afferrare delle sue trasformazioni in demone completo gli riportavano alla mente sensazioni strane, qualcosa che gli faceva deformare la realtà che lo circondava. Non avrebbe saputo, però, nè come nè perchè. Erano solo frammenti veloci ed estremamente complicati da definire.

 

Si sdraiò sul legno dell’engawa caldo di sole. Non ci aveva mai pensato, ma cosa lo differenziava davvero dagli youkai? Non era una semplice questione di forza. Benchè fosse un hanyou era riuscito più volte a sconfiggere avversari più potenti e che erano demoni completi; era riuscito, anche se con difficoltà, a tener testa anche a Sesshomaru. Suo fratello disprezzava di lui soprattutto i sentimenti e a ben pensarci anche Naraku sembrava far di tutto pur di liberarsi della sua parte umana. Quella soggetta ai moti dell’animo. Però, anche se disprezzava i sentimenti, Sesshomaru doveva esser mosso da qualcosa. Tutti sono mossi da qualcosa: rabbia, desiderio, odio, orgoglio, amore. Cosa muoveva suo fratello? Un sentimento, certo, ma quale? Era rabbia quella che aveva sempre riversato su di lui, eppure non era quella furia cieca che può prendere un ningen. Aveva avuto più volte l’occasione di finirlo, trovandolo scoperto o preda del suo sangue demoniaco. Non ne aveva mai approfittato. In un certo senso, lo aveva invece aiutato. Quasi lo sbattergli in faccia la differenza che intercorre fra loro fosse il solo modo che Sesshomaru conoscesse per spronarlo. Per trasformarlo in quell’avversario realmente degno di lui.

 

Si arruffò la frangia in un gesto esasperato. Decisamente, faceva meglio a mandare al diavolo tutti quei ragionamenti contorti. Rischiava di trasfigurare la realtà. Suo fratello lo odia perchè è un hanyou. Punto. Discorso chiuso. Lui un avversario degno del Principe? Eresia. Pura eresia. Se Sesshomaru avesse solo sospettato quel pensiero in lui, avrebbe fatto meglio a tenere d’occhio gli artigli del fratello se si fosse avvicinato. Però, se un demone non prova sentimenti, perchè mai suo padre aveva rischiato la vita per lui e sua madre? In nome di cosa? Del suo orgoglio? No. Non avrebbe avuto senso. E poi, l’odio e il rancore di suo fratello nei suoi confronti non erano forse sentimenti? O lui li vedeva come tali e in realtà erano qualcos’altro, qualcosa che nè la natura umana nè la sua natura ibrida potevano discernere? In quel caso, forse suo fratello non era innamorato di Alessandra; forse teneva a lei come un ningen tiene ad un oggetto di sua proprietà. In definitiva, per quello che ne sapeva lui, Sesshomaru le aveva solo detto che era importante. Ma una persona che si ama non è solo importante; importante lo è un oggetto, un’arma, una proprietà. Non una persona. Non in quel senso.

 

“Ehi, lupo spelacchiato”

 

Koga gli grugnì qualcosa prima di rivolgergli l’attenzione. Inuyasha sentì il suo viso arrossarsi e abbassò lo sguardo. Non gli piaceva proprio tirar fuori quell’argomento, ma dei chiarimenti li poteva chiedere solo all’ookami. Che altri demoni conosceva ed era abbastanza in confidenza per avviare un simile discorso? Se davvero voleva provare ad aiutare Alessandra e proteggerla dalla corte, in primo luogo doveva provare a capire la mentalità di un demone. Arricciò il naso. In tanti secoli, proprio in quel momento doveva accorgersi che davvero esistevano differenze abissali fra lui e la razza di suo padre. Non era demone perchè conosceva i sentimenti umani; non era ningen perchè riusciva a capire la brama di confronto che anima gli youkai. Non aveva un posto. Di nuovo, desolatamente, si rese conto che sarebbe sempre stato da solo. Anche fra gli amici, anche fra chi lo aveva accettato. Scosse la testa. Niente autocommiserazione. Non era il momento. Koga lo avrebbe preso per uno stupido se avesse ancora rimandato di rivolgergli la parola. E al diavolo anche l’espressione incredula dell’ookami e il suo stupore. Per una volta, Koga gli sarebbe stato, purtroppo, davvero necessario.

 

“Un demone può amare?”

 

 

*****

 

 

La lama del kaiken diminuì la pressione. Lentamente, si allontanò dalla pelle della gola, scoprendo una leggera incisione rosata. Forza calibrata perfettamente: abbastanza da incidere la pelle, ma non sufficiente da lacerarla veramente. Mano decisa e veloce nell’estrarla e salda nel premerla contro la gola dell’avversario. Fulminea. Immediata.

 

Miroku si passò una mano sul leggero solco che gli segnava la gola. Sorrise a metà fra l’imbarazzato e il preoccupato. Promemoria mentale: mai, assolutamente mai, avvicinarsi a Sango per farle uno scherzo. Si rischia la vita. Però, a ben pensarci, quella collana che si era rimediato era un buon scambio, visto che aveva ottenuto il corpo della tajiya praticamente disteso sul suo. E gli era piaciuto molto, doveva ammetterlo. Sentire il peso della ragazza premere contro il suo petto, il respiro sfiorargli il viso, i capelli solleticargli la pelle. E poi, il suo sguardo, che da determinato era diventato stupito e poi imbarazzato. Assieme al viso che lentamente aveva cambiato tonalità. Bellissima. Davvero bellissima. Se non fosse stato per la lama che gli premeva la carotide avrebbe allungato le mani più che volentieri. Però, constatò, forse non lo aveva fatto solo per istinto di sopravvivenza. Sango poteva essere pericolosa, molto pericolosa e se, in un certo senso, con lui ci era sempre andata leggera, era altrettanto vero che non aveva mai avuto una lama in mano. Non che temesse realmente per la sua vita, ma aveva preferito evitare una punizione o un gesto avventato della ragazza che potessero compromettere per sempre il suo fascino.

 

Si rimise seduto lisciando il jimbaori scuro che portava sopra il kimono. Si sentiva un po’ a disagio con quegli abiti. Prima gli avevano fatto indossare una corazza, e adesso semplici kimoni da cortigiano. Rimpiangeva amaramente il suo ami-e con il gojo-gesa e gli habaki. Si sentiva più sicuro e disinvolto che con tutta quella stoffa addosso. Il cambio obbligato degli abiti, però, poteva avere un suo lato positivo. Come lui, anche Sango era stata costretta a cambiarsi, e davvero l'homongi panna con ricamate acqua e piccole trote le donava molto. Stentava quasi a riconoscere in quella ragazza vestita in modo quasi formale la sua abituale compagna di viaggio. Miroku stiracchiò un sorriso. Sango doveva esser cresciuta con un’educazione molto più simile a quella riservata ad un ragazzo che ad una ragazza, soprattutto considerando la sua abilità con katana e veleni. Era un’ottima guerriera, e per questo spesso si dimenticava che Sango era anche una donna. Soprattutto lei sembrava volerlo scordare. Eppure, c’erano momenti, come quello o quando era gelosa, in cui il lato femminile della sterminatrice emergeva prepotente. Eppure, nonostante il kanzashi hana a salice che le fermava i capelli le conferisse un aspetto elegante e altero insieme, Sango aveva avuto l’accortezza di nascondere nelle maniche del kimono un’arma offensiva. Non dimenticava di certo che, in definitiva, si trovavano fra demoni.

 

Sospirò sedendosi dietro di lei. Era un vero peccato. Il gesto brusco e improvviso aveva rovinato la sua bella acconciatura. Miroku sentì un brivido corrergli lungo la schiena al pensiero che, in realtà, il vero dispiacere era dato dal fatto che non sarebbe stato mai lui, probabilmente, a sciogliere una sua acconciatura. La sentì trattenere il fiato mentre si chinava a raccoglierle dalle mani l’hanagushi. Soffocò un sorrisino divertito. La grande sterminatrice aveva sviato il suo sguardo, fissando l’attenzione su alcuni, di certo interessantissimi, sassi del laghetto. Miroku non riuscì a trattenersi. Strinse la sua mano su quella della ragazza, così fredda e tremante. Spaventata. Le sfiorò la tempia con le labbra e scese a mordicchiarle piano il lobo di un orecchio.

 

Sango strinse la mano dell’houshi per riflesso. Miroku riusciva sempre a metterla in imbarazzo, e non le piaceva proprio la sensazione che le davano le sue labbra sul suo orecchio. Le facevano battere il cuore in modo doloroso. Doveva riprendersi e mollargli un ceffone. Allontanarlo e sbraitargli contro qualcosa. Tutto come al solito. Lui poi si sarebbe massaggiato la parte lesa con il suo solito sorrisino ebete e lei si sarebbe calmata. Di nuovo pace, e la possibilità di tornare a litigare all’occasione successiva. Tutto nella norma. Tutta regolare. Sango, invece, non riusciva a dirgli di smetterla, di allontanarsi da lei. E intanto Miroku scendeva lungo il suo collo sfiorandola appena, mentre una mano era corsa a massaggiarle la nuca. In modo eccitante, coinvolgente. Sango socchiuse gli occhi e dischiuse le labbra. Qualunque cosa facesse o volesse fare il monaco, l’unica cosa che sapeva era che non le avrebbe mai fatto del male.

 

Il respiro che si allontana velocemente e le mani che lasciano con frenesia i suoi capelli e la sua pelle la costrinsero a voltarsi. Non si era mossa, e forse Miroku aveva interpretato la sua rigidità come un rifiuto, un modo di opporsi alle sue attenzioni. Non che si volesse concedere subito e in quel modo, ma in quel momento le attenzioni di Miroku erano per lei un balsamo alla solitudine e al rimorso di non esser, di nuovo, riuscita a strappare suo fratello a Naraku. Kohaku era apparso e scomparso dal campo di battaglia in modo così veloce e repentino che Sango non aveva neppure la certezza di averlo visto davvero. Poteva benissimo esser stata la sua mente a elaborate la figura del fratellino, nello spasmodico e autolesivo tentativo di fornirsi una nuova occasione di azione. Kohaku non aveva partecipato all’attacco dei demoni al palazzo, tuttavia doveva esserci qualcuno a coordinarne i movimenti, e poteva benissimo esser suo fratello. Il fatto che non lo avesse visto combattere non significava che non ci fosse. Solo che, probabilmente, non era stato schierato in prima linea. Il precipitare della situazione, l’aiuto inaspettato del principe di Yezo, la frenesia che aveva attraversato tutti al pensiero di una trappola imminente su quanti erano a combattere Morigawa l’aveva trascinata in un vortice in cui la sua mente aveva assorbito il pensiero del fratello. Non vederlo era equivalso a non pensare a lui.

 

In seguito, appena ripristinata un po’ di tranquillità a palazzo, Sango non aveva potuto esimersi dal rimproverarsi di non essersi gettata all’inseguimento dei demoni che fuggivano. Seguirli l’avrebbero di certo portata da Naraku, e accanto a lui, sicuramente, avrebbe trovato Kohaku. Invece, era rimasta a palazzo ad aiutare a curare i feriti. Una sterminatrice che si prodiga per salvare la vita di demoni. Grottesco. Assurdo. Irreale. I mesi trascorsi a combattere con i soldati di Sesshomaru per difendere le mura erano stati stranianti, ma riscoprirsi a medicare e disinfettare ferite su corpi secolari, su pelli, scaglie, squame che solitamente aveva sempre e solo considerato come componenti di possibili armi, l’avevano fatta tremare dentro. Era stato come se, in un istante, avesse tradito tutto quello che suo padre le aveva insegnato, tutto quello per cui era sempre vissuta. Eppure, non poteva dimenticarlo, fra quei feriti c’erano demoni che avevano rischiato con lei la vita per proteggere il palazzo. Che avevano rischiato la vita per lei, per proteggerla e sottrarla agli avversari quando il numero minacciava di prevaricare le sue forze. Veterani soprattutto. Demoni che, se aveva ben compreso, avevano militato sotto il padre di Inuyasha e che le si erano sempre rivolti con fredda cortesia. Quasi un implicito riconoscimento del suo valore e della sua forza. Una sorta di omaggio, secondo consuetudini che lei probabilmente non riusciva a discernere. Era stata addestrata a combattere e uccidere i demoni, non a cercare di sondare le loro abitudini e la loro mentalità.

 

Scosse la testa e la liberò dal kanzashi. Kagome aveva insistito tanto per vederla abbigliata come si conveniva alla sua età, ma lei non sopportava tutti quegli orpelli. Quando era una bambina, per l’hina matsuri dei suoi sette anni, i suoi genitori le avevano regalato una serie di fermagli raffinati e molto particolari: kanzashi con grandi capocchie di giada, perle e legni rari, vere e proprie armi letali che aveva imparato a maneggiare egregiamente e che le avevano conferito dita sottili e polsi saldi. Quelli erano gli unici abbellimenti che aveva portato con orgoglio; bruciati con tutto il suo mondo. Da quando la sua gente era stata sterminata, Sango si era sempre ribellata all’idea di reindossare simili accessori. Le sembrava quasi di tradire la sua famiglia. Aveva ceduto solo dietro le pressanti preghiere di Kagome. Solo per farla contenta, si era detta. Li avrebbe tolti subito. Il tempo di una passeggiata in giardino. Sinceramente, non avrebbe mai voluto che uno dei suoi amici la vedessero abbigliata in quel modo. Soprattutto Miroku. Desiderio inesaudito. Il monaco l’aveva presa alle spalle, e se lei non lo avesse riconosciuto subito gli avrebbe tagliato la gola senza tante cerimonie. Stupida! Stupida! Si era così smarrita nelle sue riflessioni da non sentirlo avvicinarsi.

 

Sospirò pesantemente. Il pensiero di Miroku seduto dietro di lei, a pochissimi centimetri di distanza, non era di certo il miglior calmante. Soprattutto al pensiero di quanto avvenuto poco prima della partenza dell’houshi per il campo di battaglia. Si sfiorò le labbra in un gesto inconscio. Le era piaciuto quel bacio. Si era sempre ripetuta che, se solo Miroku ci avesse provato, lo avrebbe rimesso al suo posto con una serie di schiaffi da togliergli dalla testa l’idea di riprovarci. Invece, non aveva provato nessun desiderio di sottrarsi a quel bacio inaspettato, a quell’intimità improvvisa e violenta. Violenta, sì. Perchè tutto si era svolto in pochi secondi, dopo un abbraccio che aveva ben poco di cameratesco, ma che poteva non equivalere a nulla.

 

Strinse il pettine che stava rigirando fra le mani. Teneva a Miroku, era un suo compagno di viaggio, un amico che si era dimostrato capace di accettarla con le sue debolezze e cercava di non farle mai pesare lo sconforto che a volte l’assaliva. A modo suo, tentava sempre di sdrammatizzare i suoi pensieri cupi e malinconici. Certe volte Sango ammetteva a se stessa che avrebbe preferito un altro tipo di approccio, ma razionalizzando capiva benissimo che l’indole stessa del monaco gli comportavano certi atteggiamenti. Inoltre, a riprova del fatto che, innegabilmente, fra loro era nata una specie di alchimia, Sango doveva considerare un particolare non trascurabile: Miroku sapeva sempre quando frenare i suoi istinti e limitarsi a parole o ad una carezza di puro conforto. Sfiorarsi leggero e senza alcuna malizia, solo per farle capire che non era sola ad affrontare il peso che si era caricata sulle spalle. Che, voltandosi, lo avrebbe sempre visto dietro di sè, pronta a sostenerla e spronarla, a tenderle la mano se fosse caduta e a spingerla avanti se le gambe tremavano. Presente. Come una cosa ovvia. Naturale. Come era stato naturale il bacio che le aveva dato.

 

Le si era chiuso lo stomaco quando lo aveva visto rientrare a palazzo senza armatura e cavalcando il lupo di Koga. Esausto e coperto di sangue. Sembrava che solo un recondito istinto le tenesse in sella, ma ad ogni passo della fiera ondeggiava pericolosamente. Le era praticamente caduto fra le braccia appena si gi si era avvicinata. Pallidissimo e sudato. Sapeva di sangue, morte, sudore. Il profumo d’incenso che aveva sempre addosso era svanito. Sango, per un momento, si era chiesta se era davvero Miroku il ragazzo che le respirava pesantemente in grembo. Con i capelli sciolti e il kimono da battaglia assomigliava di più a un essere umano qualsiasi. Eppure, le era bastato gettare uno sguardo alla sua mano per cogliere le perle del rosario. No. Miroku, finchè Naraku fosse rimasto in vita, non sarebbe mai stato un ragazzo normale. Nemmeno nei sogni.

