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Autore: imnotalive    03/12/2007    2 recensioni
Cosa faresti se scoprissi di aver dimenticato una parte del tuo passato, quella parte di cui nessuno è a conoscenza tranne colui scopri essere una persona che hai amato? Una persona che si rivela non essere più come la ricordavi. Un essere che non appartiene più al mondo dei vivi, un mondo di cui una volta anche tu avresti voluto far parte.
Genere: Triste, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PAZZA, STRANA NOTTE.

 

Il morbido cuscino sul quale pesante sprofondava la mia testa, mi stava cullando, trattenendomi da quel risveglio troppo violento.

La notte era sempre così bella da non poter fare a meno di viverla minuto per minuto, incurante delle lancette d’orologio che avanzavano inesorabili.

La maggior parte delle volte succedeva che arrivate ormai le cinque del mattino mi sforzavo di chiudere gli occhi e dormire. In realtà non ci impiegavo molto a prendere sonno, ma raramente succedeva prima di quell’ora.

Addormentarmi con il buio era per me qualcosa di anormale. Uno spreco. A volte pensavo di essere davvero una creatura della notte, figlia della luna. I miei scherzavano per lo più quando mi dicevano di somigliare a un vampiro, per via della carnagione chiara e il mio continuo protestare contro le luci quando era mattina, e già la luce naturale risultava fastidiosa.

Impongo loro di spegnere appena entro in qualsiasi stanza, perché gli occhi mi fanno male quando le luci sono troppo forti. Le prime volte, ricordo le loro risate, e gli sguardi; inizialmente mi fissavano attoniti, e forse solo ora hanno capito che non ho mai scherzato su questo, e che davvero la luce m’infastidisce.

Quella mattina però, era già eccessivamente tardi per lamentarmi della luce troppo forte. Quando allungai la mano per controllare l’ora sul cellulare mi accorsi che erano le due del pomeriggio: avevo dormito poco comunque. Quella notte ero stata davanti al computer e non ero riuscita a staccarmene, e se infine l’avevo fatto era solo perché arrivate ormai le sei del mattino, non volevo sentire le proteste di mio padre sulle mie pessime abitudini.

Con gli occhi semi chiusi mi accorsi, toccandomi le estremità del lobo, che un filo mi arrivava lungo sotto la pancia, partendo dall’orecchio; il mio lettore mp3 era schiacciato sotto di me. Poveretto. Solitamente ascoltare musica era il modo migliore per prendere sonno, ed Einaudi poi era un tocca sana. Adoro il modo in cui suona il pianoforte e per di più la malinconia che mi lascia quando ascolto i suoi pezzi: la stessa con cui mi metto a letto controvoglia mentre ripenso a tutto quello che vorrei fare e al mondo fantastico che ogni giorno si rannicchia nella parte più remota della mia testa e mi fa sognare ad occhi aperti.

Mi voltai a pancia in su, percependo piano tutti i soliti dolori quotidiani: le caviglie che scricchiolavano, le ginocchia sofferenti, la schiena indolenzita, le braccia addormentate e la testa… Che mal di testa!

Forse mio padre aveva ragione: quel continuo cambio di orari, dormire quando mi andava, mi stava danneggiando la salute. L’autodistruzione infondo era la cosa che mi riusciva meglio. Solitamente ci mettevo dieci minuti buoni per alzarmi, reggermi in piedi e capire il da farsi, e stranamente sembravano i dieci minuti più calmi che ricordassi. Ma quella mattina il telefono squillò pronto a ricordarmi che non si è mai bravi a tenere la bocca chiusa.

Mugugnai qualcosa prima di notare sul display il numero di cellulare di mia madre.

“Sei sveglia?”

“Adesso si.”

“Che vuol dire? Sono le due. Vedi di alzarti.”

A mia madre non piaceva vedermi poltrire, dormire anche se poi in realtà non era affatto così. Avevo giornate piene, tranne rare volte, come quella, in cui avevo il turno di pomeriggio e la mattina ero stranamente libera da impegni.

Chiusi il telefono mentre mia madre parlava ancora da sola, e ritornai a sprofondare nel cuscino. Era in quei momenti che speravo il tempo si bloccasse e venendo poi catapultata in uno dei miei mondi fantastici, si, forse un po’ macabri, ma infondo lo ero anche io.

Con forza mi alzai dal letto accorgendomi che era trascorsa una buona mezz’ora da quando avevo controllato l’ultima volta. Mi lavai e sgattaiolai fuori di casa pronta a svolgere il mio dovere. La giornata proseguì senza novità, ma d’altronde con il mio lavoro non c’era di che stupirsi. Era mezzanotte quando, stufa, uscì finalmente fuori salendo la solita rampa che porta al parcheggio, raggiungendo la mia auto. Ad un tratto un senso di inquietudine mi colpì.

