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Autore: Outlast_Amnesia    15/05/2013    0 recensioni
Vivere non avrà più senso ormai.
Una spietata setta di vampiri è alle prese nella distruzione delle principali città del Mondo.
Qualcuno, però, ha cercato di redimersi.
Un'appassionante storia di intrighi e amore, ma anche di combattimenti all'ultimo sangue.
Genere: Mistero, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Threesome
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La luna piena brillava alta nel cielo e le nuvole si condensavano in una, più grande e più forte.
La pelle di Samara diventava sempre più fragile, i muscoli si stavano pian piano indebolendo e gli occhi faticavano a restare aperti. Erano giorni che la ragazza non mangiava e quelle malvagie creature non la nutrivano affatto. Inoltre, dopo essersi sgranchita ogni mattina, tornava nella sua cella e rimaneva lì per tutta la giornata. Aveva ormai perso il conto dei giorni in cui era bloccata lì. La situazione, inoltre, non faceva che peggiorare.
Era venuta a sapere qualche giorno prima che Frederick, che lei conosceva davvero poco, era stato squartato vivo nella cucina. I suoi resti erano andati direttamente fra le fauci dei “Sovrani”. Non sopportava l’idea che quello sarebbe potuto succedere anche a lei o a qualcun altro, come Narl.
Accanto a Samara c’era sempre la giovane e affascinante Ariana, che ormai non chiudeva occhio da giorni e restava a fissare la luna piena ogni volta che si poteva intravedere dalle piccole sbarre di ferro che bloccavano la finestra. Ogni volta che Samara provava a parlarle, il suo tentativo andava in fumo e decideva di rinunciarci. Era dura come una pietra, in quei momenti. Ma Samara sapeva che sarebbe durato per poco.

Il Sole illuminò la cella e Samara si mise a gambe incrociate. Fissò Ariana e notando il suo solito sguardo perso nel vuoto, ritrasse il suo.
La porta si aprì improvvisamente e sull’uscio apparve la cuoca della fortezza. Osservò la stanza e poi guardò con disdegno Samara.
-Giovani bocconcini, il padrone mi porta a riferirvi che anche oggi non toccherete cibo. Non sono decisioni che prendo io, mi dispiace, ma sappiamo tutti che la parola di Karn è legge, qui. Vero, bocconcini? Vero?!-
Le due, a quel punto, abbastanza intimorite da quella domanda possente, risposero in coro :- Sì, signora-. Quella, deridendole entrambe, chiuse la porta della cella sbattendola contro il muro in pietra e salì degli scalini: l’unico rumore che si sentiva era quello delle grosse scarpe che battevano con veemenza sul pavimento, neanche fosse qualcosa di cartaceo.
-Prima o poi usciremo da qui, ne sono sicura. Ma per ora obbediamo agli ordini-, sussurrò dolcemente Samara ad Ariana, che questa volta ricambiò il suo sguardo, senza aprir bocca. Samara fu comunque sollevata nel vedere che in quell’angusto luogo qualcuno la considerava. Così sorrise e si stese sul letto. Ma qualcosa di davvero potente ruppe il silenzio. Era un urlo, uno di quelli che ti restano dentro.
-Aaaaaaaaaaaaah! Obbedirò al signore Oscuro, non temete! Mi dispiace se non ho portato a compimento il mio dovere, ma almeno adesso… aaaaaaaaaaaaah! La smettete di torturarmi?! Sono dalla vostra parte, tonti! Aaaaaaaaaaaah, aaaaaaaah!- L’urlo riempì ancora una volta tutte le celle, poi il rumore di un fendente che si librava in aria, un colpo secco, un altro urlo e poi il silenzio più totale. Un’altra vittima che sarebbe stata la cena di quelle bestie. “Ottimo”, pensò Samara.

