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Autore: atassa    23/05/2013    0 recensioni
Una serie di sfortunati racconti è una storia di undici capitoli ormai completata. Qualcosa nel mondo sta succedendo, qualcosa di malvagio, di oscuro e chi lo fermerà? Una serie di destini che sono condannati ad intrecciarsi fra di loro, ma non per tutti è una condanna.
Genere: Horror, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tre.

Per sempre felici e contenti. Chi cavolo mi ha costretto a incastrarmi in un matrimonio con inizio e senza fine, senza fine, finche morte non ci separi. Presi la tazza con ferocia, il caffè colò sulla tovaglia, macchiandola di marrone. Mia moglie entrò leggiadra nella stanza.
"Che cavolo Angelo, ora devo pulire anche la tovaglia!". Mi urlò acida. Come se io non facessi niente in casa, ma chissà com’è, si ricordano solo gli errori, non quando le ho portato tutti i pranzi della giornata a letto perché aveva un banalissimo raffreddore.
"Scusami cara". Sbiascicai. Lei sorrise con il mento in alto, fiera di essere quella dominante nella coppia. Non per molto brutta bastarda. Si sedette vicino a me, guardandomi con insistenza. Che cosa vuole ora? Le sorrisi e ritornai ai miei pensieri e a bere il residuo del caffè.
"Angelo, caro, perché non mi versi il caffè?". Mi disse cortese, quando in realtà intendeva: “Angelo, sei un mostro a non avermi baciato i piedi alla mia entrata nella stanza”. Alla fine quando una coppia si lascia, la colpa è sempre dell’uomo, da lì escono frasi del tipo: “Tutti gli uomini sono dei bastardi”, quando è la donna che ce la mette tutta nel farsi mollare. Perché comprarsi la mucca, se si può avere il latte gratis? Meno male che non abbiamo figli, la sola unione dei nostri cromosomi mi fa rabbrividire.
"Scusami cara, vorrei tanto, ma sono in ritardo a lavoro". Lei annui contrariata e con un freddo bacio sulla guancia, dove mi macchiò di rossetto, mi salutò. Me ne andai velocemente a lavoro, con la coda fra le gambe, come si suol dire. Da molto tempo ormai, trovavo rifugio al lavoro, era quasi un sollievo essere comandato a bacchetta da uno che almeno ti pagava per poterlo fare, invece nel mio fallimentare matrimonio, ci rimettevo solo denaro: “E’ uscita la nuova borsetta di Chanel, caro!”, ovviamente vivevamo nel lusso, ma solo grazie al mio sudore. Accesi l’auto, mia moglie si parò davanti. Restando fissa immobile davanti all’auto accesa. Un’idea mi balenò per la mente, avrei potuto metterla sotto, ma poi sarebbe stato un altro dei tanti casi di omicidio fra coniugi. Avrei passato il resto dei miei giorni in galera, ma la soddisfazione che ne avrei ricavata sarebbe stata enorme.
"Caro, oggi non fare tardi che arriva la mamma!". Disse entusiasta. La suocera, oh, anche la madre avrei dovuto uccidere, ma morto il filo che ci teneva legati, non ci saremmo più rivisti. Ripensai se metterla sotto, oppure no, spensi il motore.
"Certo cara, arriverò puntualissimo, vuoi che prima di tornare a casa compro qualcosa?". Lei alzò la testa, pensandoci, o almeno dando l’impressione di pensarci.
"Certo! Hai presente la nuova sedia con le palline massaggianti? A mia madre è venuto il colpo della strega e le farebbe comodo, grazie amore!". La guardai a bocca aperta, sperando scherzasse. Lei mi guardava sorridente, senza abbassare lo sguardo, mi arresi.
"Cara, quella sedia costa sui centocinquanta euro!". Lei mi guardò torva, digrignando i denti.
"Caro, la tua auto costa tremila euro l’anno, sii generoso!". Non per molto, mi balenò in mente di accendere il motore e metterla sotto, oppure semplicemente di scappare, ma annui semplicemente.
"Vado che faccio tardi". Dissi affranto. Lei sbatte con forza la mano sul cofano dell’auto. Provocando un fragoroso frastuono. Spero non me l’abbia ammaccata.
"Amore, hai capito cosa devi comprarmi, vero?". Disse di nuovo acida.
"Si cara". Accesi il motore e usci a retromarcia dal garage.
