Cara Amantha, grazie della tua recensione. E' una cortesia che apprezzo
sempre moltissimo.
Cara Melisanna, conto sempre su di te. Sto cercando di costruire pian piano le premesse per chiarire i rapporti e le capacità dei personaggi prima di un qualcosa che avverrà tra qualche capitolo. Probabilmente tu immagini già cosa... Ti rinnovo i complimenti per l'ultima puntata di Terra Magica. Se ti serve un beta, sai che puoi contarci. Ciao Giuly, è vero, anche io ho avuto qualche scrupolo per il povero custode. Quanto alle Witch originali, torneranno in scena tra qualche capitolo, quando la situazione cambierà molto. A dire il vero, a me piace di più scrivere delle gocce. Cara Eleuthera, grazie per la tua bella recensione. Ammiro la tua attenzione e la tua abilità nel mettere in evidenza alcuni aspetti di questa storia che quasi sfuggivano anche a me. A proposito di Vera, è vero (....) che farà alcuni scivoloni. Il ruolo futuro di Wanda è quello del "falco" del gruppo, in contrapposizione, come si comincia a vedere già da questo capitolo, a Carol. Approfitto per ringraziare ancora kb_master, che mi sta dando molti suggerimenti importanti, soprattutto a livello di soggetto di parecchi capitoli. Come al solito, c' è la possibilità di discutere più
in dettaglio al http://freeforumzone.leonardo.it/viewmessaggi.aspx?f=4642&idd=8397&p=3.
In questo capitolo, si ripresenta l'incubo di una minaccia passata e forse solo immaginaria; la tensione porterà a commettere degli errori di valutazione che daranno inizio ad una polarizzazione del gruppo che si trascinerà fin quasi alla fine della storia. All'inizio si può riconoscere una trasposizione onirica del rapimento della goccia di Will in WITCH n. 32- il gioco delle parti. |
PROFEZIE
Riassunto delle puntate precedenti
Di nascosto dalle WITCH, Elyon affida a Vera, una copia di sè stessa che appare come una ragazza più grande, l'incarico di rintracciare le gocce astrali, le sosia create dalle guardiane, e ribellatesi ad esse più di un anno prima . Elyon e Vera si presentano alle ragazze, rintracciate a Midgale. Assomigliano ancora alle originali, ma appaiono più belle e cresciute, sui vent'anni. Nel povero appartamento, raccontano di essere state mantenute dalla Fondazione Astro Nascente fino a pochi mesi prima, quando sono state improvvisamente scaricate. Da allora hanno vissuto alla giornata. La goccia di Cornelia si chiama Carol. Quella di Irma, Irene. Quella di Hay Lin, Pao Chai. Quella di Taranee, Terry. Quella di Will, Wanda. Elyon propone alle gocce di collaborare con Vera a raccogliere informazioni tecnologiche per modernizzare Meridian. Vera dimostra subito di essere in grado di materializzare documenti e denaro falsi, ma perfetti. Le gocce sono entusiaste di lei, tranne Carol, che ne è gelosa e vorrebbe riprendere i contatti direttamente con Elyon. Le gocce si trasferiscono, con Vera, in due eleganti appartamenti contigui. Come copertura, fingeranno di essere delle studentesse universitarie; ognuna riceve una lista di argomenti e l'incarico di individuare degli esperti su ciascuno. Per fare fronte a futuri incarichi e imprevisti, Elyon e Vera decidono di addestrare le gocce ai poteri mentali, quali la lettura e trasmissione del pensiero, lo sguardo del comando e la telecinesi. In alcune occasioni, le ragazze commettono goffaggini che attirano l'attenzione della polizia e perfino dei giornali. |
Cap. 24
Tabula rasa
Deve essere una festa di gala. Saloni sontuosi ornati da colonne di
marmo e tappeti rossi, grandi specchi con le cornici dorate. Uomini e donne
eleganti che la ignorano, e tra cui si sente a disagio.
D’improvviso un pensiero le risuona in testa : ‘Tocca a te!’.
Inizia a correre, senza sapere dove, senza sapere perché.
La fuga dura pochi passi. “Ferma, piccola…”. Due occhi scuri,
intensi, prendono il posto di tutto il mondo. Sente il cuore che rallenta,
ogni sua volontà cessa di esistere, mentre un velo di apatia avvolge
ogni cosa. Come un sogno in un sogno, un’autorimessa prende il posto dei
saloni eleganti.
Un rumore ritmico si avvicina dall’alto. Un vento innaturale la costringe
a socchiudere le palpebre, attraverso le quali vede una figura sfocata,
simile ad un coccodrillo, scendere dall’alto nel piazzale.
“Ed ora chiudi gli occhi, piccola!”. Sente il suo corpo afflosciarsi.
Le grida, i rumori e le accelerazioni che sente perdono per lei ogni significato.
Un grido … un grido ripetuto, da lontano, tenta di sovrastare il sibilo
ed il rombo che coprono ogni altra parola: “Wiiillll!”.
Ma io non mi chiamo Will!
Gli occhi di Vera si aprono sul buio della sua camera. E’ stato solo
un sogno, un sogno orribile. Non è stato il primo, questa notte.
Il sonno, questa notte, non le è amico. Meglio alzarsi, fare
qualunque cosa che allontani quegli incubi.
Si alza barcollando, e si dirige verso i tendoni serrati. Li scosta,
ed apre la finestra, sentendo il piacere di un refolo fresco sul viso ed
il collo sudati.
Al di fuori c’è un cielo nitido e senza luna. Se fossero in
un deserto, sarebbe una nottata ideale per guardare le stelle. Invece si
vedono solo quelle più luminose, lontane dall’orizzonte delle luci
cittadine.
