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Autore: Peppers    21/05/2013    1 recensioni
"Il Destino plasmò il mondo, poi creò gli Dei affinché popolassero la Terra. Dapprima vennero si destarono le Bestie, poi gli Elfi e i Nani, per ultimi gli Uomini, la giovane gente, ognuno secondo la propria provenienza"
(Incisione Elfica rinvenuta nel nord della Norvegia)
Un Europa nata dall'unione di storia, fantasia e mitologia fa da sfondo alle vicende narrate in questa collezione di one shots. Tante vicende sparse, come mille frammenti di luna, nello spazio e nel tempo.
I capricci degli Dei del pantheon greco-romano, elfico e nanico; la sopravvivenza di culti proibiti e misteriosi come l'adorazione di Bhaal a Cartagho; la guerra fra l'Impero Romano e le creature fantastiche; i meandri più tenebrosi delle caverne degli Elfi Oscuri; le foreste impenetrabili degli Elfi Silvani; le mirabili imprese degli Elfi del Crepuscolo; gli incanti del Palazzo di Ghiaccio dei Nani Nordici. Queste sono solo alcune dei temi della raccolta.
Ogni racconto, un volto. Ogni racconto, una storia. Ogni racconto un filo di un'intricata matassa. Ogni racconto una sfaccettatura di un poliedro fantastico che vi riserverà mille sorprese.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Soundtrack Consigliata : https://www.youtube.com/watch?v=P7Cd3C9qGJM


 

L’OLOCAUSTO DEGLI ANGELI
 

“Perché è venuto il gran giorno della loro ira,
e chi vi può resistere?”
Apocalisse di S. Giovanni  (6,17)

 
1. Il sole giaceva immobile, striando l’orizzonte col proprio sangue. La luna esultava, pronta a usurpare il trono dei cieli, sotto gli occhi attoniti delle stelle. Erano poche, e brillavano di una tenue luce violetta, ma presto altre sarebbero accorse, mutando la volta celeste in un prezioso diadema.
Indifferente a quel rito, Divodurum si affannava a raccogliere le ultime briciole della giornata. Per le strade della città romana la gente brulicava, accalcandosi fianco a fianco come un fiume in piena. Persino l’incedere ordinato di una schiera di soldati o il passo cigolante del carro di un nobile stentava a fendere quell’ingarbugliata matassa di toghe. Serrato nella ressa di corpi, un prete cristiano salmodiava con voce stridula; la folla non gli prestava attenzione, preferendo gli odori invitanti delle fumose tabernae ammassate sotto i portici che bordavano la via. Una dopo l’altra, tutte le terme della città sembravano esalare l’ultimo respiro: le fornaci stavano per spegnersi e i pennacchi di vapore risalivano sempre più esigui al cielo.
Ondeggiando sulle spalle di quattro servi numidi, una portantina vagava per Divodurum. Ne scese un vecchio raggrinzito, col naso ricurvo come un predatore rapace. Non aveva artigli, ma un’arma ben più pericolosa stretta sottobraccio: un contratto d’affitto. Due schiavi lo precedettero, aprendogli la via fino a una casa ordinaria, che non vantava il lusso sfolgorante delle domus patrizie, né la fatiscenza giganteggiante delle insulae plebee. L’uomo si avvicinò, sbirciò oltre una finestrella minuta che si apriva nel muro, poi percosse la porta col pesante batacchio.
«Papà, stanno bussando».
Vatinio Erucio si recò alla porta preceduto dal figlio. Quando vide il vecchio Polibio serrò il volto, reprimendo la stizza per quella visita poco gradita.
«Spero non ti abbia disturbato» esordì l’affittuario, sfoggiando un sorriso affilato quanto un coltello.
«Per niente, anche se ti aspettavo fra qualche giorno»
«Davvero?».
Polibio finse stupore, scostò l’inquilino ed entrò nella casa.
«Stupidi schiavi numidi» continuò, guardandosi attorno con malcelata attenzione «non riescono proprio a tenere il conto dei giorni del nostro calendario».