La banca era appena stata aperta, eravamo in dieci in ufficio, io e la nuova contabile assunta da un mese o poco più. Lei mi sorrise cordiale, ricambiai generoso il sorriso. Lei mi si avvicinò sorridente, senza lasciare il mio sguardo. Il suo profumo m’inondò, era dolce, non dozzinale, come quello di mia moglie, il suo sapeva di rosa e di margherita.
"Ehi Angelo, ti va di venire a mangiare una pizza stasera?". Disse lei con voce pacata. Le fissavo le dolci labbra sottili quando parlava, che si muovevano in modo così musicale. Inalai il suo dolce profumo. Ad averla incontrata prima una donna così.
"No Rebecca, oggi viene a casa la suocera, non posso". Dissi intimidito dalla sua bellezza. Lei mi sorrise dolce e apprensiva.
"Certo, Angelo, scusa la mia sfacciataggine". Mi sorrise un ultima volta e tornò al suo ufficio. Socchiusi gli occhi, respirando un ultima volta il suo odore, prima di rimettermi a lavoro.  Non riuscendo a concentrarmi sulla pratica, andai a cercarla con lo sguardo, sedeva composta, con schiena dritta e collo leggermente inclinato in avanti. Marco il mio amico dall’infanzia, con cui avevo visto tutta la serie di Dragon Ball, si avvicinò, sedendosi sopra la scrivania, disturbandola dal suo pensare. Lei lo guardò cordiale.
"Cosa ti serve Marco?". Gli disse dolce. Lui le si avvicinò, baciandole il collo e le sussurrò qualcosa che non udii, lei rise.  Marco le si scostò di dosso e venne nella mia direzione, salutandomi per poi superarmi fino ad arrivare alla sua scrivania. Rammaricato ripresi a lavorare.
Andai dritto verso la macchinetta, digitai il codice “08”, caffè macchiato e ci aggiunsi dello zucchero. Stando attento a non versare il caffè mi sedetti a un tavolo e dalla tracolla presi il panino che mi aveva preparato mia moglie. Fabrizio si sedette vicino a me e cominciò a trangugiare la pasta alla carbonara che gli aveva preparato la fidanzata. Marco e Rebecca con in mano un vassoio preso della mensa si sederono di fronte a noi, salutandoci. Li guardai torvo. Fabrizio alzò la testa per salutarli, per poi tornare a mangiare il pranzo. Ci fu un silenzio imbarazzante, dove scambiai reciprocamente lo sguardo con Rebecca, che mi guardava sorridente. Scartai la carta stagnola, ne uscì un panino con prosciutto e formaggio. Arricciai il naso schifato.
"Ti ha messo di nuovo il formaggio?". Mi chiese Marco, mentre guardava il panino nauseato.
"L’odore si sente da qui". Disse Rebecca soave. Io annui e aprii il panino, controllandone l’interno.
"Sa bene che io non riesco a digerire i latticini". Dissi mentre fissavo assorto il panino. Rebecca annui, Fabrizio si sporse da sopra la mia spalla per guardarne il contenuto del panino.
"Sembra te lo faccia apposta!". Disse Marco scherzoso, cominciò a condire la sua insalata. Io guardai il suo pasto, Marco odiava mangiare vegetariano. Tornando a fissare Rebecca notai che lei sorrideva a Marco e anch’essa condiva la stessa insalata. C’era qualcosa tra di loro, la sconfortante consapevolezza mi ferì. Spostai il panino in avanti, in modo che il tanfo del gorgonzola non giungesse alle mie narici.
"Già, lo so". Dissi triste. Rebecca mi sfiorò la mano di conforto e mi guardò compassionevole.
"Hai i soldi per la mensa?". Mi disse misericordiosa. Io annui con forza. Fabrizio fissava il contatto, anche lui era un amico di vecchia data, sia mio sia di mia moglie e l’armonia che c’era tra me e Rebecca non gli andava a genio.
"Certo, vado a buttare il panino". Dissi alzandomi. Marco mi bloccò e mi sfilò il panino da sotto le mani.
"Niente che le dolci mani di tua moglie abbiano sfiorato va buttato, ci penso io a mangiarlo". Disse mentre odorava la carne che conteneva. Rebecca lo squadrò infastidita.
"Marco hai detto che oggi avresti seguito la mia dieta vegetariana". Fabrizio rise e riprese a mangiare. Mi sedetti pesantemente sulla sedia e sorseggiai il mio caffè.