Non ha mai alzato gli occhi al di sopra di Meridian, eppure ne ricorda
le costellazioni una per una. Le cerca per un po’, senza trovarle. Non
c’è nessuna rassomiglianza tra il cielo del metamondo e quello sopra
Midgale.
Sente la sua bocca impastata, e la gola che rivendica un po’ di acqua
fresca.
Esce piano nel corridoio, scalza, cercando di non fare rumore. Un fruscio
sulla sua destra la fa trasalire. C’è qualcun altro nell’oscurità.
‘Wanda!’, le comunica con il pensiero. Se Carol sta dormendo,
dovranno rispettare il suo sonno.
‘Vera? Anche tu sveglia?’
‘Ho fatto un sogno orribile’.
‘Vieni in cucina’.
Click!
La luce abbagliante della cucina costringe Vera a strizzare le palpebre.
Quando le riapre, Wanda è davanti a lei, schiena alla credenza.
Si guardano negli occhi per un attimo, e capisce. “Era il tuo sogno!”.
Wanda abbassa gli occhi. “Sì, ma non era solo questo. E’ il
ricordo che mi resta di quando sono stata rapita dai servizi segreti al
posto di Will”. Si volta verso lo scolapiatti, a cercare un pentolino da
mettere sui fornelli. “Credevo di avere lasciato indietro questo incubo
da molto, ma, con quello che è successo ieri, ho ricominciato a
preoccuparmi”.
Vera si siede. Non sente più il freddo ai piedi scalzi. Gli
accenni fatti da Wanda il giorno prima non la avevano impressionata molto,
ma ora deve sapere. “Raccontami tutto”.
“Stavano cercando persone dotate di facoltà extrasensoriali
per i loro fini. Il loro uomo di punta si chiamava Ridde, quello del sogno.
Aveva facoltà spaventose: controllo mentale, telecinesi e chissà
che altro”. Accende il fuoco sotto il pentolino d’acqua. “Quello che hai
visto tu è stato solo l’inizio. Il seguito è stato peggio:
bloccata su un lettino, mani e piedi imprigionati, elettrodi su tutto il
corpo, rumori innaturali trasmessi da cuffie, impulsi elettrici che mi
attraversavano la testa…”.
“Orribile”, esala Vera.
“Non trovarono niente. La mia capacità telepatica si è
sviluppata solo dopo”. Guarda l’orologio sulla parete. Le tre e mezza.
“A distanza di un anno e mezzo, mi chiedo ancora se mi avrebbero rilasciata,
senza l’intervento dell’oracolo. Qualche volta, essere un testimone scomodo
non garantisce una vita lunga”.
“…”.
“La vera Will Vandom era già tornata a casa. Nessun genitore
avrebbe segnalato la mia scomparsa. Nessuno mi avrebbe mai cercata. Will,
al bisogno, avrebbe creato una nuova goccia”.
“Wanda…”.
“Se succedesse di nuovo, questa volta avrebbero belle prede tra le
mani. Non ci rilascerebbero più. Oh, certo, non ci ucciderebbero.
Ci terrebbero come cavie, o come medium…”.
Vera stringe i denti con rabbia. “Se solo ci provassero, gli friggerei
il cervello!”.
“Ma Riddle…”.
“Basta, non nominarlo più. Non pensarlo nemmeno. Non tenterò
di individuarlo. Se è un sensitivo, può essere controproducente”.
L’acqua nel pentolino richiama ribollendo la loro attenzione.
Wanda prende una scatoletta gialla dalla credenza. “Vuoi una camomilla
anche tu?”.
“Grazie, sì”.
“Così dormirai un po’”.
Il viso di Vera si deforma in una smorfia. “Dormire…”.
Mattina, 8.45’
Irene esita davanti alla porta chiusa. E’ la prima volta che Vera non
si presenta a colazione.
Wanda la raggiunge e le sussurra: “Lasciala dormire ancora un po’.
Questa notte si è svegliata”.
Irene le pone una mano sulla bocca, poi accosta l’orecchio alla porta
per ascoltare.
….. Sembra la ventola del computer.
“Entrate pure”. La voce di Vera attraversa attutita la porta.
Irene entra nella stanza. “Allora sei sveglia! E la colazione?”. Osserva
Vera seduta alla scrivania davanti ad un notes scarabocchiato. La luce
azzurrina dello schermo e quella dorata dell’abatjour si riflettono sul
suo viso quasi ipnotizzato. Occhiaie gonfie, testa ciondolante. “Hai lavorato
di notte, o navigato per siti piccanti?”.
Vera risponde con un grugnito di diniego.
Entra anche Wanda. “Ma sei sveglia da quella volta?”.
“Sì. Ho buttato giù qualcosa sulla carta”. Vera cerca
di mettere a fuoco il foglio scritto da lei stessa. Perché fa così
fatica? Possibile che abbia già bisogno di occhiali, alla verde
età di… di… tre mesi?
“Questa mattina dovevi insegnarci le trasformazioni corporee. Te la
senti?”.
Vera guarda l’orologio, poi il notes. Gonfia una guancia. “Scusate.
Non me la sento”. Vede l’espressione delusa di Wanda. “Prendetevi la mattina
libera, vi dirò qualcosa a pranzo”.
Wanda si avvicina e scruta lo schermo. “Notizie di attualità…
servizi segreti… Patrioctic Act…Ma cosa cercavi?”.
Vera scrolla le spalle. “Questo paese è cambiato moltissimo
in meno di tre anni. Ho iniziato a sospettarlo ieri, leggendo quel quotidiano,
e me ne sto convincendo sempre più”. Batte le unghie sullo schermo.