«Dovresti provare con qualche servo greco, allora»
Vatinio si morse le labbra. Odiava quell’omuncolo avvolto in sete profumate, eppure non poteva rischiare di contrariarlo. Almeno finché volesse assicurare un tetto dignitoso sulla testa della propria famiglia.
«Greci? Costano troppo e non sanno fare altro che ciarlare. La filosofia non riempie il borsello, mio caro, dovresti saperlo»
Non gli piacque il tono con cui il vecchio aveva chiuso la frase, né il modo con cui sembrava stesse scegliendo il prossimo gingillo da portarsi via in cambio dell’affitto. Che guardasse pure. Non avrebbe trovato nulla che fosse più prezioso di un vaso di terracotta, almeno da quella volta che si era appropriato del vassoio d’oro con le offerte ai Penati. Gli spiriti protettori della famiglia si erano adirati molto perché Vatinio avesse permesso quel vile saccheggio. L’avevano punito, ne era sicuro, rendendo aridi gli affari della bottega. Da allora, il romano aveva fatta sua l’abitudine di nascondere alla vista i beni preziosi della casa. Il risultato era un’abitazione scarna e smunta, simile a un cadavere beccato da un corvo. Il pavimento legnoso crepitava ad ogni passo, e l’unico braciere con cui la famiglia si scaldava e cucinava aveva annerito i muri da lungo tempo. Ciò di cui andava fiero era il tavolo. Privo di qualsiasi decorazione, certo, ma massiccio quanto lo scudo di un sassone. Quella robustezza, messa soltanto al servizio di un vaso di fiori, portava alla casa più un tocco d’ilarità che di colore.
Ma in fondo andava bene anche così.
Vatinio non era un uomo da lasciarsi sopraffare dallo squallore dei propri problemi. Aveva abbandonato l’esercito per mettere su famiglia. Aveva sposato Lavinia, una graziosa ragazza cristiana, poco prima di stabilirsi a Divodurum. Anche se gli ultimi dieci inverni lo avevano visto fornaio, i suoi muscoli erano rimasti quelli di un guerriero. E di un soldato conservava anche lo spirito indomito con cui fronteggiava ogni avversità. Sarebbe venuto a capo del dissesto economico già da tempo, se Polibio non lo avesse tormentato con i suoi periodici salassi.
Eccolo lì invece, il vecchio uccellaccio, chino a profondere carezze al piccolo Cornelio Erucio.
«Quali nuove da Roma?» chiese all’affittuario, sottraendogli dalle grinfie il proprio bambino.
Polibio inarcò un sopracciglio, come a valutare la sincerità dell’interesse celato nella domanda, poi rizzò la schiena come faceva ogni volta che si vantava dell’elevato rango dei propri contatti.
«L’Imperatore Teodosio sta dibattendo col Senato la possibilità di un nuovo attacco contro gli elfi».
«Elfi».
Vatinio soppesò ogni sfumatura di quella parola esotica.
La situazione al fronte doveva essere cambiata parecchio, dai tempi in cui le tribù germaniche bramavano le fertili terre dell’Impero con la stessa insistenza con cui Polibio sbavava su tutto ciò che potesse riflettere la sua faccia grinzosa.
«Cosa sono gli elfi, papà?» chiese dubbioso Cornelio.
Vatinio aggrottò la fronte. Come poteva dare una spiegazione di quelle misteriose genti dalle orecchie a punta? Non li aveva mai incontrati, e nessuno fra coloro che ne parlavano asserivano di averne visto uno. Per un po’ aveva creduto che fosse solo una trovata  dell’Imperatore, un trucco volto a giustificare l’ennesimo aumento delle tasse.
Le rughe sulla sua fronte si fecero ancora più profonde, la sua mente rifiutava quella spiegazione con la stessa velocità con cui l’aveva formulata. Non poteva essere una menzogna.
Le menzogne non uccidono. Gli elfi si.
Le città bruciavano, sotto il torchio di una guerra che stava insanguinando l’Europa. Per cosa? Il filo della matassa si era perso fra la Politica e la Religione. l’Imperatore raccontava di essere stato prigioniero di quella razza infima e spregevole. Vittima di una crudeltà raccapriccianti, una volta tornato libero aveva giurato sulla Croce stessa lo sterminio degli elfi.