"Rebecca, oh dolce e cara Rebecca, io sono un carnivoro e tu non puoi cambiare ciò!". Disse scherzoso. Rebecca scosse la testa contrariata e comincio a mangiare l’insalata, degustando tra una forchettata e l’altra il vino rosso contenuto nel suo bicchiere. Tutti mangiavano silenziosamente ed io mi abbandonai ai miei pensieri.
Cercavo da ormai un’ora quella sedia che mia moglie aveva tanto elogiato. Arrendendomi cercai un commesso che potesse aiutarmi. Ne trovai uno che al momento era impegnato con un altro cliente e nell’attesa controllai l’ora. Ero in un terribile ritardo.
"Di cosa ha bisogno signore?". Mi chiese servizievole il commesso.
"Ha presente le sedie massaggianti?". Lui annui. Gesticolai con le mani, facendogli capire che doveva mostrarmele. Lui cominciò a camminare verso gli elettrodomestici. Si fermò di scatto e per poco non gli andai a dosso.
"Purtroppo signore ci sono rimasti solo quelli dell’Imetec Sensuij, sono tra i migliori e questo è l’ultimo". Disse mentre indicava una scatola chiusa. Io annui.
"Il prezzo?". Chiesi fissando la scatola assorto. Il commesso prese il suo Ipad e controllò. Attesi qualche secondo in silenzio.
"Centocinquantanove euro e novantanove centesimi". Disse mentre valutava il mio umore in concordanza con il prezzo. Io controllai ancora una volta l’orologio, ero davvero in ritardo.
"Lo prendo". Dissi affranto, altri centosessanta euro se ne vanno. Alla cassa mi chiesero se era un regalo, io annui triste e attesi che loro me lo incartarono, naturalmente pagai un altro euro e cinquanta centesimi per il pacchetto. Caricando il pacco sull’auto mi avviai per casa.
Entrai goffo nel soggiorno con la scatola in mano, mia moglie mi scaraventò tutta la sua furia contro. Io posai pesantemente la scatola sul tappeto.
"Sono stato un’ora in quel cavolo di negozio per cercare questa cavolo di sedia!". Urlai. Non solo dopo una piena giornata lavorativa di otto ore avevo dovuto passare per spendere quello che io guadagnavo in due giorni, ma dovevo anche subirmi le sue urla. No grazie. Lei mi guardò, ferita nell’orgoglio come l’avessi schiaffeggiata. La madre uscì dalla cucina e mi guardò acida.
"Angelo, non ci si comporta in questo riprovevole modo con una signora e in particolar modo con la propria moglie, mi dispiace ammetterlo ma stai davvero cadendo in basso, non mi aspettavo da te questi accessi d’ira". Disse mentre scuoteva la testa a ritmo con le sue critiche. Mi balenò per la mente di scaraventarle la pesante sedia sulla colonna vertebrale e ammazzarla sul colpo. Mi allontanai di due passi indietro dalla sedia, per non rischiare che futuri momenti d’ira si potessero trasformare in un omicidio. Mia moglie respirò profondamente con fare tragico.
"Mamma sai com’è fatto, te l’avevo detto che in momenti di tranquillità lui scatta con quella scintilla omicida negli occhi". La madre annuì.
"Ma Linda cara, tu devi reagire, ti meriti di meglio che questo buzzurro". Parlavano come fossero sole, ignorandomi completamente, come da copione le segui senza commentare una sola frase, mi sedetti a capotavola, silenzioso, con sguardo assorto.
"Lo so mamma, ma al tempo ero giovane". Disse triste. Come se una come lei potesse trovare un altro uomo. 
"Mia cara, tu meriti di meglio che di lui, ascolta il consiglio di mamma tua, imponigli di cambiare e se non cambia, chiedi il divorzio, sei ancora giovane e senza figli che ti legano a lui". Mi sfuggì una risata a quelle parole, le due donne mi guardarono malamente.
"Cosa c’è di così divertente in questo?". Chiese furiosa Linda. Risi più forte. La madre mi guardò tragica e si alzò in piedi teatralmente.
"Angelo credo che mia figlia stia cercando in tutti i modi a rimediare ai tuoi errori, quando tu, non fai altro che remarle contro". Disse con un tono che non ammetteva repliche. Mi alzai anch’io dalla sedia, sovrastandola con la mia stazza. Non ero più un bambino che doveva portar rispetto agli adulti, ero io “gli adulti”.