 

Vi capita mai di guardare qualcosa e sentirvi terribilmente tristi, sopraffatti da un sentimento che non riuscite a decifrare?

A me succede spesso, soprattutto quando finisco di lavorare. Quando la notte e l’oscurità inghiottisce il mondo intorno a me, provo un vuoto allo stomaco: una sensazione di malinconia incolmabile. In quel momento mi sentivo esattamente così. Sollevai il capo e osservai la luna guardarmi, come se la sua luce tiepida mi abbracciasse e fosse in grado di levare via quella tristezza.

Non appena notai il mio riflesso sul finestrino con un sospiro soffocato abbassai il capo ed aprì la portiera, sedendomi come se sapessi di non poter scacciare quella sensazione. Misi in moto facendo scaldare di poco la macchina e sollevai il cappuccio sulla testa, dando un occhiata veloce all’ora e poi allo specchietto retrovisore.

Sobbalzai di colpo. Un ombra fugace aveva attraversato la parte posteriore della mia macchina. Spalancai gli occhi. In quel momento avevo poche idee chiare in testa. Con tutti i film horror che avevo visto cominciai a pensare a tutto quello che sarebbe potuto succedere. Forse un po’ melodrammatica, ma avevo paura a richiudere gli occhi e difatti non lo feci. Mi voltai verso ogni lato scrutando nel buio. Poi uscii perché solitamente non sono il tipo di persona che fugge, soprattutto perché questo genere di cose mi attira per natura. Il parcheggio era sempre quasi buio a quell’ora e capitava spesso di vedere cose che in realtà erano altro; volevo solo la conferma di ciò che pensavo.

Percorsi a piedi tutt’intorno alla mia macchina voltandomi di tanto in tanto: niente. Chissà perché avevo sperato davvero di trovare qualcosa. Quella sensazione però non andava via. Era come sentirsi alitati addosso, come se qualcuno mi stesse così vicino da percepirne la presenza, ma non vederne la consistenza.

Cominciavo ad aver paura: ero sola, e quel bosco che dista a pochi metri dal parcheggio non mi ha mai fatto gran simpatia. Fissai la fitta coltre di alberi e cespugli per qualche secondo come se ne fossi attratta. Cominciai a fare qualche passo verso il cancello guidata da quel richiamo di cui non capivo la natura, poi la caduta di un sasso dietro di me mi fece sobbalzare di nuovo, ma questa volta rischiai il collasso.

Mi voltai di scatto mantenendo il respiro e mi avvicinai al punto da dove avevo sentito provenire quel rumore. Sgranai gli occhi: la portiera della macchina era aperta e la mia borsa a terra. Il battito del mio cuore accelerava senza che potessi controllarlo e quel tum tum sembrava riecheggiasse in tutto il parcheggio.

Ero rimasta immobile a fissare la mia borsa per terra e la portiera del passeggero ancora aperta. Mi voltai nuovamente quando riuscì a muovere un muscolo ma non vedevo nulla, niente di niente. A parte me, non c’era nessuno in quel parcheggio. Feci qualche passo titubante verso la mia auto, raccogliendo la borsa e richiudendo la portiera. Tornai al mio posto sedendomi in fretta ed inserendo la retromarcia. Adesso i miei occhi erano ovunque: dallo specchietto, ai finestrini. Sul davanti, sul di dietro. Ero terrorizzata. Attesi che il cancello si aprisse, ed inserendo gli abbaglianti uscì alla velocità della luce da quel parcheggio; la sensazione che avevo provato prima però, non voleva andarsene.

Perché avevo l’impressione che qualunque cosa mi avesse fatta spaventare nel parcheggio, adesso fosse in macchina con me?

 

Non feci nemmeno cento metri, fermai la macchina ed usci di corsa. Lasciai la portiera aperta e corsi verso la prima cosa che somigliava ad una panchina: stavo uscendo fuori di testa. Respirai a fondo portandomi una mano sulla fronte mentre continuavo ad osservare quello scenario. L’aria era intrisa di umidità e c’era freddo, tanto da congelarmi le mani.

“Ma che sto facendo” mi dissi scuotendo il capo, ma una parte di me era ancora timorosa di risalire in macchina. Ad un tratto avvertì un rumore di passi, chiaro alle mie spalle; una sagoma nascosta nel buio avanzava verso di me. Deglutì. “Avanti, non puoi comportarti da codarda, questo genere di cose le attendi da una vita” parlavo da sola nella mia testa, mentre quella figura si avvicinava sempre di più, venendo piano alla luce. “Eh?” dissi vedendo un ragazzo abbastanza alto, bruno e vestito in modo strano, fermo in mezzo al piazzale, a pochi metri da me.

“Scusa non volevo spaventarti” mi disse con voce dolce.