La guerra era stata facile all’inizio.
Roma poteva contare su un gran numero di uomini, su una superiorità numerica schiacciante. Ma poi qualcuno aveva cambiato le carte in tavola. Una risposta, o forse un istinto di sopravivenza. Gli elfi erano sgusciati fuori dalla tane che li avevano nascosti da secoli, rispondendo con la violenza alla violenza. A sentire i racconti dei superstiti, fuggiti in tempo alla caduta di tante città di confine, i demoni si spostavano rapidi. Mordevano lì dove l’Impero era più scoperto: Le città di provincia. Vatinio aveva abbastanza esperienza sulle spalle per capire il loro gioco. Volevano logorare Roma, senza però tentare un attacco diretto alla Capitale. Se l’Impero era un gigante, quel Comandante uscito dall’Inferno puntava dritto ai piedi, facendo vacillare la base stessa del nemico.
«Allora, papà? Cosa sono?»
Per quanto il piccolo Cornelio lo incalzasse con le sue domande, Vatinio non si sentiva di parlargli degli orrori della guerra, né della paura verso quei nemici sconosciuti. Si sforzò in un sorriso e prese in braccio il figlio con fare protettivo.
«Sono dei mostri cattivi con cui i genitori spaventano i figli che non ubbidiscono. Un po’ come le arpie e le chimere»
«Ma Raulio, il figlio del falegname, dice di aver visto una chimera»
«Era solo un grosso cane, Cornelio, forse un lupo sceso dai monti a caccia di montoni»
«Dovresti insegnargli come gira il mondo, se vuoi che diventi un uomo» sussurrò Polibio, il cui timore degli elfi fece abbandonare per un attimo quella sua aria d’aguzzino.
«Non voglio che la notte non riesca a dormire»
Nella voce di Vatinio, una nota di preoccupazione. Stava ammettendo che egli stesso passava notti inquiete? Era così, e non badò a nasconderlo in presenza di quel vecchio avvoltoio. Gli bastò un’occhiata al fondo degli occhi castani di Polibio, solitamente così luminosi, per capire che non c’era uomo sotto la bandiera di Roma che non temesse i nemici dell’Aquila.
«Va a chiamare tua madre, Cornelio. Dille di portare i soldi»
Il bambino era appena sparito oltre l’arcata che dava nella stanza interna, che Vatinio tornò a fissare quel volto dai tipici tratti latini.
«Questo è l’ultimo mese, Polibio»
Il vecchio patrizio dilatò le narici in un’espressione di indignazione.
«Stai lasciando casa? Ma il contratto non è terminato»
«Voglio trasferirmi in Italia, la Germania non è più sicura»
«Mi pagherai fino all’ultimo asse, Vatinio, o giuro che ti farò inseguire dagli avvocati ovunque ...»
Il romano non riuscì a trattenere un moto d’ira. Quel suo pensare sempre ai soldi anche se c’era di mezzo qualcosa di più grande! Agì di impulso, col viso arrossato dalla collera. Avvinghiò il nobile per l’orlo della toga e lo batté al muro.
«Le città stanno cadendo una dopo l’altra! Sarà questione di tempo, Polibio, non capisci?»
Il vecchio aprì la bocca per parlare, ma non emise alcun suono. Scoccò un occhiata alle dita di Vatinio, ancora strette nella seta, poi si divincolò.
«Ho già parlato al Legato Imperiale» asserì con calma, mentre si sistemava la toga sgualcita. «Penso di riuscire ad assicurare un buona scorta di legionari alla città. Se quelle fiere pagane oseranno calcare le nostre mura, assaggeranno l’acciaio di Roma»
«I soldati su cui puoi contare sono sufficienti per proteggere l’intera città?»
Polibio guardò Vatinio come chi avesse fatto una domanda sciocca.