"Signora, credo che lei sia in torto, è infatti sua figlia che rema contro al nostro matrimonio". Dissi calmo. Mia moglie gesticolò. La madre annuì risoluta.
"Angelo sia chiaro che se questo matrimonio avesse termine saresti tu quello a rimetterci". Detto questo, si sedette leggiadra e attese la prima portata. Mia moglie le sorrise e andò a prendere dalla cucina la pietanza. Io infuriato calciai la sedia facendola cadere fragorosamente a terra e prendendo cellulare e chiavi uscii rumorosamente da casa avviandomi alla macchina. Dietro di me le due donne commentavano in modo riprovevole di me. Con gli occhi accecati di rabbia accesi il motore e per poco non ammaccai l’auto andando a dosso a un nano da giardino di piombo che mia moglie aveva tanto desiderato. Erano ancora le nove, forse Rebecca non aveva ancora preso quella pizza di cui mi aveva parlato. Digitai il suo numero. Dopo qualche secondo rispose una voce vivace.
"Pronto, chi è?". Chiese. Io deglutii. Volevo davvero scappare da mia moglie per andare a cenare con Rebecca, la bellissima Rebecca? Si lo volevo. Pensai risoluto.
"Sono Angelo Stencoforte, il tuo collega di lavoro". Udii dall’altra parte del telefono qualche rumore di sottofondo, come avesse chiuso la porta.
"Angelo! So benissimo chi sei! Cosa ti ha indotto a chiamarmi?". Mi disse dolce. Io sorrisi al suo pensiero.
"L’invito per una pizza è ancora valido?". Chiesi mentre fremevo all’idea di rivederla.
"Certo! Ci vediamo tra dieci minuti al bar davanti al lago?". Chiese.
"Proprio vicino al lavoro, eh". Commentai gaio. Lei rise civettuola.
"Se vuoi, facciamo da un’altra parte". Io risi mentre mi fermavo all’incrocio.
"No Becca, tranquilla, ci si vede lì fra dieci minuti". Dissi.
"Ok a dopo". Disse sbrigativa, dopo qualche secondo mi attacco il telefono ed io ripresi a guidare. Passando davanti a un fioraio mi venne in mente che le sarebbe piaciuto ricevere un mazzo di fiori che corrispondevano al suo dolce e intenso odore. Parcheggiai e corsi verso di esso. Comprai undici rose rosse con in mezzo qualche margherita.
"E’ per una donna speciale, vero?". Mi chiese la fioraia mentre sistemava la composizione. Io annui cordiale.
"Le piacerà". Disse maliziosa. Io le sorrisi e dopo averle pagato i fiori con una mancia extra di cinquanta centesimi, corsi in macchina, adagiai piano per non sciupare i fiori sul sedile a fianco al mio e ripresi a guidare verso il punto d’incontro.
Benché sia arrivato puntuale, Rebecca mi aveva preceduto e sedeva composta su una sedia, si guardava intorno, cercando la mia ombra. Appena scorse il mio volto, un sorriso le irradiò il dolce volto. Si alzò in piedi per baciarmi sulla guancia, la bocca era calda al contatto. Le porsi i fiori con un sorriso. Lei arrossì e mi baciò di nuovo sulla guancia.
"E’ un gesto davvero molto caro, grazie". Le sorrisi.
"Scommetto te ne regalano tanti". Dissi scherzoso, mentre mi accomodavo di fronte a lei. Lei alzò gli occhi in alto, sorridente mentre annusava i boccioli.
"Hai ragione, ma i tuoi sono indubbiamente i più belli". Disse mentre li adagiava con cura sul tavolo. Ero folgorato dalla sua bellezza, vestiva un completo scuro che le arrivava alle ginocchia, i capelli erano sciolti e il suo profumo m’inondava.
"Che cosa prendi?". Mi chiese raggiante. Le sorrisi, fissando quelle sue piccole mani che sfioravano i fiori.
"Ordina tu per me". Dissi mentre guardavo il suo volto arrossire a ogni mio gesto. A volte dimenticavo che aveva solo ventiquattro anni. Un cameriere ci si avvicinò.
"Cosa vi porto?". Chiese scocciato. Rebecca corrugò la fronte.
