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Autore: Magnet    15/05/2013    2 recensioni
Alice è una diciassettenne dai capelli rosso fuoco, perennemente distratta e immersa nelle pagine dei libri che le tengono compagnia in una stanza disordinata quanto i suoi pensieri. Sogna di diventare una scrittrice, di poter cambiare la vita di qualcuno con le proprie parole e al tempo stesso vorrebbe che qualcuno cambiasse la sua. Beatrice sopporta disperatamente i suoi diciannove anni, come se ad ogni respiro qualcuno le scagliasse contro una pietra e aspetta rassegnata la fine di quella che per lei non è vita. Esiste, ma non vive. Alice e Beatrice sono una la salvezza ed il completamento dell'altra. Sono destinate ad incontrarsi, proprio come un fiocco di neve è destinato ad incontrare il terreno, ad abbandonarsi ad esso, a sciogliersi.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Come la neve 2. Capitolo 2.

"Alice, ma mi stai ascoltando?"
La voce di sua madre, Dalila, fino a quel momento le aveva semplicemente sfiorato le orecchie. Le parole da lei pronunciate erano soltanto dei suoni ovattati che Alice non aveva voglia di elaborare. Fissava un punto imprecisato del tavolo, infilzando le patate con la forchetta e annuendo ogni qualvolta fosse necessario. Era totalmente assorta nei suoi pensieri, tra i quali vagava anche la figura incappucciata della stessa mattina.
Sollevò lo sguardo e annuì nuovamente, stavolta interessata sul serio.
"Mamma, ti dispiace sparecchiare al posto mio? Devo finire ancora molti compiti." chiese, decisa ad evitare quanto più possibile la compagnia della madre, che fece cenno di sì con la testa e sospirò, alzandosi per sistemare.

La ragazza salì di fretta le scale, per poi chiudersi in camera, tra il disordine generale.
Ancora non era riuscita a togliersi dalla testa quello sguardo. Aveva un qualcosa di così particolare che Alice credette di non riuscire a dimenticarlo affatto. Eppure ci voleva provare, perchè quella figura riusciva addirittura ad inquietarla e l'inquietudine era l'ultimo stato d'animo che avrebbe voluto provare.
Si gettò sul letto e chiuse gli occhi, stanca. Nel giro di dieci minuti era piombata in un sonno che si protese per circa quattro ore. Si risvegliò a mezzanotte, spaventata dai tuoni e dai lampi che squarciavano il nero silenzio della notte.
Infilò le ciabatte e la vestaglia, si avvolse in una coperta e andò in cucina a farsi una camomilla.
Messa l'acqua a scaldare, si poggiò contro il tavolo. Chissà se il giorno dopo la ragazza sarebbe stata di nuovo lì. Chissà se l'avrebbe mai rivista.
Filtrò la bustina e, sorseggiando lentamente, andò a sedersi sul divano, la coperta sul capo per coprirle le orecchie. I temporali non erano la sua passione, decisamente. Sin da piccola, era sempre stata spaventata da quella luce che distruggeva la continuità del buio notturno e da quei boati che sembrava facessero tremare le finestre. Suo padre andava a prenderla quando di notte si svegliava urlando, e la portava nel letto assieme alla mamma. Dormivano tutti e tre abbracciati e Alice si sentiva al sicuro, sapeva che nessuno avrebbe potuto farle del male perchè la corazza costruita dai suoi genitori era troppo forte per essere anche solo scalfita. Eppure si era ritrovata, anni dopo, ad essere ferita proprio da quello che credeva l'avrebbe protetta. Quando aveva tredici anni, i genitori di Alice divorziarono ed ebbero parecchi problemi sull'affidamento, considerato anche il fatto che il suo 'caro' padre era intenzionato ad andare a vivere con la sua nuova fiamma a Madrid. Dalila si era opposta e così anche Alice, che voleva restare in Italia. Da quel giorno, la ragazza dai capelli rossi sentì il padre solo per telefono e giurò continuamente di non sentirne la mancanza, forse più per convincere se stessa che la madre.

Con la bevanda fumante a riscaldarle le mani, la ragazza osservava dalla finestra chiusa lo spettacolo caotico del temporale che stava scemando. Terminato del tutto, Alice posò la tazza nel lavabo e tornò in camera. Di solito, nel periodo invernale, la poveretta non dormiva molto. I temporali e le bufere la tenevano sempre sveglia ed ogni volta era costretta a compiere il "rituale della camomilla" (come lo chiamava Dalila) pena il restare sveglia fino al mattino. Nonostante questi inconvenienti notturni, quella invernale restava sempre la sua stagione preferita.
Si infilò nuovamente nel letto, le coperte tirate fin sotto il mento, e chiuse gli occhi, sperando di riuscire a prendere sonno.