 

Voltò la testa. Eccolo lì, il suo monaco. Così allegro e vivace in apparenza, ma bastava che nessuno gli prestasse attenzione e la maschera di ilarità e determinazione si scioglieva, lasciando il posto ad un viso troppo giovane per la tristezza e la disillusione che lo segnavano. Il foro del vento. L’ossessione di Miroku. La condanno. Se fosse dipeso da lei, sango avrebbe seguito Miroku in battaglia per impedirgli di commettere qualche sciocchezza. Nonostante la promessa che Inuyasha gli aveva strappato, Miroku era portato, a volte, a rischiare il tutto per tutto e quello scontro, in definitiva, poteva ben rappresentare l’occasione per mettere fine alla sua vita. Sango rabbrividì e si strinse nelle spalle. Poteva fingere di non saperlo, poteva continuare a pensare che l’houshi cercasse in tutti i modi di combattere contro il suo destino di morte, ma sapeva benissimo che, spesso, per Miroku lo sconforto era tanto profondo da portarlo a desiderare di annullare di colpo il tempo che gli restava. Pur di non dover più vivere con le orecchie tese al suono della sua mano; pur di non dover sussultare al minimo soffio di vento, al minimo dolore che gli attraversava la carne.

 

Soprattutto in quei mesi, Sango lo aveva visto fissarsi la mano maledetta in modo strano. Con un sorrisino di autocommiserazione che le faceva sempre male. Si sentiva impotente davanti al suo rassegnato sconforto e non sapeva mai cosa replicare quando lui, dopo averla colta in fallo a fissarlo, le rivolgeva quello sguardo strano. Gli occhi tristi e un sorriso quasi di gratitudine. Ma per cosa? Lei non riusciva a fare mai niente per aiutarlo, per confortarlo. Lo aveva lasciato andare in battaglia da solo; non aveva avuto la forza di seguirlo. Razionalmente sapeva benissimo che non le sarebbe mai stato permesso, ma non aveva nemmeno cercato di opporsi a quella decisione di Sesshomaru. Inuyasha aveva maledetto e imprecato come un indemoniato e solo dopo una strenua resistenza si era rassegnato a non seguirli sul campo, ma lei, semplicemente, aveva chinato la testa, si era sistemata meglio hiraikotsu sulla spalle e se ne era andata. Obbedisco. In un gesto automatico, come se quell’ordine non fosse provenuto da un demone ma da suo padre. Scosse le spalle. Sapeva benissimo che se ne era andata solo per non dover ascoltare il compito riservato a Miroku. L’idea di conoscere perfettamente ogni fase e i pericoli cui sarebbe stato esposto, ne era certa, l’avrebbero portata ad un’azione scriteriata. A qualcosa di cui poi, sicuramente, avrebbe avuto da pentirsi.

 

La promessa che Inuyasha aveva strappato all’houshi era stata per lei un balsamo. Tuttavia, quando lo aveva dovuto medicare dalle ferite, si era chiesta se veramente Miroku vi avesse tenuto fede. Il corpo del monaco era ricoperto di abrasioni, tagli, contusioni. Doveva essersi trovato molte volte con le zanni di un qualche avversario a pochi centimetri dalla pelle. Non che lei fosse in condizioni migliori, visto che aveva riportato a sua volta innumerevoli ferite, ma si trattava perlopiù di ferite superficiali che orai si erano quasi rimarginate del tutto. Il corpo era ancora un po’ indolenzito per la pressione e gli sforzi cui l’aveva sottoposto, ma non avrebbe impiegato ancora molto per riprendersi.

 

Appoggiò la testa alla spalla del monaco e chiuse gli occhi. Miroku inclinò appena la testa. Non era usuale che Sango gli concedesse una simile vicinanza. Doveva essersi davvero preoccupata molto. Fece scivolare il braccio lungo la vita della ragazza e la strinse a sè. Se non fosse stato per i lupi di Koga e Ayame, ad un certo punto era stato davvero pronto ad infrangere la sua promessa e aprire il vortice. Dannazione! Circondato e sfinito non aveva visto altre possibilità. Invece, gli ookami avevano rotto con furia selvaggia il cerchio che lo stringeva e lui si era anche guadagnato un pugno dal principe degli Yoro. Si sfiorò un guancia. Koga non ci era di certo andato leggero, e il livido era ancora ben visibile sotto l’occhio destro.

 

Sospirò concedendosi un sorrisino. L’ookami aveva borbottato qualcosa e poi era tornato a combattere, lasciando alcuni suoi lupi a dargli aiuto nello scontro. Miroku appoggiò la testa a quella di Sango. La sospensione in cui trascorrevano quelle giornate era straniante e angosciante assieme. Cercavano di non realizzare la situazione pesante che li circondava, ma erano davvero rari i momenti in cui riuscivano a concedersi una piccola parentesi mentale. Kagome almeno aveva una carica propositiva con cui cercava di incoraggiarli e spronarli. Ingenuamente, certo. Ma almeno tentava d smuoverli dal limbo in cui si stavano lasciando cadere. Inuyasha, invece, era l’esatto opposto, e per lui che divideva la stanza con l’hanyou vederlo languire nel futon, smarrito in sensi di colpa e rimorsi non era certo un buon incentivo. Miroku si massaggiò distrattamente una spalla. Alessandra. Era il pensiero fisso di tutti loro. Assieme al sospetto di non aver fatto abbastanza per tenerla lontano dalle macchinazioni di Naraku. Dal loro punto di vista, Alessandra non aveva nulla a che fare con la loro vendetta e la Sfera dei quattro spiriti. Era, in un modo o nell’altro, legata a Sesshomaru, ma non sembrava un motivo sufficiente a giustificare il pericolo in cui si era trovata. Inuyasha, assieme a Kagome e Sango, si rimproverava di non averla costretta a restare a palazzo, e lui si malediceva per non essersi accorto in tempo della comparsa di Hakudoshi. Sarebbero bastati una manciata di secondi, e forse la naginata non l’avrebbe mai colpita. Il monaco si sentiva ancora ribollire il sangue per la rabbia davanti all’espressione soddisfatta del bambino. Avrebbe voluto cancellarlo immediatamente dalla faccia della terra. Liquidarlo. Annientarlo. Sbuffò appena. Recriminare non serve mai. A nulla. Quella era la situazione, e loro dovevano rassegnasi a consumare i giorni nell’attesa.

 

“State pensando a lei, houshi-sama?”

 

Miroku annuì con un sorriso. Houshi-sama. Sango non riusciva a smettere quel titolo formale. Quando erano con gli altri lo usava quasi sovente, e anche da soli lo impiegava più del suo semplice nome. Con naturalezza. Senza reale volontà di mantenere le distanze. Un tono così diverso da quello con cui si erano abituati a rivolgersi a Sesshomaru. Fatta eccezione per Inuyasha, che piuttosto di esprimere formalmente rispetto verso suo fratello si sarebbe fatto uccidere, loro avevano imparato in fretta ad aggiungere il suffisso onorifico al nome del demone. Non per reale deferenza, ma per semplice calcolo: non era il caso di esasperare la corte e incrementare ulteriormente astio e istinti bellicosi. Tanto più che le occasioni di rivolgersi all’inuyoukai erano rarissime e, quindi, quel piccolo sacrificio non pesava nemmeno tanto.

 

Sollevò lo sguardo alla mole del palazzo. Sopra il muro interno di conta, svettavano i padiglioni di legno e il corpo principale. Miroku seguì le linee sinuose dei tetti, spaziando per l’intero profilo che gli si concedeva. Fra i rami di una magnolia si poteva intravedere la sagoma della torre degli appartamenti di Sesshomaru. Storse le labbra per il disappunto. Il fatto che il Principe si fosse ritirato nei suoi alloggio e non si fosse più mostrato aveva avuta una serie di reazioni contrastanti: la corte era in subbuglio e probabilmente solo la paura che nutriva verso il proprio signore le impediva di chiedere direttamente spiegazioni; Inuyasha non l’aveva presa bene, quella ritirata di suo fratello, benchè non avesse mai detto niente. Miroku, però, lo aveva scoperto più di una volta, di notte, masticare imprecazioni contro la torre. Per quanto riguardava loro, invece, il comportamento del Principe non pesava molto: Sesshomaru era semplicemente un demone che avevano aiutato perchè così aiutavano in qualche modo Inuyasha. Nulla di più. Il discorso cambiava, invece, in rapporto ad Alessandra. Il pensiero delle condizioni della ragazza era una spina nel cuore per tutti loro. Insopportabile. Vederla agonizzare a letto e fissarsi le mani, consci di non poter far nulla per lei. Solo aspettare.

 

“Promettimi una cosa, Sango”

 

Miroku strinse forte la mano. Aveva sbagliato a darle quel bacio, anche se in quel momento gli era sembrato il modo più dolce per dirle che a lei teneva molto. Però, uno sbaglio resta uno sbaglio. Non avrebbe mai dovuto darle l’illusione del suo affetto. Sango era speciale per lui, e per questo aveva sempre cercato di vederla prima di tutto come sterminatrice che come donna. Sapeva benissimo che la più grande paura della ragazza era quella di ritrovarsi di nuovo sola, e non voleva raggirarla con false speranze. Se non avessero ucciso Naraku, lui era condannato ad esser risucchiato dalla sua maledizione. E l’avrebbe lasciata. Non poteva sopportare l’idea che Sango si caricasse anche il rimorso per non esser riuscita ad aiutarlo. Nonostante il suo comportamento, non passava giorno che Miroku non pensasse al tempo che ancora gli restava. Anni, mesi, forse solo pochi giorni.

 

Storse la bocca. Che amante strana, la morte. Ti sta sempre accanto, silenziosa e paziente. Aspetta che tu abbia la tua vita, le tue avventure. Aspetta. Pazientemente. E poi, ti prende, con violenza o dolcezza. Ma ti prende. E allora sei finito. Lei resterà la tua sola amante. Fredda e solitaria. Quando era piccolo, non capiva l’atteggiamento di suo padre. Adesso, che era diventato anche il suo, lo comprendeva. Vivere. Vivere alla giornata, ogni momento, ogni attimo fugace. Pur di poter provare ad assaporare la normalità. Suo padre voleva vivere con tutte le sue forze. Disperatamente. Eppure, il vortice se lo era portato via. Senza lasciargli nulla. Solo lo stesso destino.

 

Miroku stinse a sè Sango. Non voleva che, un giorno, potesse assistere alla sua morte. Lui aveva visto suo padre sparire lentamente, assieme a vento, foglie e polvere. La sua figura diventare sempre più piccola, sprofondare nella terra e nel nulla. Aveva testo le mani disperatamente. Urlando un nome che si perdeva nel vento. Assieme alle urla di suo padre. C’era solo il rumore del vento. Forte. Ossessivo. Devastante. Sango non avrebbe mai dovuto vederlo in quello stato. Nonostante avesse visto più volte la morte in faccia, continuava ad averne paura. E nemmeno il pensiero che, prima o poi, lo avrebbe preso riusciva davvero a farlo rassegnare. Tuttavia, quello era un peso che doveva, voleva, portare da solo.

 

Sango lo fissava a metà fra il curioso e il perplesso. La mano sulla spalla le premeva leggermente un ematoma, ma c’era qualcosa di strano in quella stretta. Nervosa. Troppo nervosa per essere riconosciuta come quella di Miroku. Le sue mani, di solito, sono languide, veloci nello sfiorare e nel ritrarsi. On si soffermano quasi mai in un solo punto. Esplorano la pelle e la stoffa. Invece, Sango sente quella mano serrarsi sulla sua spalla. Innaturale. Qualcosa urla dentro di lei, la mette in guardia. Sta per esserci qualcosa di spiacevole. Qualcosa che non vorresti sentire. La promessa che ti costringerà a fargli, tu non vorresti mantenerla, un giorno. Lo sai. Lo senti. Qualcosa che ti farà perdere lui.

 

Miroku si umettò le labbra e aprì la bocca. Un respiro inchiodato fra i denti. Sango aveva un’espressione così infantile. Timorosa e attenta. Le sorrise e le sfiorò la fronte con le labbra. Pazienza. Glielo avrebbe chiesto un’altra volta. Le avrebbe fatto promettere di continuare a combattere e, quando fosse giunto il momento, dargli un bacio prima di andarsene. Le avrebbe fatto promettere che non lo avrebbe visto morire per la sua maledizione. In nessun caso.

 

 

*****

 

 

Apatia.

Stanchezza. Vuoto. Annullamento completo. Nessuna forza, nessuna voglia di reagire, di muoversi. Annientamento. Totale. Disarmante. Sconosciuto. Irritante. Non era la solita spossatezza che può cogliere dopo un duello degno di questo nome. Non il languore per una tranquillità che si ripete uguale da secoli. Una tranquillità rossa di sangue. La sua esistenza. Scandita da un ritmo che lui conosceva. Un tempo non umano. Quasi divino. Non aveva la minima voglia di reagire, di smuoversi da quell’annichilimento che lo pervadeva. Continuamente. Senza riuscire nemmeno a capire il perchè.

 

Stagnava. Semplicemente. Di corpo e di mente. Qualsiasi pensiero provasse a formulare, subito lo lasciava decadere. Razionalizzare, riflettere, pensare. Ogni movimento intellettivo era stroncato sul nascere. Per non rischiare di focalizzare l’attenzione sulla realtà. Per non dover afferrare quel qualcosa che gli aveva fatto esplodere dentro un sentimento mai provato. Angoscia, terrore, sgomento. Qualcosa che non conosceva, che non aveva mai avvertito e non riusciva a discernere chiaramente. Che non voleva assolutamente mettere a fuoco. La sua razionalità, la forza della sua ragione sempre lucida e tagliente, pronta in ogni istante a discernere soluzioni e a soppesare ogni azione era sparita, inghiottita in una voragine scura mai conosciuta. E adesso restava solo un sottile filo che a malapena gli permetteva di discernere il lento avvicendarsi del tempo.

 

Non aveva più incontrato nessuno. Da quando aveva lasciato la stanza di Alessandra si era chiuso nei suoi appartamenti, dimenticandosi di ogni altro suono e sensazione che non fosse il sussurro della sua mente. Si sentiva in gabbia, chiuso e braccato da un’ossessione che non aveva nome. Non riusciva a focalizzare l’attenzione su altro che non fosse Alessandra, e quel pensiero bastava a fargli ribollire il sangue e digrignare i denti. Rabbia. Rabbia. Rabbia. Frustrazione. Impotenza. Malessere. Un male che non ricordava di aver provato nemmeno quando si era accorto che suo padre era morto; nulla di paragonabile al vuoto lasciato dalla perdita di sua madre o dall’umiliazione di aver scoperto l’esistenza di un fratellastro mezzo sangue.

 

Qualcuno era venuto per parlare con lui; qualcuno doveva anche aver bussato per farsi aprire. Gli era sembrato di sentire gli strepiti di suo fratello e la voce di una donna chiamarlo. Non si era mosso. Era rimasto seduto alla finestra della sua stanza, gli occhi chiusi e la testa reclinata di lato. Non aveva voluto ascoltare, non aveva avuto voglia di alzarsi e ricevere qualcuno. Chiunque fosse. Voltò il viso socchiudendo gli occhi. La stanza infuocata e calda. Un tramonto rosso. Come il sangue. Sollevò stancamente una mano, muovendola lentamente sugli hakama strappati e sporchi. Sangue rappreso. Gli incrostava gli artigli, confondendosi con la terra e la polvere. Rame antico. All’improvviso, si accorse di indossare ancora il kimono di quel giorno. Gli abiti stacciati e sporchi di sangue e sudore. Non aveva permesso a nessuno di avvicinarsi alla sua persona, nemmeno alla sua nuova archiatra. Si era dimenticato anche delle ferite che gli segnavano il corpo e della piaga che gli divorava la spalla. Fece scivolare quello che restava della manica della nagajuban a scoprire un tampone improvvisato. Già. L’unico rudimentale tentativo di arginare un po’ il sangue lo aveva permesso a suo fratello. Scosse la testa. Doveva essere completamente impazzito per averlo lasciato fare.

 

Strappò con un gesto secco il brandello di stoffa. Rosso spento. Sembrava che ogni cosa che vedesse avesse quel maledetto colore. Il colore del fuoco, del sangue, della morte. Il colore degli occhi di Naraku. Dei suoi occhi quando si trasformava. Dei capelli di Alessandra. Tastò la pelle vicino alla clavicola. L’osso era di nuovo intatto, e anche i fasci muscolari si erano riformati. La pelle nuova tirava leggermente, ma nulla di realmente fastidioso. Non era ancora guarito del tutto. Storse le labbra. Aveva perso molto sangue, in quella battaglia, e il suo corpo, benchè demoniaco, ne era uscito in un qualche senso provato. Non gli aveva giovato lo sforzo cui lo aveva sottoposto per arrivare in fratta a palazzo. Mentre correva, si era lentamente reso conto della lentissima, eppure così sgradevole, perdita di velocità. Aveva dovuto dar fondo a tutte le sue ultime energie per riuscire a rientrare, malfermo sulle gambe, pallidissimo e in un bagno di sudore. Sapeva benissimo di essersi lasciato alle spalle una scia di sangue, che era colata lungo la schiena, gli aveva appesantito il kimono e alla fine era caduta a terra. Aveva ignorato tutto. E continuava a farlo.