«Certo che no. Non sono mica un Senatore, sai»
Vatinio chiuse gli occhi. Una parte di sé non voleva abbassarsi a invocare l’aiuto di quel vecchio avido, ma l’altra parte sapeva che, se c’era qualcuno che poteva far qualcosa a Divodurum, era proprio lui. Rimuginò in silenzio. Pensò a Lavinia e Cornelio finché, vinto il proprio orgoglio, si decise a parlare.
«C’è qualche possibilità di ...»
«Mi dispiace, Vatinio».
La risposta arrivò, secca e imbarazzata, ancor prima che la domanda fosse completa.
«Capisco».
Sebbene non avesse mai contato sull’aiuto del vecchio, l’amarezza gli tolse le parole di bocca. L’evidenza di una città che ruotava soltanto attorno al potere e al denaro, una città fatta d’oro ma costruita sulla spiaggia di un oceano in tempesta, gli spense ogni moto di ribellione.
«È per questo che voglio andare in Italia. Non posso accettare che la mia famiglia sia ogni giorno a rischio».
Quando Lavinia tornò, recando con sé un sacchetto pieno di monete, fra i due uomini regnava un silenzio nervoso. Un’occhiata al marito e una a Polibio, e il volto della donna lasciò intendere di aver capito ciò che era successo. Non disse una parola, ma accennò solo un sorriso stanco, poi porse l’oro a Vatinio.
«Spero per voi che è quanto mi è dovuto» bofonchiò Polibio, versando il contenuto della sacca sul tavolo. I denari scintillavano all’ultimo sole della giornata quando giunse, sulle ali del vento, il suono di un corno.
Una nota profonda e tetra.
Vatinio rabbrividì, si avvicinò alla finestrella che dava sulla via della città e guardò fuori. Lavinia gli venne accanto e gli strinse il braccio.
Cornelio si mise in punta di piedi a osservare meglio le monete che Polibio stava contando.
«Sta fermo, ragazzino» sbraitò il vecchio, allontanandolo da sé.
Un secondo suono di corno.
Vatinio osservò la gente per strada che si dimenava come un gregge umano, cercando affannosamente di raggiungere i portici.
«Cosa sta succedendo?» proruppe Lavinia, con il respiro affannato.
«Sarà arrivato qualche senatore» le rispose Polibio, ancora chino sul denaro, liquidando l’intera faccenda con uno sbrigativo gesto della mano.
Poi una terza lugubre nota.
La gente ora per strada correva per ogni dove. I visi terrei si schiudevano in grida di panico, i corpi si spingevano per guadagnare un po’ di spazio. Tutto divenne frenetico come se, di colpo, la notte fosse scesa più velocemente a strappare via il tempo agli uomini. Chi aveva con sé un otre di vino, lo abbandonò sul ciglio della strada per correre più velocemente. I bambini furono presi in braccio. Molti bussavano ad ogni porta in cerca di rifugio. A far da cornice a quel fanfara caotica, l’abbaiare rabbioso e scomposto dei cani.
 Lavinia, atterrita e con gli occhi sbarrati, scosse per il braccio il marito.
«Sta succedendo qualcosa!»
Vatinio non riusciva a credere ai suoi occhi. Le sue paure presero forma in una parola, udita a stento nel disordine della città.
«Elfi»
«Ma gli elfi non esistono, papà»
«Elfi?!» ribatté Lavinia, col cuore in gola.
Polibio spinse le monete nella propria sacca, senza curarsi di quelle che, nella fretta, erano cadute fra le assi del pavimento. Vatinio lo vide dileguarsi verso l’uscita in un batter d’occhio. Avrebbe voluto chiamarlo e dirgli di rimanere al sicuro lì in casa ma, prima che riprendesse il controllo di sé, il vecchio aveva già fatto ritorno alla propria portantina e intimava ordini agli schiavi numidi. Rimase attonito a fissare la folla sparire dalle strade, inghiottita da fiotti di panico e paura, poi si riscosse.
«Presto» intimò al resto della famiglia. «Giù nella botola!»
«Quale botola, papà?»
Cornelio. Non poteva certo sapere che, ormai da mesi, Vatinio lavorava ogni notte per costruire un piccolo antro sottoterra, un piccolo rifugio sicuro al riparo dai pericoli.
Non era tempo di spiegazioni.