Fortunatamente dormì per un bel po' e si alzò solo dieci minuti prima del suono della sveglia. Una volta infilate le pantofole e la vestaglia, andò in cucina a fare colazione.
"Buongiorno, mamma."
Dalila stava finendo di sorseggiare il suo caffè amarissimo, con indosso un elegante tailleur nero e i capelli raccolti.  Lavorava come agente immobiliare, quindi Alice era abituata a vederla vestita così formalmente.
"Buongiorno! Senti, devo uscire presto stamattina, quindi non faremo colazione insieme. Dovrai pensare al pranzo da sola, oggi il lavoro mi terrà occupata tutto il giorno. Mi dispiace tantissimo, piccola. A stasera!" posò immediatamente la tazza e scoccò un bacio sulla guancia di un'Alice mezza addormentata. Quel gesto riuscì comunque a stupirla, sua madre non la salutava quasi mai baciandola.
"Ciao..." mormorò, pensando che Dalila fosse più allegra del solito e allo stesso tempo più agitata.  
Decise di non pensarci, almeno non per il momento.

Immergeva distrattamente un biscotto nel latte, quando si ricordò che quella mattina Francesca sarebbe passata a prenderla per andare a scuola insieme. Si chiese che fine avesse fatto il suo senso della puntualità e corse subito a prepararsi, lasciando che il biscotto si inzuppasse al punto da diventare molle.
Indossò un maglione grigio e rosso scuro e, correndo distrattamente con indosso ancora il pantalone del pigiama, andò a metter via le cose lasciate in cucina.
"Alice, sei una svampita!" si disse, correndo e cercando di mettere ordine.

Quando fu pronta, poco prima delle sette e trenta, si sedette sul divano, riprendendo a leggere il libro del giorno precedente.
Il campanello la distrasse dopo appena due pagine, quindi ripose il libro nell'Eastpack nero e uscì di casa.

"Ciao Fra'!" sorrise e le diede un bacio sulla guancia destra.
"Ciao rossa. Queste tue dimostrazioni d'affetto di prima mattina mi mettono a disagio, sappilo." rispose l'altra, inarcando le sopracciglia ma sorridendo a sua volta.
Per gran parte del tragitto parlarono della difficoltà della biologia che avevano dovuto studiare per l'interrogazione.
"Sai, Ali, ultimamente sei un po' con la testa fra le nuvole. Sbaglio?" attaccò all'improvviso Francesca, rivolgendole un'occhiata di pochi secondi, per poi tornare a concentrarsi sulla strada dinanzi a lei.
"In effetti..."
Alice stava per raccontarle della ragazza, ma, non appena il suo sguardo si posò sulla stessa panchina del giorno prima e vi trovò la ragazza seduta, si bloccò.
"Come non detto." mormorò Francesca "che c'è, quella tipa lì ti piace?"
La rossa, scioccata, si girò verso l'amica che aveva accennato alla ragazza in nero.
"Non ho neanche idea di chi sia."
"Allora vai a conoscerla!"
"No, Fra', non hai capito. Non m'interessa quella tizia. E' piuttosto inquietante. Ieri era lì e mi ha fissata, così come ho fatto io tutto il giorno. E' strana."
Ciò che Alice avrebbe voluto dire era che in realtà quella ragazza la incuriosiva tantissimo e voleva senza dubbio conoscerne la storia, capire cosa in quella donna l'attirasse talmente tanto da farla restare un giorno intero a fissarla attraverso un vetro.
Osservandola più da vicino, Alice notò che aveva i capelli castano scuro, forse neri. Non riusciva a vedere nient'altro: la chioma copriva quel viso, che era fisso sulle dita sottili e congestionate a causa del freddo, tra le quali era stretta una sigaretta ormai quasi terminata. Se la portò alle labbra violacee, dischiudendole lentamente.
Alice non poteva fare a meno di osservare tutti i suoi gesti. Voleva dirle qualcosa, ma ogni parola che avrebbe potuto rivolgerle le sembrava solo una grossa stupidaggine. Come poteva avvicinarsi ad una ragazza e dirle "Ciao, ti ho osservata per un giorno intero e credo che farò lo stesso anche oggi!" senza sembrare una povera pazza?