 

Sesshomaru sollevò stancamente i capelli che gli ricadevano disordinati sul volto e sulle spalle. Sembrava un relitto. Dov’era finita la sua altera compostezza, l’eleganza innata di ogni suo movimento? Ridotto in quello stato dopo uno scontro. Si stropicciò gli occhi con una mano. No. Non era stato lo scontro a provarlo a quel modo. A svuotarlo di ogni energia, ad addormentare ogni sua reazione. Era qualcos’altro, quel pensiero che continuava a ronzargli nella testa e non riusciva ad afferrare concretamente. E quella situazione lo stava facendo arrabbiare. Lentamente. Inesorabilmente. Non accettava che attorno a lui, in lui, si verificasse un qualsiasi cambiamento che esulasse dalla sua comprensione, che lui non fosse in grado di vivisezionare freddamente fino a raggiungerne l’esatto significato. Ad attribuirli valore e spessore appropriati.

 

Egoistico da parte sua. Molto. Alessandra poteva esser morta, e lui si preoccupava di riprendere potere sul suo pensiero, sulla sua mente. Chiuse gli occhi. Non era sbagliato il suo atteggiamento. Continuava a ripeterselo. Era il modo di agire di loro demoni. La freddezza prima di tutto; fredda capacità di analisi e totale controllo sul proprio io. Calma. Calma esasperante in ogni azione, anche nella furia più cieca. Era quella la distinzione che intercorreva fra il suo sangue puro e quello del suo fratellastro. Il privilegio di conservare sempre inalterata la sua capacità razionale. Il suo ego. E Mentre lui ingaggiava quella lotta contro se stesso, con il solo obiettivo di riottenere la sua consueta indifferenza, Alessandra consumava lentamente la vita. Sdraiata in un futon. Agonizzante. Oppure poteva essere...poteva già essere...Strinse la stoffa fino a lacerarla e a conficcarsi gli artigli nella carne. Non riusciva nemmeno a formulare il pensiero. Eppure, benchè sapesse benissimo che era una possibilità da tenere in considerazione, quasi un’ovvietà, lui continuava a restare inchiodato lì, seduto contro il davanzale della mado.

 

Si sfiorò con la lingua le labbra. Secche. Sentiva il sapore metallico del sangue, la polvere e piccole screpolature che le intaccavano. Si sorprese a desiderare dell’acqua. Per lavarsi da quello sgradevole sapore e rinfrescarsi la gola. La bocca impastata con la lingua pesante. Masticò piano, cercando di risvegliare il gusto: l’amaro del sangue, l’arido della sabbia, il fresco dell’aria, il dolce. La voglia di bere continuava a crescere. Reclinò indietro la testa e schiuse le labbra. Non aveva nessuna intenzione di cedere a quel capriccio del suo corpo, di trascinarsi in piedi e scendere nello studio. Per scoprire poi che non c’era nulla da bere ed esser costretto a uscire o chiamare qualcuno. Poteva benissimo ignorare quel debole desiderio. Patetico. Umano.

 

Acqua che scorre sulla pelle, che bagna e rimane intrappolata sulle labbra, in piccole fossette ai lati di un sorriso. Una mano bagnata finge di asciugare quella bocca, sale fra i capelli e li ravviva. Alessandra gli sorride; il viso, fresco e gocciolante nell’intimità delle candele, appena sollevato dal catino, mentre afferra un asciugamano e poi inizia a schizzarlo senza preavviso, bagnando i tatami, il futon; bagnando lui che si limita a voltare la testa. Sesshomaru batté le palpebre. Una, due, tre volte. La mano corse automaticamente al viso, per asciugare delle goccioline inesistenti. Alessandra non era con lui, in quel momento, e quello era solo un ricordo. Un maledetto ricordo.

 

Lasciò cadere la mano. Sbattè contro qualcosa di duro, metallico. Gli artigli vibrarono appena. Concesse a se stesso la curiosità. Il saya di magnolia con kurigata di corno. Strappò i ritagli di seta del sageo. Non ricordava nemmeno di averlo strappato per liberarsi della spada. Tenseiga. Riposava tranquilla la suo fianco. Placida. Aveva smesso di pulsare, e lui non se ne era nemmeno accorto. Aveva smarrito la cognizione del tempo, per quanto non l’abbia mai ritenuta davvero importante. Quanti giorni erano trascorsi da quando si era rinchiuso in se stesso, da quando aveva permesso al suo corpo e alla sua mente di rallentare ogni loro funzione, fin quasi alla catalessi. Quanti giorni erano passati da quando aveva visto Alessandra rotolare a terra, contorcersi e urlare nella sua presa graffiandogli e mordendogli le spalle, da quando l’aveva vista nuda in quel futon, sudata e ansimante? Perchè ha la sicurezza, irritante, che sono giorni quelli che ha consumato in quella stanza, senza pensare, senza reagire, senza muoversi. Limitandosi a cercare di ricostruire la sua bella maschera di ghiaccio, la sua freddezza. Senza indagare cosa realmente lo avesse colpito, cosa veramente lo avesse gettato nel...panico. Sì. Forse era quella la parola più adatta. Non lo stesso sentimento che prende i ningen davanti al pericolo, non quell’isterismo che cancella ogni ragione e fa muovere in modo febbrile e sconclusionato. Un panico diverso, quasi impalpabile. Eppure, se ci rifletteva, ne riconosceva ogni sintomo: il rifiuto di lasciarsi avvicinare, di poter mostrare un momento di debolezza, di smarrimento; l’indifferenza a ogni cosa fuorchè a se stessi; un egoismo innato e autoprotettivo per continuare a preservare la propria esistenza e il proprio ruolo; il rifiuto di soffermarsi su ogni pensiero per evitare di riaccendere la scintilla di angoscia. Rimandare. Per affrontare tutto dopo. A mente lucida e perfettamente cosciente, e non sotto la spinta di una razionalità puramente istintiva.

 

Sospirò. Non poteva continuare a rimandare e languire in quello stato. Non era degno di lui. Non si confaceva al principe dei demoni lasciarsi vincere da un irritante atteggiamento mentale. Alessandra. Quello era l’unico punto fermo dei suoi pensieri. Se cercava di pensare a lei, la mente si ribellava e svicolava verso altri pensieri. Diametralmente opposti. Totalmente demoniaci ed estranei alla ragazza. Mai toccati da lei. Era come se, inconsciamente, la sua testa cercasse di evitargli di prendere coscienza di qualcosa. Di appuntare l’attenzione su un particolare e al tempo stesso continuasse a sottolineargli quel fantomatico elemento. Forse per contrasto, ipotizzò. C’era qualcosa che lo preoccupava, in Alessandra. Qualcosa che era emerso quando lei era rimasta ferita, ma che forse non aveva necessariamente un legame con le sue attuali condizioni. Per quante volte anche Rin avesse corso rischi e si fosse trovata alla mercè dei suoi avversari, Sesshomaru sapeva perfettamente di non aver provato mai la medesima sensazione. Quel sottile pensiero che gli serpeggiava continuamente nel cervello.

 

La morte. Prima ipotesi. Era irritato dal fatto che Alessandra potesse morire a causa di quel maledetto hanyou. Logico, comunque. Coerente da parte di Naraku cercare di colpirlo indirettamente. Ucciderlo sarebbe equivalso a privarsi di una possibile fonte appetibile di youki e sconfiggerlo era impensabile per un bastardo del suo livello. L’unica cosa che Naraku potesse colpire per cercare di indebolirlo era il suo seguito. Era già ricorso a quell’espediente, rapendo Rin, per assicurarsi una via di fuga; poteva benissimo aver ordito l’assassinio della ragazza con la convinzione di gettarlo nel furore e renderlo quindi preda più facile. L’idea di esser al centro di un simile piano, preda di un insulso mezzo-demone che traeva la sua maggior forza da cervellotiche macchinazioni gli fece stringere i denti, mentre un ringhio basso si formava nella sua gola. Odiava esser cacciato e non cacciatore; gli era insopportabile l’idea che qualcuno arrivasse a concepire la possibilità di mancargli di rispetto e riuscire a sottrarsi a lui. Ai suoi artigli.

 

La sua avversione per Naraku, in definitiva, si riduceva a quello: vendetta per un’offesa che aveva ricevuto. Futile, se paragonata alle motivazioni che spingevano suo fratello e i componenti del suo gruppo o il principe degli Yoro. Futile e quasi insignificante, ma per lui era basilare. L’orgoglio della sua stirpe e della sua superiorità costituiva il nerbo di ogni suo ragionamento, di ogni sua azione. Venir raggirato, beffeggiato e non ottenere risarcimento per l’umiliazione, anche minima, cui era stato sottoposto bastava a scatenare la sua collera. Spietata e letale. Naraku gli aveva mancato di rispetto varie volte, disconoscendo la sua superiorità e arrivando ad avere la presunzione di rivolgersi a lui come un suo pari. Impensabile e stupida boria che, presto o tardi, lo avrebbe portato sotto i suoi artigli.

 

Rialzò con una mano la frangia, scoprendo la mezzaluna che gli segnava la fronte, e socchiuse gli occhi. Scartare la morte. Non era sufficiente il timore che Alessandra morisse ad avergli procurato un simile stato d’animo. Carezzò distrattamente Tenseiga. Sarebbe bastato un solo fendente, e la ragazza sarebbe tornata alla vita. E così ogni volta che la situazione si fosse ripresentata. Non avrebbe mai rischiato di perderla solo perchè gli inferi ne reclamavano l’anima. Avrebbe continuato a richiamarla indietro. Ogni volta. Era inutile, quindi, preoccuparsi dell’eventualità che potesse morire. Sesshomaru sapeva che, comunque, avrebbe potuto riportarla indietro. Storse le labbra. Quella era l’unica capacità della sua spada e, per una volta, dovette ammettere che gli sarebbe stata davvero utile.

 

Debolezza. Di non riuscire a difenderla. Scosse la testa. Possibilità da ignorare. Immediatamente. In ogni circostanza sarebbe riuscito a mantenere la sua autorità su di lei, scoraggiando chiunque concepisse l’idea di colpirlo approfittando della ragazza. Naraku era un caso particolare, la classica eccezione che conferma la regola. Fra loro youkai, chiunque avesse cercato di approfittarsi di Alessandra sapeva benissimo a cosa andava in contro. Non importava che fosse l’archiatra, l’amante, la concubina, la schiava del Principe. Era nel seguito di Sesshomaru, e tanto bastava a porla sotto la sua protezione. A prescindere dal possibile rapporto che, eventualmente, fosse intercorso fra loro. Accessorio. Da non considerare nemmeno. Sui suoi subordinati, solo lui deteneva potere di vita e di morte, e Alessandra rientrava in quel novero. Si concesse di increspare le labbra. Se la ragazza gli avesse sentito pronunciare quelle parole avrebbe iniziato a ribellarsi immediatamente.

 

Sesshomaru sapeva bene che la perfezione che cercava di ostentare la ragazza era solo una maschera dettata dalla necessità di non mostrasi debole. Il loro mondo si basava molto sull’apparenza, sul sorriso che contraddistingue anche la più accesa delle discussioni, su una calma e un calibrare ogni azione per armonizzare tutto. In loro youkai la tensione spasmodica all’armonia che i ningen ricercavano era innata. Ogni loro gesto, dal più pianificato a quello più impulsivo trasmetteva un ordine e una compostezza che un uomo non avrebbe mai potuto raggiungere nell’arco della sua vita. Troppo breve. La vita umana si riduceva alla frustrante tensione a quella perfezione tanto ricercata, e solo sfiorata. Disciplina, controllo, obbedienza, equilibrio. Le caratteristiche cardine di loro taiyoukai erano, in qualche modo, venute in possesso dei ningen, che le avevano composte in una ferrea regola per tentare, vanamente, di raggiungere la perfezione.

 

É un essere umano

 

Quattro parole. Quattro semplicissime parole. Gli esplosero all’improvviso nella testa, costringendolo a smettere di respirare. Come se fosse stato colpito da qualcosa e i suoi polmoni svuotati dall’aria. Si sbilanciò e fu costretto a reggersi ad una mano per non cadere a terra. Inaudito. Non aveva mai permesso a nessun pensiero di provocargli una simile reazione. Una mano corse alla gola. La carotide pulsava come impazzita per effetto del sangue. Boccheggiava. E ancora non riusciva ad afferrare il reale valore di quelle parole.

 

Gliele aveva dette qualcuno. Suo fratello, forse. No. Qualcun’altro. Qualcuno che lo aveva chiamato con il suffisso onorifico. Un ningen. Ricordava lentamente il suo odore: sangue, sudore, carne umana. Incenso. Appena percettibile, ma presente. Incenso e sandalo. Un monaco. Quello che viaggiava con suo fratello. Perfetto. Primo tassello. Ma quando gliele aveva dette, e perchè? Si ricompose contro lo stipite. Non riusciva a ricordare chiaramente, e non gli piaceva. Non sopportava di poter dimenticare qualcosa senza rendersene conto. Voleva sempre avere sotto controllo ogni cosa, fin nei recessi del suo pensiero. Presuntuoso, ma in un certo senso era una priorità di loro demoni. Dimenticare solo quello che realmente si desidera. Meglio, rinchiudere in un cassetto della memoria ogni ricordo che si ritiene inutile, accessorio, insignificante. Lasciarlo ammuffire senza rimorso. Quello, però, non poteva essere un elemento inutile. Altrimenti, perchè quelle parole lo avrebbero costretto ad una simile reazione? Irritante, quasi umana.

 

Quando aveva parlato con il monaco? Le occasioni erano state pochissime, poteva contarle sulla punta delle dita. E avevano sempre scambiato pochissime parole. Era quasi un affronto, per lui, dover rivolgere la parole ad un ningen. Siccome, però, era certo che fosse del monaco quella frase, doveva assolutamente ricordare quando gliele aveva rivolte. Non al castello. Di questo era certo. Non era mai avvenuto dopo uno degli scontri che vedevano Miroku impegnato a reggere una barriera mistica. Sapeva di sangue e sudore. Nemmeno durante la marcia per raggiungere la piana dello scontro con Morigawa. Certissimo. Aveva cavalcato Ah-Un in testa al suo esercito, e il monaco non gli si era mai avvicinato se non alla fine. E quella non era certamente una situazione adatta per parlare, visto che subito si era verificato l’assalto delle truppe di Morigawa. Quando, allora? Quando?

 

La sensazione di un corpo contro il suo, un respiro sempre più pesante e brividi lungo la schiena. Sesshomaru si rivide inginocchiato accanto al corpo di Alessandra, su quel campo di battaglia. Svuotato e incapace di razionalizzare davvero. Risentì il fragore dello scontro, il sangue ribellarsi per tornare in campo e quelle parole scivolare lentamente nel suo cervello: Alessandra non avrebbe retto a lungo; il suo fisico era allo stremo. Alessandra è un...essere umano.

 

Ecco. Il monaco gli aveva detto quelle parole e lui si era deciso a lasciare la battaglia. Con suo fratello alle spalle e il corpo della ragazza fra le braccia. Che stupidaggine! Perchè mai doveva provocargli una simile reazione quella frase? Alessandra era una ningen, lo sapeva benissimo. Lo aveva sempre saputo. Perchè all’improvviso doveva esser divenuto un problema, essersi tramutato in un qualcosa di nuovo e sconosciuto? Eppure, era l’unico elemento che era stato capace di provocare una reazione nel suo corpo. Una reazione forse davvero eccessiva per un qualcosa di già provato.

 

Ne ero davvero...cosciente?

 

Sesshomaru socchiuse gli occhi. Alessandra come essere umano. Come uno di quei ningen che lo disgustavano, che considerava alla stregua di carne debole e facile da ferire. Alessandra soggetta al tempo, ad un ritmo diverso dal suo, ad un consumarsi veloce in un’esistenza effimera e priva di possibili, vere, aspirazioni. L’aveva mai vista come una ningen? Lo sapeva, ma davvero ne aveva preso coscienza? A cosa pensava quando l’aveva baciata, quando si era scoperto a sfiorare la sua pelle, a desiderare il suo calore e il suo corpo, quando l’aveva osservata, sfacciatamente, nuda e agonizzante nel futon, quando aveva desiderato averla nel letto? Alessandra. Aveva pensato solo al suo nome, a lei come essere autonomo, estranio da ogni altro elemento. Lei e basta. Senza definizione e razza di appartenenza.

 

Una donna. Una donna mortale. Alessandra era un essere umano. Sesshomaru realizzò per la prima volta che, anche vincendo la corte, anche con la possibilità di riportarla in vita ogni volta che se ne fosse andata, Alessandra era diversa da lui. E prima o poi lui l’avrebbe persa per sempre. Una donna umana. Mortale. Una debole donna che avrebbe sempre dovuto tenere al sicuro, chiusa al castello, con il costante pensiero che chiunque avrebbe potuto metter fine alla sua vita con irrisoria facilità. Quanto tempo sarebbe ancora trascorso prima che iniziasse a vederla invecchiare, prima che i suoi capelli si tingessero di bianco, la sua pelle si disseminasse di rughe e lei iniziasse a corrompersi, lentamente? Avrebbe potuto, in un certo senso, darle una vita pressochè eterna con Tenseiga, ma non l’eterna giovinezza, non la cristallizzazione del suo aspetto. Potevano ancora trascorrere vari anni, ma prima o dopo avrebbe dovuto raffrontarsi con quel realtà: Alessandra sarebbe invecchiata sotto i suoi occhi, e lui non avrebbe subito alcun mutamento.