“Se mi fossi aggiornata, il tuo racconto di stanotte mi avrebbe sorpreso
di meno”.
Anche Irene si abbassa a guardare lo schermo. “Embè? Tu non
ti chiami mica Bin Laden”.
Per un attimo Vera non sa cosa rispondere, poi ci rinuncia. “Irene,
la tua mattina libera è già iniziata. Non sprecarla!”. Guarda
Wanda che sta leggendo il notes scribacchiato. “Anche tu…”.
“Aspetta, aspetta”, la interrompe lei. “Io ho pensato a lungo a queste
cose. Avrei potuto esserti molto più utile di queste boiate”. Indica
con disprezzo le finestrelle sovrapposte sullo schermo.
“Davvero?”. L’interesse si riaccende negli occhi assonnati di Vera.
Irene inizia a sentirsi esclusa. Le sue idee su cosa dà il sale alla vita sono ben diverse da quelle di Wanda. “Ciao, ragazze. Vi lascio cospirare da sole. Vera, di là c’è ancora il tuo caffelatte che piange abbandonato”. Saluta con la mano, dirigendosi a passi lunghi alla cucina per dare la lieta novella alle altre.
Wanda va verso la porta. “Vado a prendere i miei appunti”.
“Sono questi?”. Vera indica un notes sgualcito sulla scrivania, che
Wanda non aveva notato prima.
L’altra è interdetta. “Come….”.
Sorride compiaciuta. “Ho ancora qualche trucchetto da insegnarvi”.
Chiude gli occhi e cita, come leggendo: “Uno: mai usare l’aspetto vero
per una operazione clandestina, neanche se ci si è rese invisibili”.
Riapre gli occhi. “Giusto, Wanda, così possiamo ingannare anche
le telecamere”.
“Tu non hai bisogno di occhiali!”. Wanda le prende seccata il notes,
e lo apre alla pagina giusta.
Riprende: “Due: prima di un’azione, concordare con le compagne una scusa
plausibile nel caso che si sia scoperte, e non cambiare mai versione”.
Vera ci pensa un attimo “Tipo: ‘mi è scappato il micino nell’officina,
lo ha visto?’”. Ridacchia. “Ed una delle altre si trasforma in un gatto
e miagola?”.
La porta si apre. “Miaooo”. Irene si affaccia con un largo sorriso
felino. “Io, Pao e Terry andiamo a fare shopping. Ciao ciao. Anzi, miao
miao”.
“Cave canem”, le rimanda Vera. Poi si accorge che l’altra è
rimasta perplessa sulla porta. “Vuol dire: attenti al cane”.
Irene alza un sopracciglio. “Se vuoi parlare in cinese, ti mando Pao.
Ora devo andare. Au revoir!”.
“Tre”, riprende Wanda seria. “Mai ammettere un’accusa, neppure per discolparsi
da un’altra accusa più grave”. Alza un sopracciglio “E’ un tipico
trucco della polizia. Un’accusa falsa, più grave…”.
Vera tamburella. “Tipo: ‘sì, sono entrata nell’officina, ma
non ho rubato il tornio’”.
“Quattro: mai parlare dei poteri magici, ammetterli o dimostrarli”.
Vera assente. “Cose come la creazione del denaro falso sono possibili
solo con i poteri. Se la gente non crede in questi, le accuse cadono”.
Wanda la guarda, grave. “Ogni cosa che convinca gli altri dell’esistenza
di questi poteri è una minaccia”.
Vera tamburella ancora. “Bisognerà dire due paroline a Elyon.
Si diverte troppo a stupire la gente”.
“Cinque: prima di dislocarsi, trasformarsi o rendersi invisibili bisogna
accertarsi di essere già fuori vista, per non rivelare questa capacità”.
Vera ci pensa un attimo. “E’ difficile sapere se ci sarà qualcuno
vicino a dove ci trasferiamo”. Ennesimo tamburellìo. “L’unico modo
abbastanza sicuro è rendersi invisibili prima di dislocarsi”.
“Sei: non portare con sé in azione documenti, spille, armi o
qualunque cosa che possa essere un indizio per un investigatore”.
“Questo dovremo dirlo a Elyon”. Pensa alla sua spilla. E’ vistosa come
un distintivo, ma finora non ha mai avuto il cuore di lasciarla giù.
“Sette: in caso di imbarazzo o cattura, non coinvolgere le altre, fare
nomi o l’indirizzo: il gruppo verrà comunque in aiuto”.
Vera storce il naso. “Giusto. Però non è conciliabile
con le storielle di gatti”.
Wanda si gratta il naso. “Beh… potremmo mettere che…”.
“Ne parleremo dopo. Fammi sentire gli altri punti”.
“Otto: attenzione a ciò che si dice al telefono o in qualunque
ambiente che potrebbe essere sorvegliato”.
“Ottimo!” . Si guarda in giro, ed abbassa la voce. “Tra parentesi,
dovremmo ideare qualche precauzione per non essere spiate proprio qui in
casa”.
“Appunto. Ma non rubarmi gli argomenti, per piacere”.
Nel vano della porta appare una sagoma alta con un elegante vestito
azzurro. “Ciao cospiratrici. Sto per andare al negozio, visto che non potrò
fare il turno di pomeriggio”.
“Ciao Carol”. “Buon lavoro”.
“Nove: non fare entrare estranei in casa”. La guarda. “Soprattutto quelli
che dicono di essere tecnici della società dei telefoni”.
Vera assente. “Buona. A meno che non leggiamo i loro pensieri dall’inizio
alla fine”.