Scostò il grande tavolo d’ebano e si chinò. I muscoli si tesero, nello sforzo di aprire quel portello grande appena a lasciar passare una persona. Lavinia trascinò con sé il bambino giù per le scale di legno scricchiolanti che sparivano nell’oscurità. Non aveva ancora fatto dieci passi che si volse verso il marito.
«Perché indugi ancora?»
«Voglio vedere gli elfi»
«Non essere sciocco, Vatinio. Vieni con noi»
«Solo un’occhiata, poi scendo anch’io»
Il desiderio che lo spingeva verso l’ignoto gli animava il petto con una forza prepotente. Sentiva l’istinto di sbirciare oltre quell’uscio spalancato, il bisogno di dare un volto a quelle creature, assicurarsi che fossero fatte di carne.
Fece un passo sulla strada.
Ormai non rimanevano che pochi vagabondi, gente che il terrore aveva ridotto a pallidi spettri. In fondo alla via, i soldati si allineavano in formazione: i gladi stretti nel pugno, i grandi scudi pronti a erigere un muro fra Divodurum e quei demoni venuti dall’Inferno. Nonostante le urla imperiose con cui i centurioni dispensavano gli ordini, avvertiva distinto i colpi inferti contro le porte della città. Tuoni, di una tempesta che si stava per abbattere sulla città nonostante il cielo terso.
Sordo ai richiami della moglie, attese, inerme di fronte alla sciagura, finché una breccia squarciò le mura. Possibile che tutto si stesse svolgendo così in fretta? Guardò in alto il mite luccichio delle stelle. Il tempo sembrava essersi alterato sulla soglia fra la vita e la morte. Le paure affrettavano il susseguirsi dei secondi, per poi rallentarlo, racchiudendo un respiro in un attimo infinito. Vatinio osservava l’inizio della battaglia per Divodurum avvolto in una cappa di silenzio. Né il frastuono dell’acciaio né gli urli di guerra riuscivano a raggiungerlo. Stava immobile, e non trattenne più le lacrime. Pianse sul ciglio di casa, per la fine del mondo che aveva conosciuto. Qualsiasi fosse stata l’esito di quella battaglia, il suo piccolo universo sarebbe mutato per sempre.
Adesso li aveva visti, gli elfi: figure snelle, coperte da armature metalliche. Brandivano spade, archi e lance dietro quei loro strani occhi luminosi. Luminosi? Si, luccicavano. Non capiva se per l’ebbrezza della battaglia o per la loro intima natura. Piegò la testa di lato. In fondo, con gli elmi a coprirne le proverbiali orecchie a punta, non sembravano poi così diversi dagli uomini. Riusciva a scorgere il loro vessillo. Sventolava oscuro e carico di sinistri presagi dall’alto di una lunga picca. Era un sole. Un sole sceso oltre il fondo di una valle, un’alba capovolta: il Crepuscolo.
Per un po’ seguì attento l’andamento della battaglia. Dalla breccia gli elfi si riversarono nella città, abbattendosi sulla testuggine romana come un pesante maglio brandito da una mano invisibile. Gli schieramenti ondeggiavano, guadagnavano terreno, ora lo perdevano, in un susseguirsi terribile di fendenti e affondi. Vatinio li spiava da lontano e non si mosse finché non vide ciò che lo spingeva a ignorare le urla di Lavinia e il pianto di Cornelio.
Gli elfi sanguinavano.
Morivano, come gli uomini. Chiuse gli occhi e ringraziò gli Dei. Non erano spiriti. Quella certezza sembrò rinvigorirlo. Un’ondata di rinnovata energia gli risalì lungo la schiena, provocandogli i brividi. Gli istinti di guerriero, mai assopiti nel suo animo, reclamavano la battaglia. Avrebbe voluto trovarsi lì, alle porte di Divodurum, fianco a fianco ai suoi fratelli di lama. Avrebbe voluto essere lì, a urlare con orgoglio il nome di Roma, ma bastò un’occhiata alle sue spalle per ricordargli che il suo posto era altrove.