 

A quel punto, cosa avrebbe fatto? Si sarebbe stancato di lei e l’avrebbe cacciata, rimandata nel suo mondo perchè ormai non era più in grado di compiacerlo e gli procurava invece ribrezzo guardarla o l’avrebbe comunque tenuta con sè, relegandola lontano da tutto e da tutti. L’avrebbe avuta al suo fianco per degli anni, ma poi, quando la corte avesse iniziato a premere perchè desse alla sua stirpe un erede degno del suo sangue puro, come si sarebbe comportato? Alessandra era troppo importante per abbassarla al ruolo di amante, e non si sarebbe mai umiliato ad accompagnarsi a lei solo per istinto carnale. Però non aveva nemmeno valutato il fatto che, comunque, da lei non avrebbe mai potuto avere un erede degno e puro. Volente o nolente, avrebbe dovuto acconsentire a condividere il letto con una demone, anche solo per il tempo necessario a che lei concepisse.

 

Suo padre aveva avuto solo una moglie, sua madre, e la relazione con la madre di Inuyasha non poteva nemmeno esser considerata adulterio. Suo padre era vedovo, e comunque sarebbe stato nel suo pieno diritto avere altre donne. Vari sovrani di altri clan avevano più di una consorte, e una regina che aveva dato loro l’erede designato. Non necessariamente la donna favorita. Non avrebbe dovuto costituire reale problema il fatto che lui tenesse come favorita Alessandra, e designasse come possibile erede il figlio avuto da una yasha. Non gli faceva ribrezzo, quel pensiero. Era assolutamente normale. Tuttavia, non poteva permettersi di dimenticare che, a quel punto, Alessandra sarebbe divenuta davvero semplicemente un’amante. L’avrebbe persa. Se non fisicamente, spiritualmente.

 

Essere umano. Essere umano. Essere umano. Morte. Sofferenza. Dolore. Malattia. Fra loro ci sarebbe stato per sempre un abisso; il loro rapporto non poteva evolversi più dello stadio cui era giunto. Lui non avrebbe mai capito certi suoi atteggiamenti, e Alessandra non poteva smettere di tremare davanti ai suoi artigli scarlatti, alla leggerezza ovvia con cui uccideva chi lo infastidiva senza provare rimorso. Se poi, malauguratamente, la ragazza avesse concepito un figlio da lui? Un mezzo-demone come suo fratello, un bastardo che avrebbe ulteriormente sminuito la loro potenza. Non avrebbe mai acconsentito di aver ripetuto l’errore di suo padre: un figlio illegittimo e ibrido. Un disonore da debellare. Non gli sarebbe mancato di certo il coraggio di ucciderlo appena fosse nato, ma Alessandra non glielo avrebbe mai perdonato. Per le donne un figlio è una ragione di vita. Inuyasha lo era stato per sua madre, e anche fra le yasha la situazione era simile. Lui stesso era stato un sostegno per sua madre. In modo diverso da come lo può essere un ningen per una donna umana, perchè comunque sua madre era una yasha potente e autonoma, che aveva potuto vivere accanto a suo padre in indipendenza e senza un rischio troppo grande, ma era comunque stato un punto fermo per lei. A modo suo, lo aveva amato e si era preoccupata per lui. Senza eccessive effusioni, ma senza lesinarle del tutto.

 

No. Lui non avrebbe mai accettato di poter ulteriormente inquinare la sua stirpe, e Alessandra non gli avrebbe mai perdonato di uccidere quello che lui avrebbe ritenuto un abominio da distruggere. Ma allora perchè aveva permesso a quella ragazza e a se stesso di incrinare la sua protezione di ghiaccio? Era successo qualcosa che gli aveva impedito di focalizzare appieno, prima di allora, la realtà della natura della ragazza. Essere umano. Essere mortale. Essere diverso. Diverso da lui nel corpo, nel tempo, nella forza, nell’essenza, nel modo di pensare e concepire il mondo. Diverso. Inconciliabile. Sbagliato. Un rapporto sbagliato, e di cui, paradossalmente, irrazionalmente, sentiva di non voler fare a meno. Sarebbe bastato così poco per troncare tutto: lasciarla morire o, se si fosse ripresa, rispedirla nel suo mondo. Estirpare quello che sentiva, il desiderio che aveva di stringerla fra le braccia, di vederla nuda nel suo letto. Finalmente remissiva e domata, pronta ad assecondarlo. Debellare la voglia di liberarla dal kimono e scoprire lentamente la sua pelle, di sentirla fremere eccitata e vederla bagnarsi leggermente di sudore. Finalmente sua. Finalmente a gemere contro la sua spalla, sulle sue labbra, e questa volta non per soffocare il dolore. Nessuno spasmo per ferite e sangue. Nessuna nudità inframmezzata di rosso.

 

Sesshomaru spalancò la mado. La notte era calda. Indugiò sul primo spicchio di luna. Una falce sottilissima, appena arcuata. Percorse i contorni massicci dei tetti dei suoi appartamenti. Dalle shoji di Alessandra filtrava una debole luminescenza. Come se lo stesse aspettando. Come lui, mesi prima, aveva preso l’abitudine di mettere una candela sul davanzale. Per chiamarla, per parlarle quando il tempo e la guerra, invece, non lo permetteva. Alla fine, gli era risultato naturale entrare nella camera e trovarsela nel letto. Senza nessun intento malizioso. Alessandra si era ancorata a lui come alla salvezza. Aveva raccolto la sfida che le aveva lanciato al tempo che si erano visti per le prime volte: vediamo quanto resisterai a me, ad un demone, tu che sei solo un essere umano che non sembra spaventato dalla morte. In quei primi momenti, Sesshomaru era rimasto leggermente colpito dal fatto che quella ningen non provasse timore dei suoi artigli, che li avesse lasciati sfiorarle la pelle della gola come aspettando solo che la lacerassero. Quasi con disperato desiderio di sentirsi uccidere. Alessandra aveva perso la sfida, gli era ceduta, ma neppure lui poteva affermare di esserne uscito vincitore. In un certo senso, si era aggrappato a lei quando aveva scoperto di essere divenuto cieco.

 

Alessandra gli era rimasta accanto in ogni momento. Fisicamente finchè erano giunti a palazzo e poi soprattutto con una discrezione che gli permetteva di avvertire la sua presenza ma non gliela faceva pesare. Senza saperlo, Sesshomaru l’aveva costretta ad un autocontrollo esasperato che aveva soffocato ogni sua caratteristica e aveva impedito al demone di focalizzare realmente l’attenzione sul fatto che lei fosse umana. Si erano ingannati a vicenda, e adesso Sesshomaru avvertiva opprimente il peso di quella ovvia e improvvisa consapevolezza. E non sapeva, forse davvero per la prima volta nella sua vita, come comportarsi. Troppo sconvolto, combattutto, smarrito. Eppure, doveva decidere. Alessandra continuava a sopravvivere, a languire in quel letto anche se lui non le era stato accanto nell’agonia, anche se l’aveva lasciata sola ad affrontare quella sfida. A prescindere da quello che sarebbe successo dopo, a come avrebbe deciso di comportarsi, Sesshomaru sapeva che aveva sbagliato. Comunque, le doveva qualcosa di indefinito, e avrebbe dovuto cercare di ricambiarla.

 

Si alzò con rinnovata eleganza. Si liberò degli abiti che ormai portava da troppo tempo e indossò un kimono nuovo, soppesandosi al fianco la sola Tenseiga e scavalcando agilmente la finestra. Atterrò sul muro di conta interno, appiattendosi leggermente all’ombra di un albero secolare. Le zanne di svelarono per un istante. Sembrava un ladro tanta era la circospezione con cui si muoveva, ma non voleva esser scoperto. Sarebbe andato da Alessandra, questa era la sua certezza. Ma non prima di aver deciso come comportarsi in futuro. Se avrebbe messo a tacere gli istinti o si sarebbe deciso ad assecondarli, fregandosene del fatto che fosse umana e che, prima o dopo, l’avrebbe persa. Per prima cosa, doveva realizzare se sarebbe stato in grado di accettare di separarsi da lei. Per il resto, il futuro, il figlio che un giorno avrebbe dovuto generare, il ruolo di moglie e amante, l’insopportabile possibilità di una discendenza bastarda...tutto il resto avrebbe aspettato.

 

Voglio capire. Me stesso prima di tutto

 

 

*****

 

 

Non era sicuro di aver capito cosa fosse successo. Anzi, non ci capiva assolutamente nulla. Ma se, in fin dei conti, qualsiasi cosa fosse successo serviva a salvargli la vita, allora poteva anche ignorare qualsiasi altra cosa. L’unica cosa importante era che, se succedeva qualcosa, lui non ne fosse coinvolto. Certamente non così semplice come appare, visto che, da quando era rientrato, il suo signore si era disinteressato ad ogni incombenza di corte, che di conseguenza erano ricadute sulle sue spalle. Già non era stato facile cercare di sedare gli animi dei cortigiani adirati perchè Sesshomaru-sama aveva evitato di cogliere la vittoria della battaglia delegando le ultime fasi a dei semplici subordinati ed era rientrato a palazzo per un essere umano, ma Jacken davvero aveva sudato freddo nel ritrovarsi a gestire i complicati rapporti che si erano venuti a creare. Sesshomaru-sama gli aveva lasciato un incarico che non era sicuro di poter assolvere, soprattutto contando il fatto che non aveva ricevuto non precise direttive, ma nemmeno uno straccio di indicazioni. E muoversi alla cieca, con il rischio di causare qualche incidente o trarre degli accordi che poi non avrebbero incontrato l’approvazione del suo padrone non era effettivamente un pensiero incoraggiante. Se fosse stato possibile, avrebbe pregato Kumamoto-sama di intercedere per lui, o almeno di parlare con il Principe per richiamarlo ai suoi compiti. Lui non osava nemmeno avvicinarsi ai suoi appartamenti dal momento che l’inuyoukai non rispondeva nemmeno a Yaone quando cercava di comunicargli le condizioni di Alessandra.

 

Come se non bastasse, poi si era inserito il problema di Rin. E quello veramente avrebbe potuto costargli la testa. Jacken sapeva che la lunga lontananza dal suo signore rattristava la bimba, ma negli ultimi mesi l’esser circondata sempre da almeno una persona, ningen o youkai, sembrava renderle meno pesanti le separazioni, e anche la presenza di kiba avrebbe dovuto attenuare molto la sua solitudine. Invece, da quando aveva visto Sesshomaru-sama rientrare a palazzo con Alessandra ferita, Rin si era chiusa in un ostinato mutismo. Aveva rifiutato il cibo, e restava semplicemente rannicchiata nella sua stanza o nella sala da pranzo. Anche il suo lupacchiotto si era rassegnato a smuoverla e si limitava ad accucciarsi vicino alla sua padroncina e posarli la testolina in grembo. Rin, al massimo, lo accarezza un po’, ma sembrava che anche quel semplice gesto le privasse di ogni piccola forza. Jacken le aveva sbraitato contro qualche volta, ma alla fine si era rassegnato a lasciala stare. Se la bimba non voleva mangiare, peggio per lei. Lui non aveva nessuna colpa, ecco. Sesshomaru-sama non poteva prendersela con lui; non aveva fatto nulla di male. Rin, semplicemente, non aveva più fame.

 

Bofonchiò qualcosa a mezza bocca mentre gettava un’occhiata distratta all’interno della stanza. Adesso, dopo quasi una settimana, la bimba era tornata a mangiare se non proprio di gusto a sufficienza per non rischiare di ammalarsi. Scosse la testa. Al suo signore non sarebbe piaciuto quando avrebbe scoperto cosa era successo. No. Decisamente sarebbe stato pericoloso essergli vicino in quel momento. Jacken lo sapeva bene, e aveva pianificato con cura ogni suo spostamento, in modo che non si sarebbe mai dovuto trovare, almeno per sua volontà, coinvolto in un confronto fra i due fratelli.

 

“Kiba! Guarda cosa mi ha dato Inuyasha-kun!”

 

Il lupacchiotto sollevò la testa con quiescenza, rivolgendo un’occhiata annoiata al grosso pezzo di sushi che Rin gli sventolava davanti al musetto. Annusò pigramente l’aria, sbadigliò e tornò a crogiolarsi nel sole del mezzogiorno. Non gli piaceva molto che quell’hanyou riscuotesse le simpatie della sua padroncina, ma se era riuscito a farla mangiare non poteva di certo ringhiargli contro apertamente. Il suo principe era stato chiaro: se teneva alla sua padroncina, doveva mostrarsi comprensivo verso i cagnolini. Hanyou o youkai che fossero.

 

Kiba si rigirò sull’engawa. Non si sarebbe mai sognato di opporsi a Sesshomaru-sama. Benchè fosse ancora un cucciolo, si era reso conto per istinto che quel demone poteva essere molto pericoloso se osteggiato; inoltre, quella era la sua casa ed era a lui che doveva il permesso di restare con la sua padroncina. I ningen, in definitiva, non lo dispiacevano più di tanto: le ragazze gli regalavano sempre qualche carezza e anche l’uomo gli passava dei prelibati pezzi di carne. Sopportarli era uno scambio decisamente vantaggioso. C’era anche un’altra ningen che aveva imparato a rispettare, a non concepire nemmeno di poter ferire, oltre alla bambina. Non la vedeva da molto, ma sentiva sempre il suo odore nell’aria. Quella ragazza aveva convinto Sesshomaru-sama ad accettarlo accanto a Rin e lo riempiva di complimenti: lo aveva eletto guardia personale della bimba, facendogli gonfiare il petto e alzare il musetto con orgoglio. Abbassò le orecchiette. Aveva fatto uno scivolone terribile camminando a testa alta. Ruzzolato dalle scale. Frustò l’aria con la coda. Quella ragazza meritava l suo piccolo rispetto, anche perchè aveva l’odore di Sesshomaru-sama.

 

Con l’hanyou, invece, era diverso. Antipatia a pelle. Istintiva. E anche il suo principe aveva dei rapporti burrascosi con lui. Però, lo avrebbe sopportato se questo significava vedere la piccola sorridente. Rin gattonò fino a lui, sventolandogli davanti agli occhietti assonnati il pesce. Sembrava decisa a farglielo assaggiare. Con un ringhio di disappunto, Kiba acconsentì a farsi imboccare, mentre Rin sorrideva e poi trotterellava di nuovo al suo posto, accanto ad Inuyasha. Mangiava di gusto, sorridendo e scambiando qualche parola con Sango e Kagome. Ma sopratutto, Rin aveva scoperto di trovare molto simpatico il monaco. Rideva quando la sterminatrice lo rincorreva per prenderlo a pugni, ma soprattutto le piaceva quando lo convinceva a raccontarle delle storie. Era un ottimo diversivo per non pensare alla lontananza di Sesshomaru-sama e al fatto che Ale-chan stava male. In verità, Rin avrebbe voluto poterla vedere, ma Yaone-san e Homoe-chan le aveva detto che non era possibile.

 

Rin ridacchiò. La giornata era bella, e forse sarebbe riuscita a estorcere la fine della storia Miroku. Bastava fargli gli occhi dolci e qualche moina completa di elogio. Il monaco avrebbe sospirato rassegnato e avrebbe acconsentito. Forse avrebbe anche cercato di prenderla in spalla, e allora lei avrebbe riso e sarebbe corsa a rifugiarsi dietro alle gambe di Inuyasha. Alzò gli occhi all’hanyou che le sedeva accanto. Sesshomaru-sama non aveva mai mangiato con lei o con Ale-chan. Chissà perchè. I demoni forse non amano il cibo dei ningen, ma Jacken si adattava e mangiava con lei durante i loro spostamenti.

 

Il cibo degli esseri umani non è di mio gradimento

 

Sospirò. Glielo aveva detto alcuni anni prima, quando si affacendava a procurargli viveri e acqua, reverente ma non impaurita. Non aveva mai accettato il suo cibo, ma era stato il primo a non trattarla veramente male. Le aveva anche chiesto come si fosse procurata i suoi lividi. E lei, in risposta, aveva sorriso. Allora non voleva ancora parlare. Sussultò quando avvertì degli artigli sfiorarle una guancia e il viso di Inuyasha chinato su di lei.

 

“Sei tutta sporca di riso...”

 

Sorrise. Il suo signore non si sarebbe mai concesso un simile gesto, ma in fondo anche lui, a modo suo, si preoccupava per lei. Senza preavviso, si alzò ad abbracciare un imbarazzatissimo Inuyasha, stringendosi forte al suo collo e ridacchiando dei commenti che sentiva dagli altri presenti. Sango e Kagome potevano essere simpatiche e gentili e Miroku-kun era capace di incantarla con i suoi racconti, ma il suo preferito restava Inuyasha-kun. Strofinò la testolina contro il suo petto. Sapeva che non sarebbe passato molto tempro prima di avvertire la mano dell’hanyou sulla sua testolina. Le avrebbe fatto una carezza arruffata e le avrebbe detto qualcosa, per poi chiederle sgarbatamente di scrollarsi di dosso, e di non prendersi certe confidenze. Rin sorrise: aveva imparato a riconoscere la maschera di finta indifferenza del fratello del suo signore, e sapeva che sarebbe bastato fargli vedere gli occhioni tristi e un faccino vicino alle lacrime per farlo sentire in colpa e iniziare a gesticolare nel tentativo di scusarsi.