*


Il freddo occupava l’area della stanzetta. Non c’era nulla lì dentro, solo freddo e gelo. Eppure, si viveva.
Narl era disteso a terra, con i capelli ormai divenuti completamente grigi e con le labbra sigillate dal ghiaccio. Josef era appoggiato con la schiena alla parete, osservando un vuoto che non sarebbe mai stato più riempito. I suoi occhi erano profondi e scuri, come l’oceano. Occhi oceanici, così li definiva spesso Narl, quelle poche volte che il freddo lo lasciava pensare. Non succedeva nulla di nuovo dalla morte di Frederick, anche se entrambi erano rimasti scossi da quell’urlo. Ma dopo aver capito che non era nessuno che loro conoscessero, si ritrassero nuovamente nei loro pensieri.
Da fuori potevano udire una tormenta che si avvicinava, così capirono che dopotutto non erano così lontani da un’uscita. Anche se la porta era del tutto bloccata da fuori e il ghiaccio non migliorava la situazione.
Ma quel giorno qualcosa cambiò. Mentre i pochi rumori echeggiavano attraverso i muri, possenti zampe si udirono scendere per le scale e avvicinarsi lentamente alla cella frigorifero, inspirando mostruosamente. Poi il grosso pezzo di metallo fu rimosso pesantemente e fu sbattuto violentemente contro il muro e quella cosa aprì la porta.
Era un obbrobrio, una di quelle creature mostruose che non si dimenticano facilmente: aveva un solo occhio posto sulla fronte e la pupilla vorticava freneticamente; i capelli erano lisci e unti e gli scendevano lungo le spalle, mentre due grosse orecchie erano state parzialmente mozzate; indossava una tunica spinata ai lati e due grossi stivali neri completamente rotti. Era davvero brutto.
Narl lo fissò a lungo, pensando a numerosi aggettivi con cui descriverlo, mentre il giovane Josef voltò un attimo lo sguardo ma, come se fosse del tutto disinteressato, ritornò a fissare il muro sudicio della stanza.
-Il padrone vuole vedervi, stupidi mostriciattoli. Io fossi in voi non lo farei aspettare!-. Enfatizzò quest’ultima frase orribilmente e poi si mise sulle spalle i due poveri vampiri. Si stavano ancora chiedendo se fossero davvero stati rapiti da vampiri, dato che fino ad ora avevano visto solo mostri che sembravano più che altro usciti dagli Inferi. Ma la risposta non si fece attendere ulteriormente.
Seduto su una grande poltrona, completamente decorata da zaffiri, rubini e pietre preziose varie, c’era quello che le bestie chiamavano capo. E non fu difficile capire che era un vampiro, poiché mostrò subito i suoi canini molto prolungati in tutta la sua maestosità. A giudicare dall’aspetto, sembrava fosse stato trasformato sulla cinquantina, anche se il pallido del suo viso gliene faceva dimostrare qualcuno in meno.
Ma l’attenzione dei ragazzi fu presa dall’intera stanza: era gigantesca, con grosse torce appese progressivamente lungo le pareti dei muri e un enorme lampadario decorato sull’orlo. Le finestre mostravano la tormenta che cercava di sradicare gli alberi lì fuori ed erano decorate da foglie molto sottili di edera, che rendevano il loro aspetto di una magnifica bellezza. Ma non era affatto il momento di discutere su quello. Il “Grande Capo” si alzò dalla sua maestosa sedia e un piccolo sorriso gli apparve sul viso.
-Ma salve, mie docili creature. Siete ora giunti al mio cospetto, e già questo dovrebbe per voi essere un immenso onore. Ma a mio malgrado noto un certo dispiacere nei vostri occhi e così mi è venuta una gran voglia di tirarvi su il morale. Che ne dite di una bevuta nella mia sala da pranzo? Io, voi due e il mio caro figlioletto, Armaund-, e a quel punto un giovanotto, con lo stesso pallore in viso, uscì da una piccola porticina. Era vestito adeguato ad una cena e aveva anche i capelli molto ordinati. –A proposito, il mio nome è Kant, e sono il vampiro che tutti definiscono “Nascente”, ma voi potete semplicemente chiamarmi “Padrone”.- E subito si mise a ghignare.
Gli ospiti furono invitati in un enorme sala, con un enorme tavolo riccamente adornato e abbondante di vivande.
-Prego, servitevi pure-, ordinò loro Karn, sorridendo fievolmente.
-Grazie, Padrone-, risposero in coro Narl e Josef, osservando disgustati i loro piatti. Purtroppo, da quel momento in poi, avrebbero solo dovuto essere rispettosi nei confronti della famiglia reale, per evitare di venire uccisi. Ma il pensiero delle ragazze li pervadeva continuamente.
Passò una mezz’oretta e i piatti furono rimasti vuoti. Erano tutti pieni e ormai la tormenta si era calmata, lasciando spazio alla fioca luce della Luna.
Narl scosse il capo e si guardò intorno. Prima o poi sarebbero tornati a prenderli per riportarli nella loro cella.
-Potete rimanere ancora un po’ qui, se vi va-. Disse dolcemente Karn, fissandoli negli occhi. Poi, un suono soave si innalzò nella stanza, riempiendo ogni angolo di pura musica. I due si guardarono intorno e notarono che il meraviglioso suono proveniva da un organo, posto all’estremità della stanza, suonato dal giovane Armaund.
La musica diventava sempre più debole, sempre di più, fino a che a un certo punto l’udito di Narl e Josef si sentì mancare. Fu a seguito di ciò che gli occhi si chiusero velocemente e i due caddero in un profondo sonno senza sogni né incubi.