Ritrassi la testa sconvolta; ero furiosa perché avevo sperato in qualcos’altro, ma dall’altra parte ero sollevata che insieme a me ci fosse una altra persona. Qualcuno di umano, reale. Scossi il capo.

“Lascia stare, non sei tu” dissi immaginando che adesso avrebbe pensato fossi pazza. Mi voltai subito, decisa a tornare alla mia macchina. Guardai l’ora: mezzanotte. “Era mezzanotte anche prima” pensai. Casa mia era vicinissima ma avevo perso tempo; in un modo o nell’altro sarebbe passato del tempo. Crucciai la fronte, inserendo la prima e facendo manovra.

 

Basta.

“Adesso vado a casa, mi faccio una bella doccia e questa giornata sarà dimenticata” mi dissi, mentre illuminando con i fari il piazzale vidi che nel punto in cui ero seduta prima, non c’era più quello strano ragazzo. “Però, che velocità” pensai, e senza far caso ad altro proseguii aprendo l’ennesimo cancello automatico. Tutte quelle soste mi snervavano. Finalmente riuscii ad arrivare a casa senza ulteriori pit-stop, scesi dalla macchina ancora incredula. Mentre mi avviavo alla porta cominciai a ridere come una scema; forse ero solo stanca, o magari dovevo smetterla di vedere tutti quei film dell’orrore. Mia madre me lo diceva sempre. Inserii la chiave ed entrai, accendendo istintivamente la prima luce e poi man mano che avanzavo, anche le altre: mai come quella sera adoravo l’elettricità.

Mi sentii al sicuro quando osservai il mio gatto venirmi incontro tranquillo. Sono della convinzione che se c’è qualcosa che non va i gatti sono i primi a capirlo, e lui a quanto pare non aveva visto nulla che non andasse. Ero sollevata.

Quella sera non avrei preso sonno facilmente, lo sapevo, così dopo una doccia calda e rilassante, decisi di sistemarmi sul divano come spesso capitava e di guardare la tv finché non mi sarei addormentata. Tutti i miei telefilm preferiti erano terminati. Erano le tre passate e sentii le palpebre pesanti così mi abbandonai a quello che forse si era deciso ad arrivare; il sonno tanto atteso.

 

Mi risvegliai notando le prime luci dell’alba attraversare la finestra. Il televisore era ancora acceso.

“Ahi” il mio collo. Dimenticavo sempre di mettermi in una posizione più comoda quando decidevo di passare la notte sul divano. Visto che di alzarmi non avevo voglia restai qualche secondo con gli occhi chiusi. Lo facevo spesso tentando di ricordare se durante la notte appena trascorsa aveva per caso fatto sogni interessanti. L’unica cosa che ricordavo però, era il freddo che avevo avvertito quella notte, e di nuovo quelle immagini mi tornarono alla mente. Per fortuna la luce che entrava in casa mi rassicurò subito. Era la prima volta che avevo avuto paura dell’oscurità. Sentii i passi di mia madre scendere le scale. Quando mi vide sul divano mi rimproverò come al solito, senza curarsi se fossi già sveglia o no.

“Ma non ti piace il tuo letto?” mi domandò riferendosi al fatto che erano più le volte che dormivo sul divano, che in camera mia.

“Si che mi piace. Dalle cinque in poi” risposi ricordandole che in quel momento avrei fatto il secondo round.

“Dove credi di andare?”

“Eh?” mi fermò per un braccio.

“Oggi non hai il turno di mattina?”

“Mattina?” ero frastornata.

No. Non era possibile.

“Si mattina” mi ribadì lei.

“Scusa che giorno è oggi?”

“Mi prendi in giro?” disse sbuffando.

“No, affatto. E’ sabato, vero?”

“Si, sabato. Ti piacerebbe” scosse il capo. “E’ lunedì.”

“Che cosa?” spalancai gli occhi a stento, perché ancora appiccicati. Ero convintissima che fosse sabato. Il venerdì solitamente facevo il turno di pomeriggio e per questo il sabato potevo dormire fino a tardi. Ero sicura.

Avevo avuto altri momenti simili, ma mi capitava per lo più quando dovevo andare a scuola e confondevo i giorni. Con l’orario di quel periodo non era possibile confondersi, e io non ricordavo di aver fatto quello che faccio solitamente il sabato o la domenica. Se davvero era lunedì dovevo ricordarmene.

In più se quel giorno avevo il turno di mattina, sarebbe stata dura andare a lavoro con due ore di sonno. Restai impalata al centro della stanza ancora interdetta. Mi ripresi solo sentendo mio padre sopraggiungermi alle spalle; lo sentii ridacchiare. “Mi state prendendo in giro, vero?”

Vidi mia madre scoppiare a ridere: me l’avevano fatta.