“Dieci: mai lasciare documenti scritti o registrati che comprovino capacità
magiche, operazioni clandestine o precauzioni particolari”. Chiude
il notes, e guarda l’altra in attesa di un commento.
Vera alza le sopracciglia. “E’ finito?”
“Per ora sì. Che ne dici?”.
“Meriterebbe di essere messo in cornice”.
“Grazie. Troppo buona”. O è ironica?
Vera la guarda sorniona. “Se non fosse per l’ultimo comandamento….”.
Wanda si acciglia. “Cos’ha che non va? E’ uno dei più importanti!”.
Lo rilegge. Lo rilegge ancora.
Pochi minuti dopo, il tritadocumenti divora ogni vestigia del suo lavoro.
Midgale, metropolitana
Le luci della stazione irrompono dai finestrini, dapprima sfreccianti,
poi rallentano fino a dare un senso alle immagini.
Mentre si tiene al corrimano, la forza d’inerzia che la sbilancia verso
avanti sembra una rivincita di quelle lezioni di fisica che ha così
snobbato a scuola.
Wisconsin Station, recitano i cartelli sulla banchina. E’ questa.
Carol scende dal vagone, e si dirige sicura verso le scale mobili.
Sono sei mesi che percorre questo itinerario quasi ogni giorno. Una volta
Pao Chai le ha fatto osservare che la fessura finale della scala
mobile ingoia i gradini come una spiaggia sembra ingoiare le onde, e da
quella volta non può fare a meno di fissare questo piccolo miracolo
ogni volta che lo ha davanti agli occhi.
Sarà perché vi confluiscono quattro linee del metrò,
sarà perché si trova sotto la stazione ferroviaria di Midgale,
questa fermata è sempre affollata, e lo è sempre di più
a mano a mano che si sale i livelli verso la superficie.
Le prime volte che ci passava, Carol non rinunciava mai ad entrare
per sbirciare le banchine dei treni, rivivendo la sensazione inebriante
della loro prima fuga.
Uscendo sulla strada, ricorda ancora come le apparve la città
in quella lontana notte di fine febbraio.
Va a passo sicuro verso il negozio dove lavora. Chissà se la
signora Harriett accetterà di buon grado di cambiarle il turno pomeridiano
con quello di mattina?
Eccolo. Harriett’s Dress Shop. Non grande, ma più che dignitoso.
Osserva i tre manichini in vetrina. C’è ancora spazio per
il quarto. Bene.
Midgale, Harriett’s Dress Shop
La signora Harriett depone il taglierino, mentre osserva le nuove camiciole
dentro lo scatolone appena aperto.
Dinnn.
La porta si è aperta. Ma non è una cliente quella che
entra. “Buongiorno, signora”.
“Oh, Carol, cara. Ti aspettavo questo pomeriggio”.
“Purtroppo ho un impegno imprevisto. Le va bene se resto qui ora?”.
“Benissimo. Guarda, hanno cominciato ad arrivare le collezioni autunnali”.
Estrae una scatola con dentro una blusa marroncina.
“Bella! E poi… vediamo”. La ragazza cerca negli scatoloni allineati,
ed estrae una gonna plissettata che crea un bellissimo abbinamento. E poi
cosa c’è…. “Whow! Stupendo!”. Un tailleur con uno splendido motivo
a foglie cadute!
Solleva i tre indumenti e se li mette davanti. “Che dice, li mostriamo
al mondo?”.
“Certo, Carol, però prima finiamo di tirare fuori la roba, e
facciamo sparire gli scatoloni”.
Carol continua ad estrarre i vestiti, trattenendo a fatica gridolini
di entusiasmo.
Mentre lavorano per trovare il posto migliore per ogni capo, la signora
Harriett sorride, ricordando la prima volta che Carol spostò i tre
manichini in vetrina per fare posto al quarto: sé stessa. Indossò
di nascosto i vestiti più nuovi del negozio, si mise in una bella
posa che faceva il paio con quella dei manichini, e restò a lungo
immobile scrutando i passanti da dietro le lenti di un paio di occhiali
scuri. La prima volta, la negoziante si accorse del trucco solo dopo un
quarto d’ora, quando, impegnata con una cliente esigente, cominciò
a chiedersi dove fosse finita la sua schiantosissima commessa nuova. Lo
trovò così spiritoso che la fece mettere in vetrina moltissime
altre volte, con un effetto che superò quello di qualunque nuova
insegna rutilante di lucette.
Midgale, zona della stazione
Anche quest’oggi il cielo è generoso. È la giornata ideale
per cercare quella nuova libreria di cui gli ha parlato il professor Cantor.
A dire il vero, non crede che troverà libri sconosciuti: la
verità è che le ferie estive gli sono già venute a
noia dopo avere fatto indigestione del suo hobby preferito, la lettura,
seduto compostamente sulla sua poltrona preferita in salotto.
D’altra parte, andare in agosto al suo elegante ufficio di preside
del Glitfich Institute significa trovarsi da solo in un enorme parallelepipedo
rivestito di specchi, vuoto e silenzioso.
Questa ricerca è un piacevole diversivo per il preside O’Connor.
Ecco, la via dovrebbe essere questa. Dopo un muro di mattoni,
diceva… no, questo è un negozio di vestiti.
Guarda la vetrina. Ci sono bei manichini realistici: ragazze alte,
bionde, di una bellezza statuaria. Di plastica. Però, ragazze così
esistono davvero. Per esempio, non potrà mai dimenticare quella
che è passata come una meteora nella sua scuola. Somigliava a questo
manichino.
Ma…
Si pulisce gli occhiali spessi, e focalizza meglio. Sembra che il manichino
lo guardi, gli sorrida. Ma… gli ha fatto un saluto con la mano!