Josef si svegliò leggermente stordito ma la vista pian piano gli si incrementò. Scorse intorno a sé una moltitudine di ragazzi, seduti su sedie scomodissime, con le mani e le gambe legati e nudi, con solo l’intimo a rivestirli. Poco dopo, Josef si accorse che anche lui era nella stessa situazione, quando provò a grattarsi il naso. “Che immensa tristezza”, pensò con la rabbia che gli riempì lo stomaco. Poi, sforzando ancora di più gli occhi, trovò anche Narl nella stessa situazione. Poteva contare circa una decina di ragazzi lì, ma potevano essercene ancora degli altri.
Poco dopo, il mastodontico bestione aprì il grosso portone di legno che dava alla stanza e avanzò a passi pesanti sul pavimento.
-Tutti voi siete qui per aver commesso gravi crimini contro il Nostro Signore, alcuni di voi diseredandolo, altri di voi disertandolo. In ogni caso, i vostri crimini sono stati trovati e messi su carta bianca. Nessuno di voi potrà fuggire da qui, almeno, non da vivo. I vostri stupidi corpi e le vostre incolte menti saranno riportate dai vostri parenti, amici o chicchessia. Volete dire qualcosa, prima che chiami in ordine i vostri nomi?-
Ogni presente abbassò lo sguardo: Josef poteva sentire che qualcuno piangeva, che qualcuno pregava invano o che qualcuno addirittura prendeva a parole il Padrone, ma nessuno osò realmente parlare. Perciò, il conto alla rovescia cominciò.
Il primo ragazzo ad essere chiamato fu un certo Arcturus: costui fu portato bruscamente davanti agli altri malcapitati e fu decapitato. La sua testa fu gettata con enorme violenza giù dalla finestra (e dall’impatto lontano, Josef capì che si dovevano trovare su una torre altissima), mentre il suo corpo venne straziato da un branco di lupi affamato giunto all’improvviso.
Poi fu il turno di Barmhol: lui venne semplicemente preso a calci violentemente e poi venne mutilato, gli occhi gli vennero staccati dalle orbite e poi fu dato in pasto ai lupi. Josef, così, pensò che la morte variava a seconda del reato commesso, ma non poteva immaginarsi la sua. Sapeva solo che la sua lettera era vicina.
Questa terribile situazione andò avanti per ore e ore (Josef non si sbagliava, le persone erano davvero tante) e ognuno subì una morte diversa, sempre più straziante della precedente. Ma la cosa più brutta era che ognuno di loro, durante il processo, perdeva completamente la propria dignità: ucciso nudo, davanti a tutti, con le lacrime agli occhi. E tutti pensavano che solo gli esseri umani fossero capaci di piangere.
Poi il mostro arrivò a un nome in particolare: -Josef!-, urlò con veemenza, e Josef capì che la sua fine era vicina, che per lui non ci sarebbe stato nessun futuro; che non avrebbe mai potuto vivere felice, come un essere umano normale, con una donna che lo amasse, con una famiglia che lo volesse bene, con un lavoro. Che in quella vita sarebbe morto felice, accettando il suo destino di quel famigerato giorno e avrebbe abbracciato la morte come un’amica, salutando la vita, la quale sarebbe stata giusta con lui, regalandogli attimi di sogni e speranze, ma anche tristi e nascosti fra le righe di un quaderno che solo in pochi potevano vedere, muovendo i fili del destino di tutti. E invece era stato trasformato in un vampiro, non avrebbe mai avuto una vita felice e ora sarebbe morto, senza dignità, nudo, davanti a tutti. E di nuovo quel nome gli rimbombò in testa: “Josef!”, “Josef!”.. ma cosa voleva dire sul serio quel nome? Un uomo che non esisteva più, che le persone vive avrebbero ricordato solo come un cadavere da gettare in una fossa e poi dimenticare. Poi fu preso violentemente e chiuse gli occhi, per la paura.