"Alice?" Francesca la guardava, le sopracciglia aggrottate.
"Eh?" la rossa si riscosse e tornò ad osservare l'amica.
"Sono le otto e un quarto. Dovremmo entrare."
"Ah, sì... Vai tu, ti raggiungo tra poco."
Francesca fu stupita nel sentire quelle parole uscire dalla bocca di "Miss Puntualità" e non cercò di nascondere minimamente la sua espressione. Mormorò qualcosa e le voltò le spalle, decisa a capire che diamine passasse in mente all'amica.

Alice, rimasta sola, strusciò i piedi sul suolo innevato e bagnato, infilò le mani - con tanto di guanti - nella tasca del cappotto. Moriva di freddo, ma doveva trovare il modo di avvicinarsi a quella ragazza. Sapeva di non essere per niente socievole, eppure si sentiva come un pezzetto di metallo. La calamita, posta poco lontano da lei, la stava lentamente attirando verso sé, contro la sua volontà.
Sospirò e a passo lento e silenzioso, si diresse verso la panchina.

Le venne in mente di una mattinata di fine maggio dell'anno precedente. Era appena uscita da scuola e doveva aspettare che Francesca terminasse un progetto al quale lavorava da tempo con dei compagni di classe. Si era seduta su quella stessa panchina e aveva tirato fuori dallo zaino la sua copia di Jane Eyre per leggere tranquillamente, quando un ragazzo si avvicinò e provò ad attaccare bottone con lei. Era molto infastidita da quell'interruzione, considerato che il ragazzo era terribilmente rumoroso e urlava ai suoi compagni dall'altra parte della strada. Alice era talmente stizzita dalla maleducazione del giovane, che si alzò dalla panchina senza rivolgergli neanche uno sguardo e andò a sedersi altrove.
Quel pensiero la bloccò un attimo. Non voleva comportarsi come quel ragazzo, di certo non voleva sembrare fastidiosa. Poi capì che stava solo facendosi troppe paranoie.

Arrivata di fronte alla ragazza, chiese, con il tono di voce più naturale che potesse permettersi, se poteva sedersi. Quella, senza neanche guardarla in viso, fece cenno di sì e si spostò di lato.
"Brava Alice, brava. E ora?" si chiedeva.
Passarono cinque minuti prima che la rossa si decidesse di nuovo ad aprire bocca.
"Non hai freddo?"  si stupì del suo tono di voce tranquillo. Dentro si sentiva terribilmente agitata e credeva che aprendo bocca non sarebbe uscito alcun suono.
"No." la freddezza del monosillabo uscito da quelle labbra violacee la scoraggiò.
"Ma stai congelando."
"Sto bene così."
"Magari..."
"Ho detto che sto bene."
La ragazza dai capelli neri le rivolse uno sguardo indecifrabile. Alice non capiva se fosse arrabbiata ed infastidita, o non le importasse. Tutto ciò che riusciva a elaborare erano pensieri su quanto fossero belli i suoi occhi. Poteva scorgervi il mare all'interno. Il naso era piccolo e le labbra sottili tremolanti per il freddo. La sua pelle era bianca come la neve che aveva calpestato e un principio di lentiggini, che solo un acuto osservatore come Alice avrebbe individuato, spuntava ai lati del naso. Ad interrompere l'armonia dei lineamenti della fanciulla, fu il profondo taglio che le attraversava lo zigomo sinistro, tumefatto. Sembrava piuttosto recente, Alice poteva vedere il sangue che non era stato lavato via del tutto.

"Mi chiamo Alice, tu muori dal freddo e quello è un brutto taglio." disse allora la rossa, decisa a non lasciar in pace la ragazza finché non fosse riuscita almeno a sapere il suo nome.
"Mi chiamo Beatrice e ti sarei grata se mi lasciassi da sola." la voce della ragazza dai capelli scuri tremava.
L'altra rimase per un minuto in silenzio. Imbarazzata, non sapeva più cosa dire, perché ormai era chiaro che le stesse soltanto dando fastidio. Fece per alzarsi e sistemarsi il cappotto, poi, senza rivolgerle ulteriori sguardi, si avviò lentamente verso la scalinata ghiacciata del liceo.
Beatrice la osservò mentre si allontanava, mordendosi le labbra fino a sentire il sapore metallico del sangue espandersi sulla punta della lingua. Avrebbe voluto agire diversamente, ma qualcosa le diceva di rinchiudersi nel suo guscio, di non permettere a nessuno di avvicinarsi a lei. Come sempre, pensò, era meglio per tutti se fosse rimasta sola.