"Di certo non una pizza ai quattro formaggi, vediamo, ci porti due Mohito, una pizza alla Margherita per me e una alle zucchine per il signore". Disse cordiale. Il cameriere segno velocemente il tutto e scomparve dentro il locale. Rebecca tornò a guardarmi raggiante, la luna le illuminava il viso, rendendo a tutti visibile la sua folgorante bellezza.
"Non ho mai assaggiato un Mohito". Dissi colpevole. Lei rise.
"Non temere, ti piacerà e un alcolico alla menta, io lo adoro". Disse sorridente mentre si portava alla bocca un petalo di rosa e lo annusava. Io annui.
"Mi fido della tua conoscenza". Lei mi guardò dritta negli occhi.
"Devi". Disse entusiasta. Tossii e continuai a guardarla. Si passò una mano fra i capelli e mi rivolse un grande sorriso.
"Cosa ti ha fatto cambiare idea riguardo alla cena?". Mi chiese dolce. Io abbassai lo sguardo, riassaporando l’odio per mia moglie, non doveva rovinarmi la serata quella strega.
"Niente in particolare, volevo solo vederti". Dissi cauto, cercando di non sembrare spudorato. Lei annui.
"Ci sono problemi a casa, vero?". Disse solidale, mentre mi stringeva la mano. Io annui, accarezzandole la mano con il pollice. Lei sorrise.
"Mia moglie e mia suocera sono contro di me". Dissi triste. Le inclinò la testa da un lato.
"Racconta". M’incitò. Io scossi la testa.
"Non voglio rovinare questa serata". Dissi, il cameriere arrivò, portandoci due bicchieri e una scodella di noccioline. Rebecca avvicinò il suo bicchiere e girò la cannuccia nera in senso orario.
"Non voglio vederti triste e se non riesco ad aiutarti sarò io quella a star male, racconta". M’incitò nuovamente con lo sguardo fisso sul calice. Avvicinai il mio di bicchiere, togliendone la cannuccia e sorseggiandolo.
"Tra me e mia moglie ormai non c’è più amore, se fosse per me, avrei chiesto il divorzio ormai da un pezzo, ma loro non me lo permettono". Dissi triste, scoprendo finalmente una colpevolezza di quello che stava succedendo.
"Mi stanno ricattando". Dissi cupo e bevvi un altro sorso di Mohito. Rebecca mi fissava intensamente.
"Non ho mai pensato particolarmente bene a tua moglie". Ci credo sei innamorata di me, ecco perché. Pensai acido, pentendomene qualche instante dopo.
"Già in momenti come questi mi viene voglia di…". Mi bloccai, fermandomi prima che fosse troppo tardi. Bevvi un altro sorso di Mohito.
"Ucciderla". Disse composta, come se anche a lei balenasse quel’idea ogni volta che la vedesse. No, certo che no. Rebecca ha frequentato psicologia al liceo, solo per questo riesce a intuire il tuo stato d’animo. Guardai pensieroso il cielo stellato. Non dovevo andare oltre, non dovevo esser visto come un pazzo dalla dolce e bella Rebecca.
"Con me ti puoi confidare". Disse lei quieta. Io deglutì. Prendendo fiato per quello che dovevo dire.
"Stamattina volevo metterla sotto, questa sera quando l’ho rivista, volevo tirare a lei e sua madre la sedia della Imetec sulla colonna vertebrale per paralizzarle". Lei rise.
"Hai davvero poca fantasia". Disse mentre rideva fragorosamente, succhiò dalla cannuccia un altro sorso di Mohito. Io la guardai agitato.
"Non temere non sono pazza, uccidere è male, ma il pensiero di farlo a volte capita, non te ne faccio una colpa". Disse dolce. Io le sorrisi.
"Cosa credi debba fare?". Le chiesi. Il cameriere tornò con in mano due pizze e le dispose sul tavolo, dando a me quella con le margherite e a lei con le zucchine. Io mi alzai e le scambiai. Il cameriere ci guardò disgustato e se ne andò.
"Che cosa vuole quello?". Chiesi a Rebecca, lei scosse la testa. Impugnò forchetta e coltello e cominciò a tagliare la pizza in otto fette. Io a mia volta la tagliai in quattro fette e me ne portai una alla bocca, affamato com’ero. Restammo in silenzio per qualche minuto, mentre lei tagliava concentrata la pizza.