*


Samara e Ariana pensavano continuamente ai loro amati: cos’aveva il destino in serbo per loro? Sarebbe stato clemente oppure malvagio? Erano tutte domande che non trovavano risposta in quel tormento di pensieri che gli fluttuavano nella testa.
-Samara, Josef mi ha raccontata che tu già in passato sei riuscita a liberarti da una trappola. Ti prego, per il bene nostro e dell’umanità, se puoi, cerca una via d’uscita. Io Ti Sto Pregando-, e sillabò enfatizzando notevolmente le ultime quattro, dolci ma altrettanto tristi parole.
Purtroppo, anche se Samara desiderava altamente esprimere i desideri di Ariana, non c’era possibilità di fuggire. Ma, d’un tratto, un’idea le attraversò la mente e le venne in mente un piano strategico che, ne era sicura, non avrebbe potuto fallire.
Giunse nuovamente la sera e la luna splendeva alta nel cielo. Un forte vento soffiava fuori e le foglie degli alberi altalenavano.
Le giovani udirono nuovamente i passi della possente cuoca battere sul pavimento in pietra. Il rumore fu sempre più vicino, finché le sbarre non tornarono ad aprirsi. La donna stava per aprir bocca ma tutto avvenne in poco tempo: Samara la colpì violentemente alle spalle e Ariana le diede un forte calcio in viso. Anche se le forze non erano al massimo, erano riuscite comunque a rinforzarsi mentalmente. A un certo punto, Samara afferrò il machete che portava la cuoca nella tasca del grembiule e glielo conficcò in mezzo agli occhi. Cadde, con un tonfo, sbattendo la testa a terra. Ariana le tolse violentemente il machete dalla fronte e insieme uscirono dalla cella.
Era così bello respirare aria diversa, ogni tanto. Capirono immediatamente di trovarsi in una specie di sotterraneo, dal fatto che le ragnatele abbondavano ovunque e che c’erano solo scatoloni ovunque. Una grossa scala a chiocciola si apriva più avanti e così le due salirono, lentamente e sperando di ridurre al minimo i rumori. Non che fosse difficile, dato che la maggior parte dei mostri che erano lì avevano le orecchie in parte mozzate, ma comunque il rischio era elevato.
Le scale terminarono in un uscio abbastanza ampio da permettere l’accesso anche ad un elefante, se fosse stato necessario. Fecero piccoli passi e osservarono la stanza: sembrava un’enorme sala da pranzo, decorata ovunque da pietre preziose e meravigliose. Poi un minimo rumore si alzò nella stanza fino a diventare musica. La musica di un organo, suonata da un bambino bello e ordinato. Le due ragazze cercarono di non udire, ma la musica corrompeva i loro animi e le loro menti e non c’era nulla che ormai potessero fare. Poi, d’un tratto, Samara vide Ariana con un paio di tappi di bottiglia alle orecchie che, a passo affrettato, raggiunse il pargoletto. Un grande machete, fievoli urla, una testa decapitata che volava in aria e il cessare della musica.
Furono le ultime cose che Samara udì, prima di cadere addormentata ai piedi dell’uscio.
  
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