Dopo aver fatto il permesso alla segreteria, Alice entrò in classe e, con un buongiorno un po' più squillante del solito, andò a sedersi  accanto alla  sua migliore amica, che le rivolse uno sguardo alla "ti torturerò finché non saprò ogni cosa". Alice sbuffò e prese il libro di filosofia. Come il giorno precedente, e stavolta con ancora più interesse, continuò a guardare fuori dalla finestra.
Beatrice era ancora seduta, i gomiti poggiati sulle ginocchia e la testa fra le mani. Ogni tanto guardava in avanti, ma la maggior parte del tempo il suo sguardo era fisso sulla neve sporca che aveva sotto i piedi.
Alice si chiedeva che impressione avesse fatto.
Poi si ricordò del taglio che aveva visto, della nota dolente che stonava, assieme alle occhiaie, sul viso bianco della ragazza.
Beatrice fumava una sigaretta quando sollevò lo sguardo e lo fissò sulla finestra dalla quale l'altra la stava osservando. Probabilmente neanche era in grado di vederla, ma Alice spostò comunque lo sguardo, tornando a seguire la lezione. Francesca mostrava un certo disappunto.


Suonata la campanella della sesta ora, Alice si concesse un minuto in più per controllare che Beatrice fosse ancora lì, prima di uscire.
Non capiva nemmeno perché le interessasse, visto che la mora non sembrava avere neanche un minimo di curiosità nel conoscerla. E sinceramente lei stessa non capiva il senso del suo desiderio di avvicinarsi a quella ragazza.

Nel gelo di dicembre, Francesca strattonò l'amica.
"Tu stai avendo seri squilibri. Entri in classe in ritardo e non segui neanche la lezione! Chi ti ha posseduta?!" pronunciò l'ultima frase con tono drammatico.
"Beatrice." fu quasi un sospiro.
Francesca si zittì, inarcando le sopracciglia.
"Cioè, non è quello che credi. La vedi, la ragazza sulla panchina? Si chiama Beatrice. Hai mai sentito come se fossi legata ad una persona con una specie di filo invisibile? Anche senza conoscerla, intendo. Perché Beatrice mi attira in questo senso. C'è qualcosa nella sua persona che deve essere scoperto e io... non lo so, non è neanche curiosità, sai quanto odio le persone curiose. Sento come se lei avesse bisogno di una persona come me." quando Alice iniziava a parlare di cose che non comprendeva a pieno, tendeva a gesticolare, ad impappinarsi e a comporre un miscuglio di frasi senza legami logici.
"E quindi stamattina sei stata con lei?"
"No. Cioè, sì.  Per tipo dieci minuti. Non sembra molto socievole e credo di averle fatto una brutta impressione."
Alice si sistemò il cappellino, pronta ad incamminarsi per tornare a casa.

"Alice?" una voce, dietro di lei, la chiamò con tono insicuro
Senza neanche voltarsi, la rossa capì a chi appartenesse ed ebbe quasi un sussulto. Sentiva il battito accelerato del suo cuore, lo sentiva così forte che qualsiasi altro suono non giungeva alle sue orecchie.
Perché si stava agitando tanto? Non riusciva a spiegarselo. Fece un respiro profondo e si girò, trovandosi a pochi passi da Beatrice, che la raggiunse.
"Volevo chiederti scusa per stamattina. Sono stata... sgarbata."
Ad Alice sembrò quasi di vedere una sorta di sorriso affiorare su quelle labbra sottili e martoriate.
"Non preoccuparti. Io sono stata invadente, il che è peggio. Avevi tutto il diritto di rispondermi in quel modo."
La rossa sorrise in un modo che rassicurò molto Beatrice.
"Allora credo che dovremmo fare delle presentazioni migliori. Beatrice Taddei."
Allungò la mano sottile e un po' screpolata dal freddo. Alice fu subito pronta a ricambiare la stretta. Il contrasto che ne seguì lasciò entrambe interdette. La mano della rossa, soffice, curata e calda, stringeva quella della mora, secca, gelata e piena di graffi.

Era come se le mani, entrando in contatto, avessero rivelato molto più che un semplice nome.
Alice, con una vita perfettamente equilibrata, con il calore di persone che l'amavano, la delicatezza di tutti i buoni sentimenti che, nel corso dei suoi diciassette anni aveva imparato a conoscere e provare.
Beatrice, con i suoi graffi sul corpo e nell'anima ed il ghiaccio che le attanagliava le dita ed il cuore.

"Alice Russo." pronunciò, quasi solennemente la rossa.

Alice Russo. Beatrice non si sarebbe tolta quel nome dalla testa neanche nella settimana successiva. E ciò la spaventava molto.













  
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