"Non mi hai ancora risposto". Le dissi mentre la guardavo, aspettando la sua reazione.
"A quale domanda non ti avrei risposto?". Mi chiese alzando lo sguardo per incrociare il mio.
"Che cosa devo fare con mia moglie". Dissi calmo, fissandola negli occhi castani.
"Lo sai già". Disse e tornò a tagliare la pizza, posando poi le forchette e portandosene una fetta di pizza alla bocca. Io trangugiai la seconda fetta.
"Cosa c’è tra te e Marco?". Dissi posando lo sguardo sui suoi setosi capelli che aveva tirato indietro per non sporcarli. Lei rise.
"Cosa credi ci sia?". Mi chiese sorridente. Io la guardai mesto.
"State insieme?". Lei posò la pizza e si pulì le mani con il tovagliolo.
"Angelo, tu mi piaci, potrei quasi affermare che ti amo, ma finche sei sposato non possiamo stare insieme". Si alzò dal tavolo e mi baciò sulla guancia. Raccolse i suoi fiori e se li portò al petto.
"Ti dispiace pagare anche per me, devo andare, ho un appuntamento in discoteca con delle mie amiche fra mezzora". Disse mentre guardava l’orologio sul marciapiede. Io annui e la salutai con la mano. Restai solo a finire la pizza.
Aprii la porta silenziosamente, posai le chiavi sul comodino, così come il telefono e mi preparai il letto sul divano. Non avevo voglia di dormire con la donna che non mi permetteva di vivere sereno. Fatto il letto, mi stesi sul divano, con le braccia lungo i fianchi e lo sguardo perso nel vuoto. Non riuscivo ad addormentarmi, i miei unici pensieri riguardavano la bella Rebecca, con quel vestito succinto e l’ostacolo Linda, con quelle zampe di gallina che le deturpavano il volto. Non volevo più vivere in quel matrimonio senza fine. Ricordavo i pochi giorni felici nel matrimonio tra me e Linda, ma a questi singolari ricordi erano legati ricatti, imbrogli e bugie. Tutto a mio discapito. Ero stato per tutti i nostri quattro anni di matrimonio, un marito fedele e accondiscendente. Le avevo comprato i gioielli più belli e regalato i viaggi più costosi. Comprato la casa che sognava, anche se era assai lontana dal mio lavoro e scomoda per me. Avevo ogni giorno ascoltato la sua giornata e chiesto come si sentiva, l’avevo servita quando stava male e lei mi aveva ripagato con tono acido. Non potevo sopportare oltre. Come aveva ben detto essa, il divorzio avrebbe distrutto me soltanto. Nell’accordo del sacro matrimonio c’era una clausura, finche morte non vi separi e la morte doveva venire, se non per mano naturale che ci avrebbe messo anni e Rebecca avrebbe messo di aspettarmi, per mia mano sarebbe accaduta. Dovevo essere furbo, non sarei dovuto essere sospettato, avrei dovuto passarla liscia, non dovevo minimamente rischiare la prigione che mi avrebbe diviso da Rebecca. Non avrei mai pensato di ucciderla, ma era stata chiara, ero io che dovevo cambiare e sicuramente in meglio di così non potevo, avrei dovuto cambiare in peggio. Dovevo essere furbo, davvero furbo. Metterla sotto con l’auto sarebbe stato troppo facile e i vicini avrebbero parlato, benché anche la maggior parte di loro la odiasse. Buttarle un peso sulla colonna vertebrale avrebbe sollevato troppe domande: Ma perché hai lanciato un peso simile? Come hai fatto a prenderla se non volontariamente? Troppe stupide domande. Sarei dovuto essere paziente. Domani sera ci sarebbe stata una festa al lavoro che durava fino a tardi, lì avrei avuto prova della mia innocenza. Il tempo sarebbe stato sufficiente? Doveva esserlo. Ma cosa agiva senza la mia presenza? Che cosa uccideva nel sonno, lasciando ai poliziotti solo un’amara risposta: "Il destino ha fatto il suo corso, siamo desolati signor Stencoforte", qual era quella forza che agiva nel sonno e che non avrebbe procurato danni alla casa, così che Rebecca ed io ci avremmo potuto vivere? Non certamente il fuoco. L’asfissia. Di certo non avrei potuto soffocarla con il cuscino, si sarebbe scoperto dall’autopsia che l’orario corrispondeva a quando ero ancora a casa e se poi avesse urlato? I vicini avrebbero chiamato la polizia che mi avrebbe colto sul fatto. Un’idea. Cosa m’imponeva mia madre di controllare ogni sera prima di andare a dormire? Il gas! Se avevo spento il gas, in modo che non ci fossero fuoriuscite. Mi addormentai sorridente.