Ci mancava anche che avessi perso la cognizione del tempo, dopo quello che avevo passato la sera prima: strane visioni, perdita della memoria… Si ci voleva proprio. Andai in contro a mia madre dandole qualche colpetto sulla spalla per colpevolizzarla di farmi sempre venire paure assurde.

“Ho già avuto il mio piccolo infarto ieri sera” mi lasciai sfuggire, forse anche perché non sarei riuscita a tenere quel segreto a lungo, realtà o immaginazione che fosse.

“Che infarto?” domandò lei curiosa.

“Mentre tornavo a casa, ho visto cose” ero vaga. Sapevo che a mia madre quel genere si storielle non piacevano. Spesso quando trovava i miei libri di magia bianca nella borsa restava zitta finché non me ne uscivo con storie assurde e lei era pronta a dirmi che mi costruivo fantasie a causa di quei libri. Era anche per questo che i santini appesi sul muro della mia camera aumentavano di giorno in giorno.

“Cose, come?”

Notai mio padre scuotere il capo. Lui era tutto tranne che credulone.

“Ero in macchina e ho visto un ombra tutto qua.”

Mia madre aveva finito di preparare la colazione, così spinta anche dal buco che avevo nello stomaco, mi sedetti al tavolo per una tazza di latte e caffè.

“Tipo di un albero che si muove per via del vento?” ipotizzò lei.

“No. Tipo quella di una persona che ti passa davanti.” Mio padre alzò di scatto la testa fissandomi cupo. “Solo che è passato dietro. L’ho intravisto dallo specchietto” abbassai lo sguardo versando il latte nella tazza. Non ero più terrorizzata, anzi, ero affascinata.

“Sono cose che si vedono, la sera quando le ombre ci ingannano.”

Osservai mia madre per un istante, compiaciuta per quello che aveva detto. Ma io ero pronta a darle la mazzata finale.

“Sono uscita, per vedere cos’era” continuai tranquilla, versando il caffé e notando l’espressione poco sorpresa di lei. “E mentre mi guardavo intorno ho sentito un rumore.”

Entrambi si voltarono verso di me di scatto, io avevo ancora la testa bassa. Il ricordo di quella scena in quel momento mi stava pietrificando.

“Un gatto?” ipotizzò mio padre.

“No” dissi secca.

“Un cane allora?” esordì mia madre.

“No” risposi ancora lasciando che la loro curiosità li portasse a chiedermi altro.

“Allora?”

“La portiera della macchina, quella del passeggero però…” esitai qualche istante. “Era spalancata e per terra c’era la mia borsa.”

Avevo detto quella frase con tanta naturalezza da destare sospetti in loro. Sicuramente non mi credevano e i loro sorrisi ne furono la conferma.

“E’ vero!” protestai io cominciando a bere il latte bollente. “Non me lo sto inventando.”

“Non è che l’hai sognato?” Ecco mia madre. Nonostante lei credesse a questo genere di stranezze, quando si trattava di me diventava improvvisamente “scientifica”.

“Non l’ho sognato. Almeno non credo” mi stavano facendo venire i dubbi. No. Ne ero certa.

Presi la borsa portando sotto gli occhi di lei il mio ombretto. La scatola in plastica era piena di polverina.

“Guarda. Si è rotto cadendo” dissi rimettendolo in borsa.

La sera prima mi ero accorta che l’ombretto si era frantumato ma non ci avevo dato peso, per quanto mi dispiacesse. Volevo solo fuggire da quel posto. Me ne ricordai ancora.

“Sarà” mormorò mio padre.

Non mi avrebbero mai creduto, tanto valeva finirla là.

“Oggi mi serve la macchina, per favore puoi lasciarmela?” chiesi cambiando intenzionalmente argomento. Avevo finito la mia tazza di latte.

“A me non serve” disse lei scuotendo il capo.

“Ok. Io vado. Il secondo round ricordi?” mi trascinai alle scale salendole come se non avessi più la facoltà di camminare.

 

In quell’istante mi domandai se avrei avuto modo di riprendere sonno. Probabilmente la caffeina in circolo non mi avrebbe aiutata.

Mentre mi sistemavo a letto continuavo a pensare a quella strana vicenda. Avevo per tanti anni sperato che qualcosa del genere mi capitasse. Ero affascinata, e le cose strane erano il mio pane quotidiano. Sorrisi perché forse era stato davvero un sogno, o magari la mia immaginazione. Forse mi era caduta la borsa dalla macchina e avevo solo sognato quell’episodio. La mente fa brutti scherzi a volte. Mi ritrovai ad essere più razionale di quanto credessi di essere. Chiusi gli occhi coprendomi il viso con le coperte. In quel momento non mi interessava. Volevo solo abbandonarmi al mondo dei sogni.

Il mio mondo preferito.

  
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