Doveva difendere la sua famiglia, prima di ogni altra cosa. Tornò in un balzo a casa. Si recò nella stanza più interna, indossò un corazza di cuoio e si affibbiò il cinturone con la propria spada. Afferrò anche un pugnale e fece ritorno nell’atrio della casa. Si inchinò al cospetto dei Penati, rivolgendo loro delle preghiere affinché proteggessero il focolare domestico. Chiuse la porta, serrandola con un chiavistello, poi scese nella botola. Richiuse l’ingresso, celandolo alla vista di chiunque avesse fatto irruzione. Baciò la moglie e abbracciò il figlio.
«Ce la faremo» sussurrò. Il suo spirito non si rassegnava alla resa. Tutte le città di confine battevano adesso il vessillo degli Elfi. Forse anche Divodurum sarebbe caduta. Sotto l’ombra di quella minaccia Vatinio si sentiva come un animale ingabbiato, diviso fra paure e speranze.
Il giorno era fuggito via oltre le Colonne d’Ercole, impaurito al cospetto degli Elfi del Crepuscolo. La terra aveva accolto il cadavere del sole, primo caduto della battaglia. La notte era sorta, benedicendo con la sua pallida luce quell’orda affamata di distruzione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 “Se guardi nel buio a lungo, c'è sempre qualcosa”
                                                                      William Butler Yeats

 
 
 
2. «Perché non accendiamo una lucerna, papà?»
Cornelio non riusciva più a tollerare quell’oscurità imperscrutabile. La risposta dei genitori era stata sempre la stessa da quando si erano ritirati in quell’antro buio e umido.
«Shhhhh»
La braccia di Lavinia lo abbracciavano forte. Stretto al suo grembo, riusciva a sentire il cuore della madre. Stranamente, quel suono sempre così familiare, non faceva altro che acuire la sua inquietudine. Batteva troppo forte e troppo veloce. Rannicchiato accanto, scorgeva appena la sagoma massiccia di Vatinio. Respirava in modo regolare, chiuso in un silenzio meditabondo, ma il modo in cui lasciava scorrere le dita sul coltello tradiva la sua impazienza.
Cosa stava succedendo? Cornelio non capiva. Cos’era quel chiasso che arrivava dalla strada? Sopra la sua testa giungevano, attutite dalle mura e dal pavimento legnoso, urla di uomini, clangore di armi. Sobbalzò, e la madre lo strinse ancor più forte. Non era forse il ruggito di una bestia? Deglutì e stropicciò gli occhi, che bruciavano a causa del buio e dell’umidità. Non era il normale abbaiare dei cani di strada, indispettiti dal passaggio delle processioni cristiane. Non era nemmeno il ringhiare cupo e sommesso dei lupi delle colline. La sua mente infantile volò a Raulio, il figlio del falegname. Una chimera? Gli elfi esistevano davvero, dunque? E calcavano le chimere. L’associazione giunse istintiva, propinata da quel buio afoso attraverso cui i rumori assumevano le sfumature di un incubo a occhi aperti.
Cornelio rabbrividì, poi tirò su col naso. Quasi sobbalzò quando Vatinio gli sfiorò la guancia in una carezza delicata. Aveva sempre amato immaginarsi un soldato in un futuro lontano, quando sarebbe stato alto quanto papà. Ma ora che la guerra infuriava a pochi metri dalla sua testa, stava ritrattando quella decisione. Forse era meglio la professione del fornaio. Cucinare il pane non fa morire la gente, pensò. Certo, ogni tanto una manovra incauta poteva fare bruciare l’intera bottega. E l’incendio poteva estendersi alle insulae vicine, ma erano dei casi rari. Cornelio non aveva mai sentito di fornai che erano morti. Chissà come appariva all’Imperatore Nerone Roma quando bruciava. Forse anche lui aveva avuto la stessa paura che Cornelio avvertiva strisciare sulla sua pelle. Non riuscì a immaginarsi un Imperatore che si nascondeva nella botola. La sua mente stentava ad accettare quel riparo stentato, scavato nella roccia su cui sorgeva la casa. C’era qualcosa di sbagliato in tutto ciò, una deviazione troppo brusca dalla mite routine della vita.