E’ proprio lei!
L’uomo entra nel negozio, voltandosi verso la vetrina da cui sta scendendo
la sua ex allieva. “Carol Hair… è proprio lei?”.
“Signor preside, che piacere vederla!”. Gli tende una mano, cercando
di mascherare un po’ di emozione.
“Signorina… che sorpresa incredibile! La trovo in gran forma”.
“Grazie, è vero. E lei?”.
“Bene. Quotidianamente bene. Alla mia età bisogna accontentarsi”.
Si guarda attorno. “Vedo che hai trovato un lavoro dignitoso”.
“Sì, ne sono molto contenta”.
“Mi è dispiaciuto moltissimo quando avete dovuto andare via.
Però capisco che non tutti sono nati per studiare, ma si può
eccellere anche in altri campi”. Poi, con aria complice: “Non riferisca
che ho detto una cosa simile. Va contro gli interessi della mia scuola”.
“Può stare sicuro”. Carol risponde con una strizzata d’occhio.
Poi la complicità svanisce. Per un attimo, sembra che il preside
sia cercando il modo di formulare una domanda spinosa. “Il vostro tutore
vi permette di lavorare?”.
Carol ha un sussulto quasi impercettibile. Meglio cambiare discorso.
“Ah, le presento la proprietaria del negozio, la signora Harriett”. Indica
la cinquantenne minuta ed elegante che gli viene incontro sorridendo.
“Piacere. Harriett Glenn”.
Il preside accenna un inchino. Per un attimo, Carol crede che farà
un baciamano. “Maxim O’Connor, onorato”.
“E così, lei conosce la nostra Carol”, cinguetta. Poi, più
seria: “Ma perché ha parlato di un tutore?”.
L’espressione del preside si fa perplessa. “Per quanto abbia stentato
a credere ai miei occhi, o forse dovrei dire ai miei occhiali, mi risulta
che Carol e le sue amiche siano minorenni. Lei dovrebbe avere compiuto
diciassette anni il… dieci maggio, ricordo bene?”.
La signora guarda stupefatta Carol. “Davvero? Mi avevi detto di avere
vent’anni”.
La fronte di Carol si imperla di sudore, mentre cerca di non far spegnere
il sorriso. “E’ così, ho i documenti che lo dimostrano”. Va a passi
lunghi fino alla sua borsetta verde dietro il banco, e ne estrae il documento
di identità. “Vedete?”. Lo esibisce, cercando di sfoggiare lo stesso
sorriso sicuro della fotografia.
Il preside aggrotta le ciglia. “Ma… Ed i documenti che avete presentato
a scuola?”.
“Ah, quelli… l’anagrafe ha scoperto che erano sbagliati”. Come possono
essere sbagliati dei documenti? Una idea, una qualsiasi… “L’orfanotrofio
aveva inserito i nostri documenti di ammissione in una cartella di un anno
sbagliato”. Sorrisone teso. “Abbiamo insistito per una verifica, e la verità
è venuta a galla”.
Due sguardi dubbiosi.
“Ma, guardatemi! Vi pare che io possa avere diciassette anni?”.
“Veramente no”, conviene il preside. “E neanche le sue amiche, tranne
forse… la signorina Canteen, ricordo bene?”.
“Terry… Terry ne ha diciannove”.
Tutto a posto? Guardando la signora, Carol le legge negli occhi la
prima domanda che le farà appena il preside sarà uscito:
‘Carol,
se hai i documenti regolari, perché non mi hai chiesto di regolarizzare
la tua assunzione?’. Una risposta qualsiasi… ‘Mah, temevo…’. Temevo cosa?
La proprietaria riprende a parlare con l’ospite. “Lei è preside…
di che scuola, se posso?”.
“Del Glitfich Institute, un istituto comprensivo, sette anni tra medie
e superiori. Sa quella…”.
“L’ho presente. Bella scuola”, conviene. “Ma… non è molto costosa?
Cioè…”.
“Sì, signora. Il prestigio si paga. Dalla nostra scuola è
uscita gente importante. Il sindaco della città, per esempio”.
“Ma chi manteneva le ragazze?”
Mentre parlano, Carol si sente la testa pulsare. Oddio, si sta aprendo il vaso di Pandora delle domande! Stilettate di ghiaccio le attraversano le mani ed i piedi. Ora O’Connor racconterà che sono state scaricate, e perché. Forse chiederà come si mantengono. Come può sostenere davanti al preside che ha una borsa di studio per l’università? Sa benissimo che non ha completato il quarto anno… Chissà se ha incontrato le altre, e cosa gli hanno raccontato… cavolo, niente di ciò che ha inventato può reggere, se raccontato a tutti e due assieme! Forse si chiederanno dove ha preso il denaro per vestirsi sempre bene e pagare un affitto, con quello che è retribuita… No, non deve saltare fuori! Non davanti al preside!
“Scusate, signori”. Una voce inaspettata fa sobbalzare tutti. Si voltano verso Vera, apparsa alle spalle di Carol.
“Scusi, non la ho vista entrare…”, fa in tempo a dire la negoziante.
Un piccolo lampo si riflette negli occhi della Harriett e del preside.
Le espressioni di tesa cortesia lasciano il posto al vuoto e all’immobilità.
Vera alza un dito, ponendolo sulla fronte della signora come per una
condanna.
Carol fissa con stupore il gesto plateale ed il viso serio e teso.
“Ma cosa stai facendo?”.
“Quello che avresti dovuto fare tu. Sto cancellando tutti i ricordi
relativi ad una certa signorina Hair”.
Carol impiega un attimo per afferrare l’enormità di cosa sta
succedendo. “No! Non puoi!”.