 

Inuyasha la vide sedersi di nuovo al suo posto contenta e riprendere a mangiare. Si grattò la nuca: se suo fratello era pressochè impossibile da capire, quella bambina non era da meno. Passava dalle lacrime al sorriso con una velocità disarmante, come alternava la paura all’euforia con una naturalezza che, in un adulto, sarebbe stata quasi sospetta. Rin, invece, semplicemente, sembrava vivere tutto come una specie di gioco, di realtà fantastica in cui esisteva il dolore, ma che poteva sparire velocemente. Forse, da piccolo, anche lui si era comportato in modo simile. Quando gli altri ragazzi che abitavano al palazzo di sofu lo schernivano e deridevano, Inuyasha ricordava che andava a rifugiarsi in uno degli angoli più nascosti del giardino e si immaginava che arrivava qualcuno a fargli forza. Non suo padre, che viveva nella sua mente come un fantasma lontano e indefinito, ma un fratello. Avrebbe tanto voluto un fratello più grande; sarebbe arrivato dal cielo e lo avrebbe consolato e portato via. Lui e sua madre. In un altro posto. Dove nessuno gli avrebbe mai detto hanyou, dove nessuno gli avrebbe più voluto fare del male e sua madre non sarebbe stata costretta a subire l’umiliazione di esser indicata come una sgualdrina, come la colpevole di un’infamia. Da piccolo, gli bastava immaginare quel fratello per ritornare a sorridere nonostante le lacrime trattenute; spesso fantasticava di averlo al fianco, e che gli correggesse gli errori mentre provava ad esercitare la sua forza demoniaca.

 

Sospirò. I bambini non sono sempre in grado di distinguere la realtà dalle fantasie che si costruiscono per sopravvivere. Spesso le abbandonano presto, dopo i primi anni dell’infanzia; lui se le era viste strappare all’improvviso. Rin, probabilmente, le aveva ricostruite per una qualche ragione. E aveva fatto di Sesshomaru il loro centro. Come l’immagine di un niisan era stata per lui il centro del suo sogno di cucciolo. Kagome gli aveva detto che, probabilmente, Rin non capiva bene cosa fosse successo, e spiegarglielo in termini troppo drastici avrebbe solo fatto acuire il suo stato di smarrimento. Inoltre, il fatto che da alcuni giorni si mostrasse spensierata non voleva dire che non risentisse della mancanza di Sesshomaru e della tensione che percorreva il palazzo, ma probabilmente cercava di esorcizzare la sua ansia non pensandoci. Per i bimbi è facile costruirsi un mondo di fuga fantastico.

 

Inuyasha soppesò la mano al pugno. Rin sembrava l’opposto della bimba apatica e triste di alcuni giorni prima. Quando finalmente si era deciso a smettere di languire nella sua stanza e di cercare di fare qualcosa che lo tenesse occupato, non avrebbe mai immaginato che si sarebbe ritrovato ad occuparsi di quel cucciolo umano. Era entrato discutendo animatamente con Koga nella sala da pranzo, ma aveva ben presto dovuto, suo malgrado, prestare attenzione alle lamentele isteriche di Jacken. Il demonietto si disperava per la, a suo dire, imminente fine della sua vita: la corte non gli dava tregua, Sesshomaru-sama lo aveva lasciato a gestire demoni con tutt’altre intenzioni che quella di prestargli ascolto, e come se non bastasse adesso ci si metteva anche Rin a fare i capricci. Testarda ragazzina! Ma lo sapeva che se non mangiava non poteva sopravvivere!

 

Inuyasha non aveva capito bene cosa fosse successo; sapeva solo che, d’improvviso, si era sentito stringere spasmodicamente una gamba e si era trovato la bimba artigliata ai suoi hakama. Ben risoluta a non lasciare minimamente la presa e a non farlo andare via. Nonostante le sue minacce e le sue lamentele. Alla fine, aveva dovuto rassegnarsi, e da quel momento Rin aveva iniziato a seguirlo come un’ombra, senza mai separarsi da lui, se non per una distanza pressochè minima. Come se temesse che si volatilizzasse davanti ai suoi occhi. Inuyasha e i suoi amici, in un primo momento, avevano pensato fosse solo un modo per sfuggire alla logorrea di Jacken, e quindi, appena il demonietto se ne era andato, lui stesso aveva mostrato l’intenzione di lasciare la stanza ed era uscito in giardino.

 

Si ravvivò la frangia. Rin gli era corsa dietro con un terrore smisurato negli occhi e appena lo aveva raggiunto si era aggrappata di nuovo si suoi abiti. Non aveva finto nulla. Sembrava davvero terrorizzata all’idea di trovarsi di nuovo da sola. O meglio, sembrava spaventarla il pensiero che lui si allontanasse. Rin gli diede un bacino e sgambettò fuori dalla stanza con Kiba per tornare ai suoi giochi nel giardino. L’occhiataccia che lanciò a miroku fermò la lingua pungente del monaco. Era capace di metterlo ancora più in imbarazzo, il che era proprio l’ultima cosa che volesse. Però, Inuyasha doveva ammettere a se stesso che preferiva quegli imbarazzi alla malinconia della bimba. Rin gli si era affezionata davvero moltissimo, ma forse Kagome aveva ragione: preferiva lui fra tutti perchè gli ricordava Sesshomaru. Rin era, nei suoi confronti, espansiva proprio come se si fosse trovata di fronte suo fratello e più di una volta, nel chiamarlo, si era interrotta come a riflettere su che nome esattamente dovesse pronunciare.

 

“Qualche novità Yaone-san?”

 

“Ha passato la notte. Altro non posso dire”

 

Voce roca e stanca. La yasha si sedette accanto a Sango ravvivandosi con una mano i capelli. Era trascorsa una settimana da quando Alessandra era stata ferita, e le sue condizioni sembravano precipitare verso un lento ed inevitabile epilogo. Il petto si era gonfiato nonostante il drenaggio che Yaone aveva applicato, la febbre era sempre altissima, il respiro mozzo e rantolante; colorito terreo e occhiaie nere e infossate. Yaone disperava davvero di poter trovare un rimedio, e temeva che tutto si aggravasse da un momento all’altro. Non permetteva a nessuno di vederla in quelle condizioni, per non aumentare ulteriormente lo sconforto che già dilagava. Gli appartamenti del Principe, che da quando era rientrata Rin ed erano arrivati i ningen erano solitamente pieni di frastuono, erano immersi in un silenzio irreale, che nemmeno le risate della bimba riuscivano a dissipare.

 

Yaone accettò con un sorriso stanco il thè che Kagome le offriva. Quella notte era stata la peggiore di tutte: la febbre era salita ulteriormente e il respiro si era fatto sempre più faticoso e sofferente. Alessandra sembrava davvero esser prossima alla morte. Yaone aveva approntato il necessario per tentare un’ ultima, disperata possibilità, ma alla fine aveva desistito. Troppo rischioso. Avrebbe proceduto solo con il permesso di Sesshomaru-sama, ma come al solito il demone non aveva risposto alla sua chiamata. Si era ritrovata a battere i pugni sullo stipite della fusuma, incapace di risolversi ad entrare. Sapeva di essere pressochè inutile per la ragazza e non lo sopportava, soprattutto al pensiero che, se Ashitaka fosse stato vivo, Alessandra sarebbe stata salva già da molto.

 

“Non è ancora morta”

 

Voce rauca per stanchezza, o forse anche per la difficoltà di inghiottire lacrime. Yaone si era trovata accanto Inuyasha e i suoi amici. Le sue grida li avevano svegliati ed erano accorsi per accertarsi di cosa fosse successo. In un primo istante, inuyasha aveva stretto i pugni in modo rabbioso, e tutti avrebbero giurato che era pronto a sfondare la porta delle stanze di Sesshomaru e trascinarlo fuori di peso. Invece, l’hanyou si era limitato ad una smorfia contrariata e se ne era andato furioso e amareggiato. Li aveva aspettati accanto alla fusuma della stanza di Alessandra e aveva obbligato la yasha a farlo entrare. Sapeva benissimo di non poter far nulla per aiutare concretamente, tuttavia voleva illudersi che Alessandra potesse sentire la sua presenza e capisse di non esser sola.

 

Loro cercavano di trascorrere il tempo il più normalmente possibile, ma sapevano benissimo che tutta quella situazione era ormai al limite. La loro permanenza a palazzo non aveva più uno scopo, se mai lo aveva avuto, e potevano benissimo esser cacciati da un momento all’altro. Guerra finita; meglio eliminare anche il bastardo che reco disonore alla casata. Ritardare ancora la partenza era un rischio che tutti loro sapevano, e volevano, correre. Inoltre, se davvero doveva andarsene, Inuyasha pretendeva che fosse Sesshomaru a dirglielo, e anche in quel caso lo avrebbe costretto a buttarlo fuori di peso. Non che gli importasse qualcosa di abitare nella casa paterna, ma proprio non riusciva a trovare il coraggio e la voglia di andarsene senza prima la certezza che Alessandra fosse definitivamente fuori pericolo. Le condizioni della ragazza, in definitiva, erano il motivo per cui anche Koga e Ayame non erano ancora partiti, benchè il Principe degli Yoro scalpitasse ad esser costretto fra le mura del palazzo. Gli eserciti, regolare e alleati, erano stati congedati da Jacken e il palazzo sembrava aver ripreso la sua solita vita. I signori del Kansai restavano confinati in un ala dell’edificio come prigionieri, e la loro sorte si sarebbe dovuta discutere prima o dopo, ma erano nelle mani di Sesshomaru. Senza di lui, o senza un suo ordine preciso, tutto restava immobile.

 

Baka!

 

Inuyasha masticò imprecazioni, e i discorsi dei suoi amici non contribuivano a migliorare il suo umore. Appena c’era occasione, si arrovellavano il cervello nel tentativo, vano, di cercar di capire cosa passasse per la testa dell’inuyoukai. Il fatto che non si fosse più fatto vedere, che si fosse completamente disinteressato delle condizioni della ragazza dopo che l’aveva riportata a palazzo e che si ostinasse a farsi negare aveva fatto cadere ogni romantica previsione di Kagome, che adesso non risparmiava rabbia e sdegno verso il demone. Sango e Miroku ridacchiavano. La loro amica sarebbe stata capace di ripetere pedissequamente lo sproloquio in faccia all’inuyoukai senza batter ciglio e tralasciando l’ovvia e naturale razione, molto pericolosa, che avrebbe provocato. Sesshomaru aveva ucciso per molto meno di una giusta, almeno da parte umana, ramanzina. Inuyasha sobbalzò quando Kagome battè con rabbia la propria scodella sul tavolo e gli chiedeva perchè se ne stava zitto e fermo, invece di andare a dirne quattro a quel testone del fratello.

 

“Perchè, perchè! Quello ha la testa più dura della pietra! Ancora mi chiedo come abbia fatto Alessandra ad innamorarsi di lui!”

 

Si bloccò appena realizzò cosa si era lasciato sfuggire. Richiuse la bocca e la riaprì subito dopo, senza emettere alcun suono. Bravo! Bravissimo! Un danno peggiore non lo poteva proprio fare. Si maledisse mille volte per la sua abitudine a sbraitare al vento senza mai pensare. Adesso, aveva gli occhi di tutti puntati addosso. Curiosi, ansiosi, interrogativi. Sbuffò incrociando le braccia. Non gli avrebbero cavato altro di bocca. Non poteva rimangiarsi quello che aveva detto, ma non avrebbe aggiunto una sillaba. Benchè lo sguardo di Kagome promettesse pene indicibili se non si fosse sbrigato a vuotare il sacco. Aveva stuzzicato la loro curiosità, accidenti a lui. Adesso non poteva certo dire che era solo una supposizione la sua. Non gli avrebbero mai creduto: troppo sicuro.

 

Kagome gattonò verso di lui fino e gli afferrò il viso fra le mani obbligandolo a guardarla. Troppo calma. Inuyasha deglutì rumorosamente e sentì un brivido attraversargli tutta la schiena. Quando Kagome lo guardava così o era preoccupata per lui, ipotesi da scartare al momento, o era furiosa. Abbassò istintivamente le orecchiette. Ammissione di colpevolezza. Era condannato.

 

“Yaone-san! Yaone-san!”

 

Homoe spalancò trafelata la fusuma e si precipitò dalla yasha. Sembrava sconvolto e in preda all’angoscia. Istintivamente, Inuyasha strinse il saya e si concentrò sulle parole veloci e sussurrate. Homoe pronunciò pochissime frasi, di cui l’hanyou riuscì a cogliere solo mozziconi, ma vide distintamente, come i suoi amici, l’archiatra farsi sempre più pallida e scattare in piedi appena la yasha ebbe finito. Si precipitarono fuori senza dare una spiegazione e solo a quel punto Kagome si accorse che Inuyasha l’aveva abbracciata e stava premendo la testa contro la sua schiena. Sembrava che stesse raccogliendo le forze. Come prima di uno scontro importante.

 

...male...all’improvviso...peggiorata...tossiva sangue...

 

Non capiva niente di medicina, ma non ci voleva un guaritore per tirare le conclusioni: Alessandra era peggiorata e a giudicare dall’agitazione di Yaone la situazione era davvero grave. Rubò un bacio a Kagome e si alzò in piedi. Avrebbe tirato fuori suo fratello dalle sue stanze a costo di trascinarlo di peso e di rischiare una lite violenta. Ghignò quasi compiaciuto. Erano mesi che loro non litigavano più sul serio, e l’idea di mollare qualche pugno per costringere Sesshomaru alla ragione non gli era per nulla antipatica.

 

Adesso vedremo chi è il più testardo di noi due!

 

 

*****

 

 

Un miracolo. Un ningen certamente lo avrebbe definito così. Un vero e proprio miracolo. Una grazia concessa da un kami: O-Kuni-Nushi forse o il Buddha della misericordia. Scosse la testa. Non le interessava molto sapere chi o cosa avesse permesso quel piccolo prodigio; l’unica cosa che veramente era importante era che, forse, finalmente, si poteva iniziare a riaccendere la speranza che Alessandra guarisse.

 

Yaone ritrasse la mano dalla fronte della ragazza permettendo a un piccolo sorriso di smuoverle le labbra. La febbre persisteva, ma si era notevolmente abbassata. Anche il respiro andava regolarizzandosi e, salvo ancora alcuni piccoli casi isolati, Alessandra non tossiva più sangue. Buon segno. Aveva fatto tirare un sospiro di sollievo a tutti. Niente sangue significava che la ferita al polmone era meno grave del previsto e si era suppurata naturalmente senza conseguenze. Denudò il petto constatando che, nonostante persistesse un leggero gonfiore, ematomi e lividi era pressochè spariti. La auscultò e di nuovo le sembrò incredibile non sentire il cupo gorgoglio del sangue.

 

Tre giorni. Alessandra aveva ripreso conoscenza da tre giorni, e la cappa di latente sconforto che avvolgeva gli appartamenti del Principe si era assottigliata di molto. Le condizioni restavano ancora gravissime e i miglioramenti erano pressochè inesistenti, ma per chi aveva trascorso una settimana in attesa anche solo di un fremito, ancorandosi al semplice respiro, il fatto che la ragazza riuscisse a restare sveglia anche solo per pochi minuti al giorno era stata una conquista immensa. Ci sarebbe voluto come minimo un mese perchè Alessandra riuscisse solo a sedersi contro i cuscini e forse altrettanto perchè potesse nutrirsi con qualcosa di vagamente solido invece del brodo che le facevano sorbire, ma Yaone on riusciva ad essere totalmente pessimista. Se non intervenivano complicazioni e lasciavano alla ragazza tutto il tempo per riprendersi senza sottoporre il suo corpo a sollecitazioni e sforzi prima del dovuto, le possibilità che si ristabilisse completamente erano molto alte.

 

Quadro clinico chiaro e preciso. L’unica arma che aveva in mano per frenare le pressioni di Kagome che più volte aveva cercato di convincerla a lasciarla portare Alessandra nel loro mondo. Nel tempo della miko la medicina doveva essere progredita notevolmente e, per quello che lei era riuscita a capire, una ferita simile sarebbe stata curata senza pericoli. Kagome le aveva offerto quell’alternativa già la notte in cui Alessandra era stata ricondotta a palazzo da Sesshomaru, e lei aveva fermamente declinato la possibilità. Costringere il corpo della ragazza ad uno spostamento anche limitato nel tempo, nelle sue condizioni, significava condannarla a morte certa. La proposta era stata lasciata cadere, e di nuovo Yaone era pronta a rifiutarla. Storse la bocca: forse era il suo orgoglio di guaritrice a farla ragionare, a voler tenere la sua paziente sotto la sua giurisdizione e non delegare a nessuno la possibilità di guarirla e prendersene il merito, ma anche eludendo da egoistiche motivazioni personali i rischi conseguenti ad uno spostamento, per quanto confortevole potesse esser approntato, erano troppo alti.