Strabuzzò gli occhi, sforzandosi di mettere a fuoco un piccola macchia scura poco distante dai suoi piedi. Allungò il braccio e raccolse l’oggetto. Un piccolo disco metallico, certamente una delle monete sfuggite a Polibio. Chissà dov’era il vecchio nobile adesso. Anche lui aveva una botola sotto casa? No, quell’uomo rugoso aveva tanti soldi. Cornelio era certo che la botola di Polibio era ben più ampia e illuminata, comoda e lussuosa quanto la domus dell’Imperatore Nerone.
La sua mente vagava inquieta. Inseguiva i pensieri uno dopo l’altro senza una meta precisa. Il suo corpo tremava, intirizzito. Quanto tempo era passato? Non riusciva a capirlo. Le urla, così uguali fra di loro, non gli permettevano di apprezzare l’evolversi della notte. Forse il sole era alto, o forse c’era ancora la luna. Ebbe l’impressione di addormentarsi. E il cuore martellante di Lavinia popolò i suoi sogni di elfi brutti e cattivi che mangiavano i bambini dall’alto di chimere feroci. Si svegliò di soprassalto e urlò.
«Va tutto bene, piccolo mio» gemette la madre.
Cornelio provò l’impulso di piangere. Perché se andava tutto bene, Lavinia stava singhiozzando? Qualcosa al suo fianco spezzò la monotona immobilità che lo aveva inghiottito. Vatinio si mosse, strisciando sulla roccia. Fece solo qualche passo e si levò in piedi, la spada in una mano, il coltello nell’altra. Tese l’orecchio verso il pavimento, a una spanna dalla sua testa.
Il tonfo della porta sfondata.
Cornelio sgranò gli occhi. Qualcuno era entrato in casa. Voleva urlare, ma Lavinia gli tappò la bocca. Sentì la madre che si rannicchiava ancor più a fondo nell’angolo buio. Per un attimo ebbe paura che, se si fosse stretta ancora un po’ alla parete, sarebbe riuscita a entrare nella pietra. Sarebbe stata una bella protezione, certo, ma poi come sarebbero usciti? Pensieri febbrili allucinavano i suoi occhi e annodavano la sua gola, mentre osservava il padre immobile nell’oscurità.
Rumore di passi.
Qualcosa stava passando sulle loro teste. Qualcosa, perché non poteva essere un uomo. Gli uomini bussano prima di entrare nelle case, non sfondano le porte. Solo una volta Cornelio aveva aperto la porta con un calcio, era stato un pomeriggio in cui aveva litigato con Raulio, e Vatinio lo aveva rimproverato duramente. Chissà se ora il padre avrebbe rimproverato anche gli elfi. Di certo era molto arrabbiato, perché tremava. Tremava anche la mamma, ma lei non era arrabbiata. Aveva solo paura, Cornelio lo sentiva in quella comunione di corpo e anima con cui era legato a Lavinia. Aveva tanta paura. Anche lui aveva tanta paura. Era per questo che continuava a pensare senza sosta. Perché se smetteva di inseguire i pensieri, sentiva lo stomaco annodarsi e la tunica bagnarsi.
L’elfo annusava l’aria, i suoi passi lenti incrinavano le assi.
Cornelio udì il rumore del vaso che si rompeva e si sentì triste. Mamma amava quei fiori. Ogni giorno, dopo le lodi del mattino, innaffiava quei germogli con la stessa cura amorevole con cui la sera lo infilava nella tinozza per il bagno. Qualcuno aveva rotto il vaso. Qualche briciola di terra cadde dalle assi del pavimento. I fiori sarebbero morti se qualcuno non li avesse messo in nuovo vaso. Cornelio dubitava che l’elfo si sarebbe preso la briga di salvare quelle piccole piantine. In fondo aveva rotto la porta, no? Quindi era una persona cattiva. No, un elfo non era un persona. Corresse il pensiero, poi udì Lavinia che strozzava il proprio pianto. La mamma era triste perché gli elfi avevano rotto il vaso con i fiori. Cornelio si strinse alla madre e pianse, affondando la testa nella sua tunica.