“Credi?”. Vera si sposta verso il signor O’Connor, e gli punta un dito
tra gli occhi persi, subito sopra la montatura.
“NO!”. Carol le afferra il braccio, e lo abbassa. “HO DETTO CHE NON
PUOI!”. Le si avvicina minacciosa.
Vera non è impressionata dai quindici centimetri di cui l’altra
la sovrasta. “E’ necessario. Lasciami fare!”.
“No! Ci penserò da sola. Credi che non sappia cavarmela? Mi
sono trovata in situazioni peggiori senza l’ombra di un potere”.
Vera sorride sarcastica. “Davvero? Sono stata richiamata dai tuoi pensieri,
che sembravano urla. Ero in negozio da mezzo minuto, anche se non mi vedevi.
Il tuo viso era il ritratto del panico, ed avrebbe contraddetto ogni scusa
che avessi potuto inventare”.
Alza nuovamente il dito sulla fronte del preside.
Un lungo momento passa nell’immobilità più assurda. Poi,
l’immagine del negozio svanisce tremolando.
Soggiorno
E’ un sogno. Un orribile sogno. Ora finirà… ne sta già
cominciando un altro?
La prima immagine che emerge dal tremolio è un paesaggio su
cui splende il sole, alto e radioso, al di là di una balconata.
Socchiude gli occhi, abbagliata. Quello che vede è il loro giardino.
D’improvviso, le pesanti tende del soggiorno si serrano, facendo piombare
la stanza nella penombra.
Sente la voce di Vera alle sue spalle.
“Era necessario. Non potevi restare a cavallo di tre vite diverse”.
Si volta verso la sagoma dell’altra, che intuisce aldilà delle
immagini del sole e del giardino impresse negli occhi come luci verdi e
cremisi rutilanti.
“Chiunque ti abbia conosciuta un anno fa”, continua la sagoma, “non
può credere a ciò che dici di essere ora”.
Carol cerca di mettere a fuoco la sua interlocutrice, e risponde con
rabbia. “Ascoltami, avevo un mio progetto di vita, e lo stavo portando
avanti bene. Non avevo bisogno di te, della tua paranoia per la segretezza”.
“Davvero?”. Il tono di Vera è sarcastico. “Eppure quelle che
si sono scontrate erano contraddizioni tue, che precedevano il mio arrivo.
L’epilogo che si prospettava era il tuo licenziamento”.
“La signora Harriett non mi avrebbe certo licenziata! Da quando lavoro
lì, ha aumentato di molto la sua clientela, e sa che è merito
mio”.
“Può darsi. Ma far lavorare una minorenne senza il consenso
dei genitori è vietatissimo”.
“Ma che minorenne! Avevo i documenti!”.
“Che ti ho fatto io. Senza quelli, probabilmente avresti perso comunque
il lavoro. O magari il preside, convinto di fare bene, avrebbe segnalato
il tuo caso ad un’assistente sociale, che ti avrebbe potuta trovare al
negozio, e poi avrebbe rintracciato tutte le altre”.
“Bah!”. Carol si stringe nelle spalle. “Me la sarei cavata comunque
senza di te. Sei venuta a coinvolgermi nel tuo ennesimo pasticcio”.
Vera si morde le labbra, stizzita. “Prima di oggi, pensavo che avessi
il sangue freddo per risolvere ogni situazione, che fossi la più
capace del gruppo. Invece mi hai deluso moltissimo. Non solo eri vicina
alla catastrofe, ma non vuoi neppure ammetterlo”.
Carol la guarda con odio. “Si poteva sistemare tutto senza cancellare
metà della mia vita. Bastava convincerli della mia età”.
“La fai facile…. Ora”.
“Ora tornerò al negozio, e non azzardarti a seguirmi!”.
Carol parte a passi lunghi verso la porta. Si accorge di Wanda, vestita
di scuro e seminascosta dietro lo stipite, solo quando la sfiora. La schiva
con fastidio, ed imbocca l’uscita.
La porta sbattuta con rabbia risuona nel vano scale.
Carol preme il bottone dell’ascensore. Vieni, maledetto aggeggio!
Cosa stai aspettando?
Al terzo tentativo, il bottone pigiato con troppa forza resta incastrato.
Al diavolo! Meglio le scale!
Wanda riapre la porta in tempo per vedere l’ultimo lembo del tailleur
a foglie che scompare dietro l’angolo. Ascolta i passi che scendono ticchettando
veloci per le scale.
“Andata!”.
“Tornerà”. Vera la raggiunge. “Ma ho paura che certe cose non
saranno più come prima”.
L’ascensore, richiamato dal tasto schiacciato, arriva al piano. La
striscia di dorata luce elettrica si perde nel vano scale rischiarato dal
giorno.
“Guarda il bottone”. Wanda intuisce tutta la rabbia di quel gesto.
“Provo a sistemarlo”. Chiude gli occhi. Le sembra di percepire l’interno
dietro la mascherina, il tasto schiacciato oltre la sua sede, la molla
distorta, come se li toccasse. Proviamo a…
Il tasto torna a posto. Non porterà alcuna memoria della sua
disavventura.
Vera ha osservato. “Stai diventando brava. Però sforzati di
farlo ad occhi aperti, alla prossima occasione”. Scuote il viso.
Ha l’impressione che i suoi scontri con Carol siano solo all’inizio.
Midgale, davanti all’ Harriett’s Dress Shop
Eccola! La vetrina si avvicina ad ogni passo. L’insegna rosso scuro
ed oro la accoglie familiare, come tutti i giorni.
Carol esita un attimo davanti alla porta, poi entra.
La Harriett è sempre lì, e le viene incontro sorridendo.