 

Yaone si alzò per socchiudere le shoji e si concesse di indugiare sul cielo che andava infiammandosi. Tramonto. Il terzo da quando Alessandra si era svegliata, da quando, entrando in quella stanza per cambiarle le fasciature e il drenaggio, aveva sentito una voce fievole. Nel silenzio dell’alba, i monosillabi della ragazza erano sembrati assordanti. Yaone si era voltata di scatto sbarrando gli occhi. Nella luce incerta dell’andon aveva potuto distinguere gli occhi azzurri di Alessandra. Incredibile. Inconcepibile. Solo il giorno prima aveva dovuto precipitarsi al suo capezzale per fermare una crisi. L’emorragia sembrava essersi riaperta e dalla bocca della ragazza il sangue continuava a uscire, scuro e denso. Yaone era stata costretta a inserirle in gola una canula per impedirle di soffocare e aveva vegliato con Homoe tutta la notte. Si era allontanata solo per pochi minuti verso l’alba, per ordinare di portarle acqua calda e un braciere. Doveva sterilizzare gli strumenti che aveva usato ed esser pronta nel caso fosse stato necessario intervenire di nuovo. Invece, con sua grande sorpresa, il rientro nella stanza le aveva riservato quell’inaspettata sorpresa.

 

Si era chinata sulla ragazza per assicurasi di non esser stata preda di un’allucinazione dovuta alla stanchezza, per poi spalancare la fusuma della stanza e chiamare Homoe. Aveva letteralmente buttato giù dal letto tutti i ningen che occupavano gli appartamenti del Principe, che erano accorsi messi svestiti e angosciati. Se Yaone perdeva la propria pacatezza in quel modo indecoroso doveva esser successo qualcosa di grave.

 

Miroku era arrivato per primo, subito seguito da Sango e Kagome, ma nessuno aveva avuto il coraggio di chiedere nulla, soprattutto di fronte alle occhiate che le due yasha si scambiavano. Solo alla fine il sorrise dell’archiatra fece tirare un sospiro di sollievo e sciogliere in lacrime Kagome. Avrebbero voluto vederla, tutti, subito, parlare, sapere come si sentiva. Yaone sorrise. non era stato semplice calmare quei tre esaltati, ma era riuscita a rimetterli in riga promettendo che, appena possibile, li avrebbe fatti entrare. Ma non in quel momento: aveva altro cui pensare. I ningen non sono come i demoni, hanno bisogno di nutrirsi regolarmente per vivere, e Alessandra era pressochè a digiuno da una settimana. Era allo stremo, e se il suo organismo non avesse ricevuto nutrimento non avrebbe auto le forze per rimettersi. Non poteva fidarsi delle yasha a servizio a palazzo, e quindi aveva optato per la cucina di Kagome e Sango: brodo. Di qualsiasi animale, ma solo brodo e senza nessun condimento o spezia. Sarebbe stato insipido, ma lo stomaco della ragazza avrebbe dovuto riabituarsi lentamente alla consistenza del cibo. Nutrirla. Quella era la cosa prioritaria. Nell’unico modo possibile: inzuppando un panno nella scodella e facendoglielo succhiare.

 

Alessandra aveva provato a parlare, a chiedere qualcosa, ma non aveva avuto la forza di articolare suoni che andassero oltre ad aspirate e suoni gutturali. Aveva dovuto rinunciare nella speranza di vedere Sesshomaru comparire nella sua stanza o di riceverne notizie da suoi amici. Invece, nulla. L’ignoranza più nera. Yaone aveva ringraziato i kami che la ragazza fosse tanto debole da non poter rendersi conto del tempo che trascorreva. Per lei, dal suo risveglio, potevano esser trascorsi pochi minuti come anni interi. Non sapere equivaleva a non angustiarsi con domande che avrebbero potuto minare il suo stato d’animo. Per questo nessuno aveva mai fatto accenno al fatto che Sesshomaru non si era ancora presentato nella stanza, e che anche Inuyasha mancava all’appello. Durante le loro brevissime visite, Kagome, Sango e Miroku si erano limitati a poche incoraggianti parole,  rincuorarla e farle forza. Il più delle volte, però, l’avevano trovata addormentata e forse, avevano convenuto, era un bene che non sapesse che, al momento, Sesshomaru non era a palazzo.

 

Yaone si ravvivò i capelli e attraversò con passo scocciato la stanza. Aveva raccomandato a tutti, Rin in primis, di limitare al massimo i rumori e di evitare situazioni di agitazione inutile. Invece, in quel momento, un irritante frastuono si andava avvicinando sempre di più alla stanza. Prima ancora di aprire le porte, riconobbe la voce gracchiante di Jacken che implorava qualcosa e le urla di Rin. Istintivamente assottigliò gli occhi: qualcosa non andava. Non sentiva l’odore di Sesshomaru-sama nell’aria e le grida della bimba non era di gioia per il ritorno del suo signore.

 

“Cosa sta succedendo?”

 

Fissò guardinga il corridoio. Odore di demoni. Molti demoni. Inuyoukai. Sospetto. Forte sospetto. E una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco. Pericolo. Gettò un’occhiata ad Alessandra che dormiva nel futon. Tranquilla. Controllò con lo sguardo ogni anfratto della camera. Tutto normale. Aveva anche richiuso le sohji perchè aveva sentito l’odore elettrico dell’aria. Temporale in avvicinamento. Pericolo. Ancora quella sensazione. Fastidiosa. Storse le labbra in un ghigno e si sistemò il kimono. Futile come gesto, constatò. Tuttavia, se non teneva occupate le mani, rischiava di perdere il controllo da un istante all’altro. Non le piaceva dover aspettare per capire le cose. E il rumore di quei passi, la voce del demonietto e le lamentele della bimba erano qualcosa che doveva essere chiarito. Subito.

 

“Yaone-san”

 

L’houshi e la tagijia. Con le loro armi. Anche loro avevano fiutato il pericolo ed erano un fascio di nervi. Perfino il Principe degli Yoro faceva scricchiolare gli artigli in modo pericoloso, frapponendosi fra la miko e la direttiva da cui proveniva la confusione. Koga fiutò l’aria e storse la bocca. Demoni-cane. Molti anche. Non riusciva proprio a capire cosa potessero volere. Sesshomaru non era a palazzo e anche il cuccioletto era sparito. Non riuscivano proprio a capire cosa potessero volere. Jacken continuava a strepitare minacce e che, appena fosse tornato, Sesshomaru-sama avrebbe fatto pagar loro quella mancanza di rispetto. Non buono. Quelle parole non prometteva proprio nulla di buono. E la corte inuyoukai era conosciuta fra i demoni per la grande fedeltà al loro signore. Se Jacken minacciava a quel modo, anche se inascoltato, il peso della minaccia doveva non essere indifferente.

 

Un guaito ruppe il parlottare fitto e i mormorii e Kiba rotolò malamente sul legno del corridoio, fino ad andare a sbattere contro l’intelaiatura di una porta. Il cucciolo si lamentò appena, ma cercò comunque di rimettersi faticosamente in piedi, offrendo le zanne tenere e il muso ringhiante ad un gruppo di demoni. Miroku, Sango e Koga assunsero istintivamente una posizione di guardia. Dieci, forse dodici inuyoukai. Quelli più estremisti e intransigenti della corte. Koga gli aveva riconosciuti subito: fra loro c’erano anche quelli che avevano storto il naso e deriso il suo arrivo mesi prima; uno doveva essere quello che aveva zittito con un pugno nella sala del consiglio perchè lasciasse parlare Shin. E tutti, naturalmente, li aveva sentiti lamentarsi del fatto che Sesshomaru-sama avesse preferito delegare a dei semplici subordinati la soluzione di quella che doveva essere la battaglia del riscatto. E tutto per cosa? Per riportare indietro una stupida ningen, buona solo a scaldare un letto e a divertire un demone con il suo terrore. E il loro signore aveva anche ordinato loro di trattarla con il rispetto che comportava la carica di archiatra che ricopriva. Per quella ragazzina, uno di loro, un generale, era morto nel duello rituale. Accusato di averle tentato violenza. Ma da quando il desiderio di una donna umana, anche contro la sua volontà, costituiva un reato alla corte dei demoni dell’Ovest? Nessuno si era mai azzardato a porre quel veto che andava contro il pensiero di loro youkai. Nemmeno Inutaisho si era spinto a tanto nelle sue idee innovatrici, e adesso suo figlio sembrava avvicinarsi ai ningen molto di più di quanto non avesse fatto suo padre.

 

Non era tollerabile. Se avevano sopportate fino ad allora era perchè Morigawa costituiva una minaccia di maggior rilievo rispetto ad una questione interna. Perdersi in dispute fra membri della stessa corte e con il proprio Principe sarebbe stato un grave errore, poiché si rischiava di minare l’unità e la forza del loro esercito. Tanto più che la ragazza non aveva mai fatto nulla che potesse sollevare, almeno apertamente, delle fondate lamentele. Nemmeno fosse stata colta in flagrante nel letto di Sesshomaru si sarebbe potuto procedere in qualche modo. Se il loro Principe avesse avuto desiderio di un’amante umana prima di pensare alla sua discendenza, nessuno avrebbe potuto impedirglielo. Il fatto però che Sesshomaru-sama avesse abbandonato il campo prima della fine della battaglia e che fosse sparito da più di una settimana dava alla corte il permesso di agire. In assenza del Principe e di precisi ordini espressi direttamente dalla sua persona, i membri anziani della corte assumevano la reggenza e avevano pieni poteri. E adesso si erano decisi ad usarli.

 

“Apri la stanza della ningen, yasha”

 

Yaone sollevò il mento con orgoglio. Nessuno si poteva permette un simile tono con lei. Rinnegata, bandita, umiliata. Aveva da scontare molte colpe e molti errori, e avrebbe accettato il peso della vita che Ashitaka le aveva fatto giurare di non sprecare, ma non si sarebbe mai abbassata alla stregua di quei demoni che adesso le stavano davanti. Pavoni ornati di stoffe e corazze, accecati da sproloqui e vaneggiamenti su razze e purezza, interessati solo al proprio interesse e alla propria posizione. Gli occhi le scintillarono sinistramente, mandando soffusi bagliori i smeraldo. In quell’istante, rimpianse il potere sulla vita e la morte dei suoi avversari che aveva perso tornando alla vita normale. Le restavano le sue capacità di yasha, ma in quel momento freddare all’istante, senza muovere un muscolo, uno o due di quei dannati youkai sarebbe stato un ottimo detrattore per chi avesse di nuovo avuto la brillante i idea di mettersi a capo del palazzo dell’Ovest.

 

“Pensateci bene...”

 

Spostandosi leggermente di lato, il demone svelò il corpo di Rin in ostaggio. La bimba tremava in preda al panico e alla consapevolezza, annichilente, che questa volta il suo signore non sarebbe intervenuto ad aiutarla. Sesshomaru-sama era lontano. Sesshomaru-sama non era lì a proteggerla da quei demoni cattivi. Soffocò un nuovo singhiozzo quando sentì le unghie dello youkai che la imprigionava premerle maggiormente la pelle della gola. Faticava a respirare. Non sapeva se era una sua impressione, la paura e l’agitazione o se davvero quegli artigli la stavano soffocando lentamente. Sapeva solo che voleva piangere, e correre a rifugiarsi nelle braccia di Kagome, o di qualsiasi altro dei ragazzi che la stavano fissando. Indecisi. Impotenti. Frustrati.

 

Miroku fu il primo a mostrarsi conciliante, abbassando seppur con stizza il shakujo e guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Koga. L’ookami non era per nulla propenso ad abbassare le difese davanti ad un gruppo di cagnolini che abbaiavano. Tuttavia, la pressione sul suo braccio da parte di Kagome lo convinse a rilassare i muscoli. In definitiva, non gli andava che a rimetterci potesse essere il cucciolo umano. Anche Sango rilassò il braccio, ma si tenne comunque all’erta, pronta ad estrarre un qualche possibile diversivo se avesse colto una falla nell’attenzione dei suoi avversari, approfittando della sua posizione leggermente defilata ed in ombra e della protezione che le offriva Kirara, che non aveva accennato a voler riassumere le sue miti sembianze di gattina, benchè il fatto non sembrasse impensierire gli youkai.

 

Alla fine, anche Yaone acconsentì ad affievolire la sua youki. Il monaco non aveva torto: in un simile ambiente ristretto e in numero nettamente inferiore ribellarsi sarebbe equivalso a farsi massacrare. Ma non aveva la minima intenzione di lasciar entrare nessuno nella camera di Alessandra. Non perchè temesse una possibile vendetta di Sesshomaru alla notizia che non aveva mosso un dito per impedire quella violazione, ma perchè, per istinto, per intuizione prettamente femminile, avvertiva che, se avesse acconsentito, sarebbe successo qualcosa di brutto. Di molto brutto.

 

Continuò a fissare negli occhi il demone a capo del piccolo gruppo anche quando la scansò malamente facendola finire a terra e aprì la fusuma. Yaone sentì il ringhio represso di Koga e avvertì l’energia spirituale di Kagome e Miroku, ma si avvide anche dell’occhiata divertita del demone verso il compagno che imprigionava Rin. Una ulteriore leggera pressione sulla pelle, e piccoli segni rossastri si delinearono sulla gola della bimba. Alla prossima mossa avventata, gli artigli si sarebbero macchiati di sangue.

 

“Sai cosa fare”

 

Un demone che indossava la veste dei guaritori del palazzo si staccò dal gruppo ed entrò nella stanza socchiudendo la fusuma. Kagome e gli altri avevano provato un brivido nel vedere il sorrisino sadico che gli aleggiava sulle labbra e al pensiero di Alessandra, debole e ferita, da sola con lui in quella stanza.

 

Per alcuni minuti, Sango, Miroku e Kagome non riuscirono più ad udire nulla. Silenzio. Silenzio e basta. Qualche parola sussurrata, ma a voce troppo bassa perchè si potesse capire. Rumore di stoffa. Le coperte, probabilmente.

 

Kagome si ricordò come all’improvviso che, probabilmente, Koga e Yaone riuscivano a percepire meglio quello che stava succedendo e si voltò verso l’ookami. Ansiosa. Le parole le morirono in bocca e il suo cervello riuscì solo a sfiorare le possibilità di quello che stava succedendo nella stanza. Però, il volto di Koga non prometteva nulla di buono: la mascella contratta, con le zanne che premevano le labbra e la testa voltava verso il basso. Un fremito di frustrazione e rabbia repressa a fatica percorreva il corpo del demone-lupo che si costringeva disperatamente all’immobilità per non far degenerare la situazione. Sentì Kagome aggrapparsi al suo braccio e premere il viso bagnato contro la sua pelle. La ragazza non sentiva come il suo udito gli permetteva, ma doveva aver intuito qualcosa osservando lui e Yaone. Le strinse una mano, ma si ostinò nel negarle il conforto dei suoi occhi. non era certo di riuscire a mascherare quello che gli passava nell’animo.

 

Silenzio. Ancora silenzio. Respiri un po’ più violenti. Qualche parola. Qualche suono che sembrava assomigliare vagamente ad un no. Il silenzio che riempiva il corridoio permetteva a Miroku di concentrarsi per provare a capire cosa stesse esattamente succedendo nella stanza. Anche se il sorrido compiaciuto sul volto dell’inuyoukai non prometteva nulla di buono e benchè lui stesso sapesse benissimo che, se lo scopo di quell’azione era ferire Alessandra più di quanto la naginata avesse fatto, c’era un solo modo per umiliare una donna. Scosse debolmente la testa. Inuyasha era stato pronto a minacciarlo quando aveva cercato di allungare maliziosamente le mani su Alessandra. Sesshomaru non si sarebbe di certo limitato alle minacce, e aveva chiaramente diffidato chiunque dal solo pensare di sfiorare la ragazza. Non era possibile, quindi, che quei demoni che, anche se a modo loro, onoravano Sesshomaru, avessero improvvisamente deciso di rischiare la testa solo per togliersi un desiderio carnale. Una semplice voglia che avrebbero potuto benissimo soddisfare diversamente e altrove.

 

Un gemito più forte. Udibile perfettamente anche da loro. E il sorriso del demone che aveva di fronte si accentuava di più. Miroku strinse convulsamente il bastone, gettando un’occhiata a Yoane e Koga. Erano tesi, frementi. L’ookami, probabilmente, avrebbe volentieri azzannato qui maledetti bastardi se non fosse stato per Rin. Si tormentò nervosamente il rosario al braccio. Maledizione. Maledizione! Non era certo di poter calcolare esattamente il tempo necessario ad aprire il foro, richiuderlo per impedire che la bimba venisse risucchiata e riaprirlo immediatamente. E anche fosse stato in grado di farlo, c’era comunque il rischio che qualcosa gli impedisse di sigillare il foro e Rin potesse esserne assorbita. Nemmeno da considerare, quindi. Ipotesi da scartare. Intanto il tempo passava, assieme a quei suoni imprecisi fra cui a volte si poteva cogliere un rantolo, un respiro più intenso, un gemito.