L’elfo si chinò e graffiò il pavimento con le unghie. Quando si rialzò, il legno scricchiolò ancora una volta.
Poi tutto piombò nel silenzio.
Se ne era forse andato? No, non poteva essersene andato via. Cornelio sapeva che avrebbe dovuto sentire rumori di passi verso la porta. Gli elfi sapevano volare? Quel pensiero gli mise ancora più paura. Se avessero preso la mamma e l’avrebbero portato via? Papà non sapeva volare, come avrebbe potuto inseguirli? Stava ancora cercando una soluzione a quell’annoso problema, quando le assi del pavimento cedettero, con un forte schianto. Dall’alto piombo una figura scura, a pochi passi da Vatinio.
Cornelio urlò.
Il riflesso dei fuochi nella strada si unì al turbinare della polvere, avvolgendo quel guerriero in un alone spettrale. La sua armatura di metallo era chiaramente distinguibile con contorni terrificanti. Teneva alta la lancia contro Vatinio.
«Aule ya rahmaa!»
Cornelio si sentì soffocare, come se il suo corpo si rifiutasse di respirare. La paura per quelle parole incomprensibili lo faceva tremare, pallido e sudato.
Quando l’elfo accennò un passo, Vatinio gli si avventò contro. Colpì con un affondo ma l’elfo si spostò lateralmente evitando il corpo. Si muoveva con un’agilità sorprendente. Aveva addosso una’armatura pesante abbastanza da impacciare il movimento di qualsiasi soldato romano, eppure schivava ogni colpo del guerriero romano.
«No, vi prego!» balbettò Lavinia, stringendo il figlio al petto. Ma nessuno dei due combattenti le prestò ascolto; né badavano alle urla che si mescolavano al crepitare delle fiamme per tutta Divodurum. L’elfo fece roteare la lancia, descrivendo un ampio cerchio, ma Vatinio si ritrasse, lasciando che l’arma avversaria scheggiasse la roccia. Il romano si chinò in avanti, ansimante. Lanciò il coltello, colpendo l’elfo alla spalla. Non appena il nemico si piegò, colto alla sprovvista da quella mossa avventata, si scagliò in avanti brandendo la spada con entrambe le mani. Si esibì in un fendente micidiale. L’elfo fece scattare il braccio destro verso l’esterno, deviando il colpo con la picca; lasciò andare l’arma e si avvinghiò alle braccia di Vatinio. Di certo non sospettava la forza che il romano aveva in corpo, perché il viso si contrasse in un ringhio feroce. Con malcelata difficoltà spostò verso il basso le mani del romano, ancora stretta alla spada.
Uno schiaffo, e Vatinio barcollò.
Un pugno allo stomaco, e Vatinio sputò un grumo di sangue.
Un calcio, e Vatinio stramazzò al suolo.
Le sue dita brancolavano nell’oscurità per recuperare l’arma, ma l’elfo si premurò di allontanarla con la punta dello stivale.
Quando il mostro alzò la lancia, Cornelio vide tutto farsi buio. Sentì che la madre gli coprì gli occhi, che urlava, straziata da orrori innominabili. Sentiva che la madre si accasciava sul suo piccolo corpo e piangeva. Sentiva l’aria ammorbarsi con il caldo odore di sangue. Sentì i passi dell’elfo rimbombargli nelle orecchie e nella mente. Sentì che afferrava Lavinia per un braccio, che la portava via. Cornelio strinse la mano della madre. Incespicò sui gradini di legno, incapace a reggere l’andatura della creatura. Poi si voltò e guardò in basso, in quel buco nel terreno.
«Papà!» urlò con tutte le forze che aveva in corpo. «Papà, ci stanno portando via!».
Urlava e piangeva, scosso da una paura primordiale.
Perché suo padre non stava fermando l’elfo? Perché si limitava a fissarlo con gli occhi spenti e le labbra tumefatte? Perché la sua corazza era striata di sangue?
Cornelio urlava e invocava il padre, ma, sordo ad ogni richiamo, Vatinio rimase immobile, riverso sulla roccia.
   
 
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