“Buongiorno, signorina. Ma…”. La squadra sorpresa da capo a piedi. “Lei
è già entrata qui, oggi?”.
Proprio come temeva. “Ma non si ricorda di me?”.
La negoziante è imbarazzata. Sa che dovrebbe. “Gliel’ho chiesto
perché i modelli che indossa ci sono arrivati proprio questa mattina,
e i suoi hanno ancora i cartellini attaccati”.
Carol resta attonita. Si guarda i nuovi vestiti autunnali, già
sudati per la sua maratona sotto il sole di agosto. “Ma davvero non si
ricorda della sua commessa, Carol?”.
Sguardo attonito. “Non ho mai avuto una commessa che si chiamasse così”.
Assurdo! “Mi guardi! Davvero non mi riconosce?”.
La signora Harriett è sempre più imbarazzata. “Mi aiuti
lei…”. Quella cliente deve essere già entrata, questa mattina. Ha
indosso un suo vestito, avrà certo provato i nuovi arrivi. Ma perché
è uscita e rientrata così trafelata? Non la ricorda assolutamente.
Eppure
cinquantadue anni sono troppo pochi per l’Alzheimer . O no?
“Sono Carol, la sua commessa!”.
Sguardo da ‘non capisco’. “Sta forse cercando un lavoro, signorina?”.
“Vuole scusarmi?”. Una vocina interrompe il momento di stallo. Una bella
ragazza orientale appare sorridendo da dietro uno scaffale di camicie.
La signora Harriett sgrana gli occhi. Non aveva sentito entrare neanche
questa cliente. “Signorina, mi…”. Non finisce la frase. I suoi occhi restano
nuovamente vacui.
Carol si volta, incredula. “Pao!”. Era l’ultima persona che si aspettava
di trovare qui. “Cosa…”.
“Allora, sei contenta di vedermi?”. Le sorride.
“Pao, anche tu…”.
“Sì, sto diventando bravina anch’io”. Il sorriso si fa
imbarazzato quando si accorge che Carol lo ricambia solo con lo sbigottimento.
“Non preoccuparti. La signora non ricorderà questo incontro”.
L’altra si copre con le mani il viso sconvolto. “E’ un incubo!”.
Il momento sta diventando penoso anche per Pao Chai. “Ti prego, vieni
con me. So quanto ci tenessi a questo lavoro, ma ora dobbiamo parlare tutte
assieme di cose importanti”. Le guarda il vestito. “Cambiati. Io terrò
fuori i clienti per cinque minuti”. Si volta un attimo verso la porta,
e scruta attraverso la vetrina. Nessuno in vista. Riguarda la sua
amica immobile. Si avvicina. Deve dirle qualcosa, anche se teme che la
sua voce tremerà. “Ti prego, Carol. Non piangere” .
Soggiorno delle Gocce
“Stanno tornando. Ora siamo tutte.”.
Alle parole di Vera, le altre sedute al tavolone si voltano verso l’atrio.
Dal baluginio emergono Carol, a capo chino come un salice piangente,
e Pao Chai, che cerca di consolarla con toni sempre più angosciati.
“Ti prego…”.
Appena scorge le altre, Carol si ritira verso la sua camera. Dopo un
attimo di indecisione, l’altra le corre dietro.
Le altre si guardano.
Irene si spinge indietro i capelli. “Da quello che ci hai raccontato,
pare che le cose non vadano affatto bene”. E’ la prima volta che prova
pena per la biondona. “Devo essere sincera, penso che le cose potessero
essere gestite in modo meno traumatico”.
Wanda scuote la testa. “Abbiamo necessità di sicurezza oggettive.
Dobbiamo troncare i legami con il passato”.
Irene fa spallucce. “Con il preside, posso capirlo. Ma il negozio…
perché?”.
“Per quanto è successo oggi”, risponde Vera. “Quella posizione
è troppo esposta. Inoltre la rende facilmente rintracciabile”.
“Ti potevi limitare a cancellare l’avvenimento dalla memoria della
signora comesichiama”.
Vera sbuffa. Non le piace troppo essere contraddetta, e la stanchezza
della nottata in bianco torna a pesare su di lei. “Irene, hai assaggiato
i cioccolatini in quel cassetto? Sono stupendi”.
Gli occhioni dell’altra brillano. “Quale cassetto? Quello?”. Si alza
e li trova al primo tentativo, con l’abilità di un cane da tartufi.
“Con l’inizio dell’università, eventi del genere potrebbero
diventare quotidiani”, interviene Therese. “E non sarà solo l’età
ad essere incongruente. Qualcuno saprà che non abbiamo completato
le superiori”.
Wanda tamburella nervosamente su un foglietto di appunti. “Allora,
cambiamo città! Trasferiamoci!”.
“Solo come ultima possibilità”, replica Vera. “L’università
di Midgale ha pochi paragoni, è il posto ideale per quello che dobbiamo
fare”.
Lo sguardo di Therese cade sulle sedie vuote, e si porta le dita alle
tempie. “Chiamo le altre”.
Vera la nota. “Ragazze, cerchiamo di usare i poteri senza gesti plateali.
Possono dare nell’occhio”.
Dopo un minuto di silenzio, la loro attenzione viene attirata dai passi
nel corridoio e da un tirar su di naso. Quando le compagne entrano,
è Carol, ancora con gli occhi rossi, che consola una Pao Chai piagnucolante.
Si siedono entrambe al loro posto, quasi di fronte a Vera. Carol tiene
la sedia molto indietro e voltata verso Pao.
“Grazie di essere venute”. Vera spera che la sua frase non suoni sarcastica.