 

“La femmina non sembra gravida”

 

Il guaritore riaprì la fusuma rigirando le mani in un asciugamano. Sembrava compiaciuto, e il sorriso appagato che gli storceva le labbra fece correre un brivido lungo la schiena di Koga, Miroku, Sango e Yaone, mentre Kagome premette di più il viso contro la spalla del demone. Aveva pregato che quell’inuyoukai uscisse presto, che quel silenzio pesante rotto da suoni che non facevano che ingigantire la sua ansia scivolasse via in fretta. Aveva desiderato tapparsi le orecchie per non sentire quel frastuono inesistente, per mettere a tacere il fragore dei suoi pensieri. Aveva cercato di convincersi, di illudersi, che prima che quei demoni potessero fare qualcosa, qualsiasi cosa, Inuyasha sarebbe tornato a palazzo. Aveva desiderato aprire gli occhi e intravedere sopra la spalla di Koga la figura di Sesshomaru. I suoi artigli che spazzano l’aria, il sangue che sprizza e imbratta il legno, la carta di riso, il kimono bianco, il veleno corrodere carne e ossa, l’indifferenza del Principe e la superiorità che da sempre lo caratterizzava. Avrebbe massacrato quei demoni che si erano ribellati al suo comando. Kagome non amava il sangue, benchè in quella guerra fosse stata costretta a prendere coscienza della violenza che caratterizzava quell’epoca. Morte. Morte. Morte. Non l’avrebbe mai augurata a nessuno, ma si era scoperta a desiderarla per quelli che, per lei, non erano più nè demoni nè esseri viventi. Solo delle bestie che approfittavano di un ostaggio e della debolezza di Alessandra per fare di lei quello che volevano. E loro non potevano muoversi, non potevano tentare nulla. Nemmeno i suoi poteri di miko sarebbero serviti a qualcosa. Rin sarebbe stata uccisa prima che il colpo andasse a segno.

 

E adesso, quella frase che le aveva fatto chiudere lo stomaco. Femmina. Gravida. Come se stessero parlando di un animale. Come se il guaritore non avesse appena infierito su un essere umano, su una ragazza come era lei stessa. Kagome affondò senza accorgersene le unghie nella spalla di Koga. Sgomento, nausea, rabbia, impotenza. Dolore. Erano bastate quelle sole parole a renderle palese la considerazione in cui loro ningen erano tenuti dei demoni: alla stregua di animali, forse ancora più in basso. Sentì le lacrime premere e deglutì più volte per ricacciarle indietro. Voleva piangere dalla rabbia, dalla voglia che aveva di urlare e prendere a schiaffi quegli youkai. Per la prima volta, si accorse che avrebbe desiderato esser libera di muoversi per attaccare e uccidere con i suoi poteri da miko. Uccidere non per difendersi, ma per vendicare.

 

Una mano che si sovrappone alla sua. Una stretta nervosa e calda. Koga aveva sentito il corpo contro la sua schiena venir attraversato da piccoli fremiti e le unghie di Kagome conficcarsi nella sua carne. Poteva provare a immaginare che quella frustrata volontà di ribellione fosse dovuta alle parole del guaritore e, anche se non ne afferrava completamente il motivo, sapeva che avevano dato molto fastidio a Kagome. Per quanto lo riguardava, la voglia che aveva di sbranare quei demoni aumentava sempre di più davanti ai loro stupidi giochetti. Erano ricorsi ad un guaritore; lo avevano fatto entrare nella stanza di Alessandra e solo i kami sapevano cosa esattamente le avesse fatto, anche se il suo udito gli aveva permesso di seguire quasi ogni azione, trasformando i suoni in immagini che lo avevano riempito di rabbia e disgusto. E adesso accampavano la scusa di voler accertarsi che Alessandra non fosse incinta per nascondere la violenza. Strinse i denti fino a farli scricchiolare e istintivamente arricciò le labbra in un ringhio basso e gutturale. Non provassero a prenderlo in giro. I ningen potevano anche crederci, ma lui non ci sarebbe caduto di certo. Come non sapesse che a loro demoni è sufficiente il fiuto per accorgersi se una donna è ancora vergine o meno. Come le yasha sarebbe stato più problematico, perchè l’odore non mutava, semplicemente si sarebbe unito a quello del compagno, ma Alessandra era un essere umano e per quanto su di lei si potesse sentire l’odore del Principe, era altrettanto percepibile l’odore di donna intatta.

 

“Procedi comunque”

 

Il sogghignò che i due demoni si scambiarono costrinse tutti a riaversi dallo stato di sospensione in cui l’affermazione spregevole del guaritore li aveva gettato. Istintivamente, Sango si avvicinò alla porta sbarrando il passo al guaritore. Cos’altro volevano? Non bastava loro aver umiliato Alessandra? Non era ancora sufficiente essersi divertiti con lei e aver costretto loro ad assistere impotenti a quella violenza? Perchè lei ne era certa: quel guaritore non si era certo intrattenuto in una pacata conversazione con un paziente. Sango aprì la bocca, ma non riuscì a parlare. Emise solo un suono roco, un respiro strozzato e affaticato e dovette ringraziare la sua abitudine ad affrontare i demoni, perchè altrimenti sarebbe scoppiata a piangere per dar sfogo alla marea di emozioni che le rodevano l’animo. Non riuscì a opporre resistenza quando un demone l’allontanò di peso spingendola in malo modo verso i compagni. Riuscì appena a fare qualche passo e ad appoggiarsi al braccio che Miroku le aveva prontamente porto, altrimenti sarebbe caduta a terra. Stravolta. Prosciugata. Sommersa da emozioni violente che doveva continuare a reprimere.

 

“Cosa volete ancora?”

 

Voce bassa, un sussurro frustrato e rabbioso. Miroku strinse i denti. Non era certo di volerla conoscere, la risposta, ma sapeva benissimo che ignorare e fingere che non sarebbe accaduto nulla sarebbe stato un errore. Un grave errore. Qualunque cosa quei demoni avessero fatto volessero fare ad Alessandra, poi loro avrebbero dovuto mostrare alla ragazza abbastanza forza d’animo per chiederle perdono di non esser intervenuti e aiutarla a superare la violenza subita. Prospettiva non facile, soprattutto visto che Alessandra poteva assumere un atteggiamento di protezione che l’avrebbe portata a chiudersi a riccio. Era già difficile riuscire a strapparle un fugace contatto fisico, quando proprio non lo evitava abilmente; sotto l’influsso di un trauma, forzarla sarebbe anche potuto essere più controproducente del normale. Il monaco ricordò la guancia arrossata di Inuyasha una notte di non molti giorni prima. L’hanyou aveva liquidato la faccenda semplicemente avvertendolo di non allungare le mani sulla ragazza se non voleva ricevere anche lui un bello schiaffo. Alessandra non era certo in grado di opporre una qualche resistenza in quelle condizioni, e forse questo era il nervo della questione. Sentirsi scoperta e debole doveva essere per lei più angosciante e frustrante di molte alte cose.

 

“Semplici precauzioni. Non vogliamo correre il rischio che la nostra stirpe sia di nuovo contaminata con un bastardo”. Sogghignò. “É solo un infuso di aconito”

 

“Non potete darglielo adesso! É troppo debole!”

 

Yaone. Aveva cercato di dominarsi, di formulare nella mente una reazione per ogni azione che poteva venir commessa. Esser pronta a tutto, a qualsiasi cosa si fosse trovata di fronte appena le avessero permesso di entrare di nuovo nella stanza era il solo modo che avesse per non trovarsi impreparata e poter agire tempestivamente. Se non sullo spirito, almeno sul corpo. C’era un leggero odore di sangue nell’aria. Sangue umano. Sangue di Alessandra. Sapeva che anche koga se ne era accorto. Glielo aveva letto nel pallore che d’improvviso si era impadronito di lui. sconvolto. Disgustato. E adesso, volevano somministrale quel farmaco. Troppo forte per un organismo debilitato come quello della ragazza. Forse sarebbe andato tutto bene, ma avrebbe anche potuto provocarle delle convulsioni e degli sforzi di vomito tanto violenti da riaprire le ferite appena rimarginate. Per non prendere in considerazione le conseguenze debilitanti che avrebbe comunque avuto in generale sull’organismo di Alessandra. No. L’aconito era pericoloso per una donna in ottime condizioni fisiche; farlo ingerire alla ragazza in quello stato era un rischio enorme.

 

L’inuyoukai occhiegghiò verso Rin, la cui gola era ormai segnata da piccoli graffi sanguigni. Yaone si morse a sangue il labbro inferiore. Avrebbe potuto aggredire immediatamente il guaritore e ucciderlo, ma sarebbe costato la vita della bimba. D’altra parte, se non si fosse mossa, Alessandra sarebbe stata costretta a ingerire quel farmaco. Maledizione, maledizione, maledizione! Non sapeva più cosa fare. Cosa decidere. Avrebbe voluto salvarle tutte e due, e non poteva. Strinse le mani fino a conficcarsi gli artigli nella carne.

 

“Maledetto lupo!”

 

L’imprecazione e un guaito straziante riportò l’attenzione di tutti a Rin e al demone che la teneva in ostaggio. Kiba, approfittando della momentanea distrazione del demone, gli si era avvicinato con cautela, per poi aggredirgli il braccio nella speranza di indurlo a mollare la presa sulla sua padroncina. In effetti, l’inuyoukai era stato costretto a lasciare temporaneamente la bimba, ma prima che Rin potesse portarsi a distanza di sicurezza, il demone si era sbarazzato del lupachiotto e aveva ripreso la fuggiasca. Rin aveva urlato mentre Kiba era rotolato fino a Koga disegnando una sottile scia di sangue nella sua caduta. Il cucciolo cercò di rialzarsi, ma riuscì solamente a sollevarsi sulle zampe anteriori soffiando sangue e aria dalle narici e digrignando i denti arrossati per il sangue che colava dalla ferita al muso. Dalla radice del naso fin quasi alla base del muso, sfiorando di pochissimo l’occhio destro. Se non lo aveva perso era stato un miracolo.

 

“Provate un altro scherzo del genere, e la bambina è morta” minacciò il capo della delegazione, mentre di nuovo gli artigli premevano nella carne tenera della gola per sottolineare maggiormente la minaccia. In contemporanea, il guaritore scivolò nella stanza. Miroku tese istintivamente la mano, chiudendola ad afferrare aria. Non potevano rischiare la vita di Rin. E non riuscivano a sopportare l’idea di essere tenuti in scacco. Loro. Ad un passo da quella stanza. Con davanti agli occhi la fusuma aperta e la tenue luminescenza dell’andon. Con la consapevolezza che avrebbero fatto del male ad Alessandra senza che loro potessero far nulla. Assolutamente nulla.

 

Trattennero il fiato nel sentire i deboli gemiti della ragazza. Di certo avrebbe voluto ribellarsi. Avrebbe voluto gridare aiuto, invocare i loro nomi. Forse, in quei rantoli spezzati c’erano anche, i loro nomi. Credevano di riconoscerli, confusi con il respiro pesante e le deboli rimostranze. Parole, gemini, nomi. Diversi. Quando probabilmente era uno quello che Alessandra avrebbe voluto poter chiamare. Un nome a salirle alle labbra e venir prepotentemente ricacciato indietro. Kagome si lasciò scivolare a terra, raccogliendo fra le braccia il corpicino di Kiba e sentendosi investire da qualcosa di caldo. Il lupacchiotto guaì piano. Rin. L’avevano lasciata andare. Si sentivano al sicuro, e ormai avevano raggiunto lo scopo che si erano prefissati. Uccidere la bimba sarebbe stato un grave errore: se potevano giustificare tranquillamente il loro comportamento davanti a Sesshomaru indicandolo come conforme alla loro legge, uccidere la bimba sarebbe stato controproducente. Rin era sotto la protezione del Principe, e chi le recava offesa la recava di riflesso al demone. Con la ningen era diverso: era solo l’archiatra, anzi la precedente archiatra. Sesshomaru-sama non aveva provveduto in nessun caso a chiarire meglio la sua posizione e se anche si fosse trattato dell’amante del Principe, salvo una sua conferma ufficiale, restava sempre una ningen fuori dalla sua protezione. Soprattutto in quel contesto.

 

Kagome strinse al petto Rin che singhiozzava spaventata e terrorizzata all’idea di quello che era successo a Kiba e di quello che avevano potuto fare ad Ale-chan. Non sapeva cosa fosse accaduto, ma sapeva che era una cosa brutta. Aveva tanto desiderato che arrivasse Sesshomaru-sama a salvarla. Niente. E adesso si stringeva convulsamente al petto di Kagome, piangendo e singhiozzando. Ansimando per lo sforzo e ritrovandosi a tossire per recuperare il fiato. Strofinando il visino contro Kiba che cercava di confortarla leccandola piano. La sua padroncina stava bene. la sua padroncina era viva. La sua padroncina non era stata ferita.

 

Nessuno si accorse, o preferì semplicemente ignorare, gli sguardi di sprezzante e patetica commiserazione che gli inuyoukai rivolgevano loro. L’avrebbero pagata cara. Se avevano fatto del male ad Alessandra, Sesshomaru d’accordo oppure no, Koga e Miroku avevano giurato a se stessi che quei demoni avrebbero dovuto render loro vendetta. Ignorarono le risatine di scherno e le battute sarcastiche, forse triviali, che i demoni si scambiarono. Kagome si accorse che erano rimasti soli nel corridoio quando sentì Sango premerle una spalla e vide Miroku regalarle un’occhiata di incoraggiamento. Passò Rin,esausta per il pianto, alla sterminatrice e si alzò in piedi. Sopra la spalla di Yaone poteva distinguere chiaramente la fusuma aperta. Doveva andare a vedere. Doveva entrare e abbracciare Alessandra. Forse l’avrebbe allontanata, forse avrebbe voluto ribellarsi, ma lei non si sarebbe lasciata commuovere. L’avrebbe abbracciata e l’avrebbe fatta sfogare. Doveva farla piangere.

 

Scosse appena la testa. Kagome si era ricordata solo in quel momento di non aver mai visto Alessandra piangere. L’aveva vista esausta, con gli occhi infossati e rossi. L’aveva vista arrabbiata e delusa. Disincantata, triste, sorridente, fiduciosa, tremante e impaurita. L’aveva vista sotto molti aspetti, sempre più umani, sempre più lontani dalla fredda compostezza con cui le si era presentata a Musashi. Ma non l’aveva mai vista piangere. Sbattè gli occhi. Stupidaggini. Era stato solo un caso.

Avanzò di un passo. Yaone non si mosse. Restò a fronteggiarla. Sguardo fisso che sembrava volerla trapassare. Non la vedeva. Sbuffò. Non sarebbe stata lei a impedirle di entrare. L’aggirò. Si sentì afferrare il polso e trattenere. Provò a strattonare, ma la presa era salda. Si voltò stizzita. Esasperata. Adesso che potevano aiutarla, confortarla, le impedivano di vederla. Perchè? Perchè?

 

Koga scosse la testa ma sviò gli occhi della ragazza. Non riusciva a guardarla. Non era sicuro che non le avrebbe fatto capire quello che sentiva dentro, annodato alla bocca dello stomaco, se l’avesse guardata. Sentì Kagome tentare di liberarsi e strinse di più la presa. Sorrise amaro. Voleva sapere perchè la tratteneva lì. Perchè non la lasciasse andare.

 

“Sta piangendo”

 

 

*****

 

 

Disgusto. Nausea.

Mani che la sfioravano, premendo la pelle, indugiando sul suo corpo senza che lei potesse ribellarsi, senza aver la forza di allontanarsi. Inerme. Impotente. Debole. Maledettamente debole. Impossibilitata a scappare, a fuggire, a colpire. Scoperta. Indifesa. Nemmeno gridare.

 

Trattenne un gemito quando il demone torse di più il braccio. La clavicola mandava uno scricchiolio poco promettente. L’osso era stato scheggiato ed era ancora fresca la recente cicatrice. Un brivido. Involontario. Di paura e piacere. Terrore. Non era possibile. Non voleva. Non poteva permetterlo. Ma non era in grado di controllare il suo corpo, le sue reazioni. No. Doveva convincersi che era solo disgusto. Solo disgusto e paura. La lingua continuava a disegnarle i tendini del collo. Lenta. Troppo lenta. Voluttuosa. Maledetta.

 

Capelli tirati e la testa rovesciata contro un corpo. Un corpo sconosciuto. Bocca aperta alla ricerca di aria. Aria per respirare. Per trovare la forza di gridare, di maledire. Anche solo di offendere. Per non subire passivamente. Per non esser toccata. Non vuole esser toccata. Non le piace. Non lo permette mai a nessuno. E non lo permetterebbe mai in quel modo. Con quella voglia sfacciatamente ostentata, con quel tocco violento e irrispettoso. Sadico. Scosse la testa. Scalciò piano. Le coperte frusciarono. Niente. Troppo debole. Maledettamente debole. Se almeno fosse svenuta, se non fosse stata costretta vedere, a sentire. Gli artigli che saggiavano la pelle, la lingua sempre più bassa sulla giugulare, lungo la spalla. Nuda. Quand’era stato che le aveva tolto lo yogi? Quanto tempo era passato da quando si era ritrovata seduta contro quel corpo? Contro quel demone che aveva iniziato a premere sul kimono da notte, a esplorare il suo corpo senza preoccuparsi dei suoi deboli, patetici tentativi di opporsi.