“Abbiamo tre problemi da affrontare. Il primo è il confronto con
il vostro passato. Il secondo è la fragilità della nostra
copertura attuale. Il terzo è come non tradire certe attività
segrete ed i poteri”.
Carol, tutta incrociata, evita il suo sguardo. “Oggi hai fatto l’ennesima
sciocchezza”, esala con una voce che le altre fanno fatica a sentire.
Silenzio e gelo.
“In primo luogo, il mio lavoro era una delle poche cose che desse una
parvenza di normalità a questo gruppo”, continua.
“Ehi, altesscia…”, tenta di ribattere Irene, ma il cioccolatino ha
deciso di non condividere l’uso della bocca con altre parole.
Wanda guarda sempre più accigliata: “Carol, sei sempre la solita
presuntuosa egoista!”.
La solita presuntuosa egoista non ricambia, e continua piano: “Ma non
preoccupatevi troppo se l’affitto di questi due appartamenti supera di
molto quello che qualunque borsa di studio ragionevole possa permettere
a delle studentesse, perdipiù orfane”. Scrolla le spalle. “Al più
penseranno che siamo tutte squillo”.
“Oh, no…”. Pao Chai si copre il viso.
Vera è bianca come un cencio. La giornata sarà ancora
molto lunga.
Carol, con voce lontana, rigira il coltello nella piaga. “Cosa succederà
quando un sacco di clienti affezionati chiederanno alla signora Harriett
dov’è la sua commessa, e lei cadrà dalle nuvole?”.
“E se il preside…”, riflette Therese. “Vera, ho paura che queste amnesie
siano una toppa più vistosa di quella che si vuole nascondere. Creano
incongruenze tra i ricordi di diverse persone, e possono attirare sospetti
su di noi”.
“O su un signore di nome Alzheimer”. Irene sorride soddisfatta della
sua battuta mentre scarta, sotto il tavolo, un altro cioccolatino.
“Brava Irene”. Carol la guarda da sopra la mano che le sostiene il
viso. “La hai provata allo specchio?”.
Irene stringe i denti. “Visto che abitiamo con te, staranno già
pensando che siamo…”.
“BASTA!”. Vera batte il pugno sul tavolo. Quando riguarda le compagne,
le trova come congelate a metà dei loro gesti.
“Ehi, ehi, ragazze… scusatemi”.
Le altre riprendono a vivere, e la guardano ammutolite.
Vera approfitta dell’attenzione. “Ho un’idea. Potrei creare una suggestione
virale, che si trasmette da persona a persona: partirebbe da voi stesse,
attraverso una risposta stereotipata che date a chi vi mette in imbarazzo,
tipo ‘ricordi male’. Questi si dimenticano di voi, e poi, se qualcuno
torna in discorso con loro, possono rispondere nello stesso modo e trasmettere
l’amnesia all’infinito”.
Ci vuole un lungo momento perchè le gocce possano mettere a
fuoco l’idea.
“Così nessuno noterebbe una contraddizione nei ricordi!”, riflette
Terry compiaciuta.
“Geniale!”. A Wanda brillano gli occhi. “Non avremmo neppure bisogno
di una copertura!”.
“E la suggestione circolerebbe senza nessun intervento da parte nostra!”.
Pao Chai ci pensa sopra. “Formidabile”. Poi, con un’espressione dubbiosa:
“Ma cosa succederebbe se ci tornasse indietro?”.
“Già”. Irene spalanca gli occhioni. “Se incontriamo uno e ci
scappa: ‘ciao, ti ricordi di me?’”.
“Idea mostruosa!”. Carol geme sofferente e guarda Vera tra le dita.
“Ci farebbe il vuoto attorno! ”.
Vera si acciglia. Era già arrivata alla stessa conclusione,
ma sentirsela buttare addosso così non le piace affatto. “La potrei
calibrare in modo che cancelli solo alcuni ricordi come l’età, o
anche solo la percezione delle incongruenze.
“Ma puoi veramente creare una suggestione del genere?”. Wanda è
strabiliata. “Con questa, si può fare ben altro che far dimenticare
qualcosa di sgradito. Chi può fare questo, può conquistare
l’universo!”.
“Ora come ora, no”, deve ammettere. “Ma nella biblioteca segreta di
Elyon…”.
Wanda scuote la testa, delusa. “Non credo. Se esistesse, Phobos la
avrebbe usata per sedare ogni rivolta a Meridian”.
Vera tamburella per un po’ con il dito. “Allora, facciamo una cosa
semplice. Ciascuna di voi pensi alle cose che vuole fare dimenticare di
sé, a partire dalla classe frequentata. Domattina metteremo a punto
una semplice strategia per suggestionare le persone che volete”.
“Ehm”. Therese richiama l’attenzione. “Però, prima di
elencare le cose che vogliamo far dimenticare, è meglio definire
meglio il nostro presente. La nostra copertura attuale è troppo
fragile per permetterci anche solo di sostenere una conversazione superficiale
su noi stesse”.
“Già”, aggiunge Pao Chai. “Siamo sempre orfane?”.
Il velo di stanchezza cala nuovamente sugli occhi di Vera. Mezzogiorno
è passato. “Ragazze, parlatene tra di voi nel pomeriggio, nel soggiorno
dell’altro appartamento. Domani alle nove affronteremo l’argomento”.
Irene cerca di far sparire in tasca le carte dei cioccolatini sgranocchiati
attorno al tavolo. “Sentivo un languorino… preparo un pranzo rapido per
tutte”.
Anche Carol si alza. “Ragazze, vi dico subito che questo pomeriggio
ho un impegno”.
Sguardi di curiosità.
“Sono sicura che la signora Harriett avrà bisogno di una nuova
commessa”.