 

Non si era resa subito conto di cosa stesse succedendo. Nel dormiveglia, anestetizzata e intontita dalla debolezza, in un primo momento aveva creduto di essere nelle stanze del Principe. Prima della battaglia, o forse dopo. Lui era tornato a palazzo e lei...lei era mai uscita dal palazzo? Sì. Sul campo di battaglia; la spalla e poi qualcos’altro. Non ricordava. Non era riuscita subito a focalizzare , ma non aveva importanza. Era convinta che fossero sue, le braccia che la sollevavano a sedere, che la stringevano, che la esploravano. Sue. Sesshomaru.

 

Respiro caldo all’orecchio, viso che affonda nei suoi capelli sciolti. Quando li aveva sciolti? Non lo ricordava. E intanto quelle mani continuavano a toccarla, vogliose, sfrontate, impudenti. Non poteva essere Sesshomaru. La stingeva con violenza, fino a farle male, incurante dei gemiti che le procurava, della possibilità di riaprire la ferita. La voce. Quel respiro che sibilava al suo orecchio. Antipatico, schermitore, offensivo. Non si era accorta subito che erano parole, frasi, offese. Il suo cervello non aveva raccolto immediatamente le allusioni che le venivano sussurrate.

 

“Ti sei divertita, nel letto del Principe? É bravo, vero?”

 

Aveva aperto la bocca per replicare, e si era trovata priva di forze per rispondere, con la gola che bruciava e il desiderio di piangere. Un nodo allo stomaco, assieme al disgusto per quelle parole, per quello che stava subendo. Passiva. La stava trattando come una prostituta, come la più infima delle yotaka. Le sfuggì un singhiozzo. In definitiva, era solo una ningen. E un demone non potrebbe vedere in lei nulla oltre ad un semplice diversivo. Carne a disposizione, per soddisfare ogni istinto. Solo corpo, e null’altro. Forse nemmeno reale piacere, ma godimento di forza, di violenza, di sopraffazione.

 

Le parole continuavano. Pesanti, accusatorie, maliziose. Alessandra aveva sentito la stoffa dello yogi lacerarsi. Pelle nuda. E labbra, lingua, mani toccarla di nuovo. Indugiando sugli ematomi. Scendendo sempre più in basso, scoprendo sempre di più. Stinse le mani cercando di trovare la forza per allontanarsi, per difendersi. Picchiare, graffiare, mordere. Qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa che le permettesse di allontanarsi da quel demone, da quelle mani, da quella violenza. Sesshomaru non era così. Con lui era diverso. Era uno youkai, ma non l’aveva trattata come un oggetto. Era un demone, ma non l’aveva violata. Aveva messo a tacere la sua forza, la sua superiorità fisica. L’aveva rispettata. Era diverso. Era diverso.

 

Aveva fatto forza con la schiena, riuscendo appena a illudersi di potersi allontanare, di non dover di nuovo sentire quel calore contro la schiena, quel respiro umido sul collo, le mani sulla pelle, e il demone le aveva afferrato il braccio, torcendoglielo dietro la schiena. La ferita appena cicatrizzata aveva ripresa a sanguinare. E adesso, si trovava di nuovo fra le braccia di uno sconosciuto, di un demone che non si sarebbe fermato solo per gli ordini che il Principe aveva dato. Adesso che l’aveva ben salda fra le mani, affannata e sudata, debole e prossima alle lacrime, non si sarebbe fermato. Alessandra sentì un artiglio indugiare sulle bende, giocare con la pelle solleticandogliela ora piano ora con violenza. Graffi e carezze. Mentre le labbra masticavano il suo orecchio. Stingendo la carne fra i canini appuntiti.

 

Piangere. Avrebbe voluto piangere e gridare. Ma la voce non usciva, e non aveva forza di urlare e sfogarsi. Troppo debole. Troppo provata ancora. Il respiro accelerò quando la mano del demone scivolò sul suo petto, insinuandosi sopra le bende che la fasciavano. La punta del dito incideva leggermente l’incavo fra i seni. Un crepitio lentissimo. Esasperante. La stoffa si lacerava lentamente. Rivelando la pelle. Alessandra strinse gli occhi e cercò di nuovo di allontanarsi. Inutile. Il demone rafforzò la stretta sul braccio.

 

Adesso, era a seno nudo. Fra le braccia di un demone, di un maschio. Scosse la testa, tentò di nuovo di muoversi e scalciare, di gridare. Non voleva quelle mani a sfiorarle il seno, le mani a stringerli; non sopportava gli artigli sulla pelle, la lingua che leccava avida il sangue e la ferita sulla spalla. E soprattutto non sopportava se stessa. I gemiti che non riusciva a frenare, che disperatamente soffocava in gola; i brividi che la attraversavano, che la facevano tramare. Quelle sensazioni intense. Come quando Sesshomaru l’aveva stretta, sfiorata, desiderata. Con passione, voglia, affanno. Sollevò stancamente una mano. Non era lui. Non c’era lui a stringerla, a sfiorarla, a strapparle brividi e gemiti. Non era Sesshomaru a liberarla dalla stoffa, a lacerare le bende, a far scivolare le mani sul suo corpo. Sempre più un in basso. Premendo sull’addome, disegnando l’arcata epigastrica.

 

Stoffa strappata. Completamente nuda fino alla vita. Così come nemmeno lui l’aveva mai vista, come non gli aveva mai permesso di vederla, di toccarla. Approfittò del momento in cui il demone si sporse di più per cercare di morderlo. Stinse la carne. Al braccio, forse ala viso. Stinse forse, affondando i denti. deboli. Troppo deboli. Si sentì strappare e una risata di scherno soffiarle all’orecchio. Respiro sempre più vicino. Labbra sornione e compiaciute alitarle quasi in bocca. Storse la testa. Sesshomaru l’aveva baciata in inverno. Al riparo di una quercia secolare. Sfiorandole appena le labbra. Quasi insicuro. Spaventato. Un bacio. Il primo. Nulla di fantastico, di travolgente, di passionale. Solo un contatto leggere. Quasi banale. Ma le era piaciuto. Per quello che significava. Per quello che poteva far nascere. Un bacio che si era evoluto, che si era fatto sempre più profondo, più intenso, esperto. Come la mani, avevano preso a muoversi con maggior sicurezza, indugiando maggiormente invece di limitarsi a sfiorare soltanto.

 

Il demone continuava a respirale sulle labbra. L’aveva costretta di nuovo sdraiata. Il peso del suo corpo a premerla sul materasso del futon. Le braccia bloccate sopra la testa. Provò a costringere la testa a scattare per mordere. Per dimenarsi. Fu costretta a sentire labbra violente morderle e succhiarle la gola, scendere sempre più in basso. Senza potersi ribellare. Singhiozzò più forte quando una mano s’insinuò nello spacco del kimono. Risalendo lungo la coscia. Si mosse affondando le unghie nel kariginu del demone che la premeva a terra. Stupida illusa. Faticava a restare cosciente, a respirare e muovere la testa. Cosa sperava di fare? Allontanarlo?

 

...Sesshomaru...

 

Perchè non c’era? Perchè non era accanto a lei? Perchè non era lui a toccala, a violarla? Perchè quelle mani erano diverse, violente, irrispettose? Mani che graffiavano la pelle, che premevano, insinuandosi sempre di più, osando troppo. Troppo per lei, troppo per quanto avesse mai concesso anche a chi amava.

 

Urlò, credette di urlare, quando il demone la spogliò completamente. Le sfuggì solo un singulto e un suono roco gutturale. La caricatura di un urlo. Il demone storse la bocca. Ma in fondo era meglio così. Non potevano rischiare di opporsi troppo apertamente alla volontà di Sesshomaru-sama. Accertarsi che non fosse gravida era una possibilità che esulava dagli ordini del Principe, e che avrebbe potuto semplicemente appurare ricorrendo al fiuto. Quella ragazza era vergine, e tale avrebbe dovuto rimanere per impedire che Sesshomaru-sama si sentisse offeso e defraudato. Tuttavia, nulla toglieva che si potesse divertire con lei, farle capire un po’ con chi avesse a che fare.

 

Le corsero al ventre, premendo senza riguardi sulla pelle, fino a farla gemere dal dolore. Alessandra tremò quando avvertì gli artigli strofinare la stoffa del fundoshi, infilarsi appena sotto il bordo per premere e incidere. Il respiro fermo in gola, gli occhi dilatati e brucianti. Si immaginava di sentire da un momento all’altro il rumore della stoffa che si lacerava, le mani che si insinuano prepotenti, che la costringono. Il peso era sempre maggiore, opprimente. Il corpo di quel demone la soffocava. Non sapeva più da quanto tempo fosse in sua balia, non riusciva a ricordare. Non aveva inizio, non aveva fine. C’era solo quel peso che le toglieva il fiato, quelle mani che continuavano a scivolare violente sul suo corpo nudo, insinuandosi, graffiando, picchiando, tirando e strappando. Labbra che assaggiano, che leccano, che assaporano. Respiro caldo, violento. Eccitato.

 

Estraneo. Tutto diverso. Tutto violento. Tutto costretto. E non riusciva a piangere, non poteva urlare, non aveva forza di ribellarsi. Prima sopra, poi sotto. Forse semplicemente era la sua mente a vorticare. Incapace di distinguere ancora la consistenza della realtà. Premere, spingere, strattonare. La spalla. Gli artigli graffiavano la cicatrice, rialzavano i capelli. Ancora. Ancora. Ogni particella del corpo rabbrividisce, e un picare strano, mischiato all’adrenalina e alla paura. Violento. Troppo violento. Spasimi. Grida. Gemiti soffocati che vorrebbero essere urla. Invocazioni di aiuto. Bocca aperta. Tossì. Saliva che scendeva a imbrattare la pelle calda e leggermente sudata. Non riusciva a inghiottire. La mano chiusa alla gola. Quasi a soffocarla. O forse era lei che avrebbe voluto soffocare. Chiudere gli occhi e sparire. Tutto, purchè quella violenza finisse. In fretta. Senza pensieri. Senza più doverci pensare. Chiudere gli occhi e non sentire. Nulla. Nè dolore nè piacere.

 

Alessandra si sentì rovesciare di lato, libera improvvisamente da quel corpo che sembrava volersi fondere con il suo. Pesante, opprimente. Riuscì a riprendere fiato. Lentamente. Brividi per l’aria fredda che s’insinuava dalla fusuma aperta. Un’ombra nera nel rettangolo della porta. Si strinse le braccia al seno a fatica, cercando di raggomitolarsi. Di smettere di tremare. Su quel letto sfatto. Fra le coperte e il suo yogi strappato. Un rigurgito in gola. Violento. Acido in bocca, sulle labbra. Saliva che bagna il materasso, il lenzuolo sgualcito e imbrattato di sangue. Nuovo conato.

 

Avrebbe voluto andarsene. Le sohji erano lì. Davanti agli occhi. avrebbe voluto aprirle, percorrere l’engawa. L’angolo e poi il corridoio. Al coperto. Lo ha percorso infinite volte. A testa alta e guardinga. In pieno sole e alla luce delle tenebre. Le stanze di Sesshomaru. Rifugiarsi lì. Fra quelle pareti, nel suo letto. Nelle sue braccia. Rifugiarsi da lui. poterlo chiamare, invocare. Urlare il suo nome e vederlo accorrere. Sentirsi stringere e baciare. Il suo calore sulla pelle, i suo capelli a velarla. Nascondersi, andarsene, sparire. Lui. Lui. Lui.

 

Sesshomaru, però, non era venuto. Non era andato da lei, non c’era al suo fianco. Non aveva potuto proteggerla. Nel suo letto. C’era entrata, vero. Aveva dormito con lui. E basta. Nulla di più. Non gli aveva permesso molto di più. Bacia intensi e uno sfiorarsi discreto. Strinse appena le mani. Quanto tempo era passato da quando lo aveva provocato nei suoi appartamenti? Prima della battaglia con Morigawa. Avrebbe voluto che l’amasse. Avrebbe voluto che restasse con lei. Lontana. Andarsene da quel palazzo, da quella vita che impediva loro di guardarsi, di soffermarsi su se stessi. Lontano da obblighi e rigido controllo. Via da titoli onorifici e inchini costanti. Loro due. Nei boschi.

 

Rabbrividì ancora. Sentiva freddo. Tanto freddo. Veniva da dentro. Dal pensiero che, forse, Sesshomaru non l’avrebbe più voluta. Che l’avrebbe guardata con disgusto. Di nuovo sola. Sola. Sola. Tese la mano. La testa pesante. Tanto pesante. Le faceva male da impazzire. Non riusciva ad articolare un pensiero coerente. Faticava a respirare. Rumori. Le orecchie ronzavano. Parole. Qualcuno stava parlando. Urlando forse. Lontano. Troppo lontano.

 

Si sentì sollevare a forza. La clavicola scricchiolò ancora quando le braccia le furono piegate dietro la schiena. In ginocchio. Nuda davanti a demoni che non avrebbero avuto il minimo rispetto di lei. Umiliata. Annullata. Non l’avevano violentata ancora fisicamente. Avevano giocato con lei, con il suo corpo incapace di reagire, esasperando la sua paura e approfittando della sua completa debolezza. Non avrebbe mai potuto reagire davvero. Non avrebbe mai avuto la presunzione di potersi realmente opporre. Ma almeno tentare. Provarci. Cercare di resistere. Mordere, graffiare, scalciare, urlare. Niente. Invece, niente.

 

Storse la bocca in un gemito quando le sollevarono la testa tirandole violentemente i capelli. Lo vide in viso. Per la prima volta, vide il viso di chi si era divertito con lei. Una macchia scura scolpita dalla luce del corridoio. Con un ghigno davvero poco rassicurante. Raggelante. Fissò ipnotizzata la mano che si avvicinava sempre di più, riprendendo a scendere lungo la gola, ampliandosi sulla clavicola e poi giù, lungo la curva dei seni.

 

“Il tuo compenso, yotaka”

 

Il demone le aprì a forza la bocca e le infilò fra le labbra una scodella. Amaro. Disgustoso. Nauseante. Un liquido che scendeva in gola. Facendole rinascere il desiderio di vomitare, di sputare in faccia a quel demone. Avrebbe voluto ribellarsi, impedirsi di inghiottire. Ma non poteva. Il demone le aveva tappato il naso e poteva solo inghiottire per evitare di soffocare. Respirò a fondo quando si ritrovò libera, reclinando la testa sul petto. Non sapeva cosa le avessero dato. Forse un veleno, forse una droga per potersi meglio divertire con lei. senza ricordi, senza testimoni. Sarebbe stata la loro parola contro quella di una ningen con ricordi offuscati. Smarrita.

 

Si accorse di trovarsi nuovamente sdraiata sul futon. Se ne erano andati. Non sapeva perchè, non sapeva se sarebbero tornati. Solo, era sola in quel momento. Sola. Le si appannò la vista. Le bruciava la bocca, lo stomaco, e avrebbe voluto vomitare. Lentamente, le lacrime iniziarono a disegnarle il viso, scendendo fino alle labbra screpolate. Con l’ultimo barlume di coscienza, le sembrò di cogliere delle voci. Voci conosciute, anche se non identificate. Amiche. Aprì la bocca per chiamare, per invocare qualcosa. Qualsiasi cosa. Riuscì a emettere solo un rantolo spezzato. I morse le labbra tentò di risollevarsi. Inutilmente. Rimase distesa sul futon. Arrotolata fra le lenzuola strappate e macchiate di sangue. Nuda. In lacrime. Sola.

 

...Sesshomaru...

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota conclusiva

 

 

Come consuetudine, ho aggiornato anche il dizionarietto con i termini che nuovi che compaiono in questo capitolo. Se non è di troppa presunzione, inserisco ancora in nota alcuni particolari che lascio impliciti nella storia e che, al momento, non so esattamente come inserire nel dizionarietto.

 

  1. Il fatto che Sesshomaru consideri di poter donare ad Alessandra una vita pressochè eterna grazie alla possibilità di richiamarla in vita con la Tenseiga ogni volta che muoia, sembrerebbe in contraddizione con quanto rivelato nel 59 volume del manga dalla madre del demone. Tenseiga, infatti, può ridare la vita una sola volta, ma questa prima parte della storia si colloca prima di quell’incontro del manga (che comunque, nella mia rielaborazione, avverrà in modo diverso, quasi onirico, dal momento che Sesshomaru è orfano di madre fin dalla tenera età), in un momento, quindi, in cui il Demone ancora suppone di non aver limiti nel restituire la vita.

 

  1. Nell’ultimo paragrafo, quando il demone spoglia completamente Alessandra, si mostra stizzito dal fatto che la ragazza indossi un fundoshi. Questo perchè, secondo la consuetudine giapponese, le donne sotto il kimono non portavano biancheria intima, fatta eccezione, talvolta, per un bustino che schiacciava il seno, secondo l’idea che il corpo della donna è come un perno su cui va esposta l’opera d’arte che è l’abito indossato, motivo per cui si tendeva a far assumere al corpo una forma il più tubolare possibile.

 

  1. L’aconito è una pianta velenosa le cui bacche possono però esser impiegate in medicina. L’uso contraccettivo o abortivo del frutto e delle foglie è attestato fin dalla Grecia antica, benchè, naturalmente, i rischi non fossero pochi e avesse una qualche possibile funzionalità solo in tempi estremamente brevi, salvo evitare, in stadi di gravidanza avanzata, complicazioni gravi.
  
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