Mi svegliai raggiante, rigenerato. Linda sedeva in cucina, non muovendosi alla mia entrata. Attendeva delle scuse. Probabilmente avrei dovuto scusarmi con lei prima di ucciderla, così non ci sarebbe stato un movente. Mi avvicinai a lei, sfiorandole con la bocca la mano.
"Scusami amore, solo ieri ho capito quanto ti amo". Lei rise acida.
"Cos’è nessuna ti ha risposto al cellulare e quindi la tua autostima si è abbassata?". Io scossi la testa.
"No cara, ho ripensato al nostro matrimonio, a quanto ti amavo, voglio che tutto torni come prima, voglio avere dei figli da te". Dissi cercando di non vomitare al pensiero di un figlio tra me e Linda. Lei sorrise, probabilmente impietosita da quella richiesta.
"Va bene, ti scuso, ma la prossima volta non avrai un'altra chance". Disse e mi baciò sulla bocca. Un bacio freddo e senza passione. Le sorrisi con la stessa freddezza.
"Tesoro io da ieri mi sono portato il lavoro a casa, non vorrei recarti noia, perché non vai da una tua amica?". Lei annui.
"Credo andrò da Fulvia, mi trovi alla casa di fronte alla nostra, se ti serve, tornerò per pranzo, perché non mi prepari tu qualcosa per scusarti?". Disse imperiosa. Io annui. Mi recai nello studio, fino a quando non uscì dalla casa. Aspettai il tempo necessario che si allontanasse e per non avere brutte sorprese misi la catena alla porta, presi il martello e cercai il tubo del gas. Lo chiusi prima, per evitare di essere ucciso dalla stessa cosa che volevo ritorcere contro mia moglie. Trovando il tubo mi preparai a romperlo, quando squillò il telefono. Tremai e l’adrenalina mi colse, inondandomi il corpo. Risposi tremante al telefono.
"Pronto chi è?". Balbettai. Dall’altro capo ci fu una fragorosa risata.
"Sono io, Rebecca". Sospirai di sollievo e mi rilassai, distendendomi sul divano.
"Rebecca, che piacere sentirti!". Lei sogghignò.
"Hai scoperto cosa fare con tua moglie?". Disse dolce. Io sorrisi.
"Questa notte sarò più felice". Dissi senza riflettere, accortomi di cosa avevo detto mi affrettai ad aggiungere:
"Vedendoti in tutta la tua bellezza alla festa del lavoro". Sospirai per il rischio sventato. Lei rise.
"Mi dispiace Angelo, io questa sera non sarò presente alla festa, ma sei sicuro che con tua moglie sistemerai tutto?". Disse lei criptica. Deglutii.
"C-certo". Balbettai. Lei rise estasiata. Io sorrisi.
"Ne sono felice, ora devo andare e oh, Angelo?". Spalancai gli occhi.
"Si?". Le chiesi.
"Ti amo". Disse e detto ciò attaccò il telefono. Un sorriso mi si stampò in volto e dopo questa telefonata ero ancora più determinato a fare ciò che mi ero premesso. Ritornai a scalfire leggermente il tubo del gas così che mia moglie sarebbe morta nel sonno.
"Tesoro io vado, sicura che non vuoi accompagnarmi?". Le chiesi conoscendo che bene che il sabato sera lei non si sarebbe mai mossa per nessuna ragione al mondo da casa, rimanendo a guardare la serie tv intitolata: “Greys Anatomi”.
"No, caro, vai e divertiti senza tradirmi". Disse acida mentre si accingeva ad accendere la televisione. Io sorrisi e la salutai con un bacio sulla guancia. Prima di uscire da casa passai per la cucina e accesi la manopola del gas, presi cellulare e chiavi. Lasciai mia moglie viva per l’ultima volta. Ci misi un’infinità a convincermi a chiudere la porta, senza tornare in cucina per spegnere il gas. Ma lei mi aveva trattato per anni come uno schiavo, come fossi inutile e si meritava di morire, chiusi con forza la porta, lasciandola a morire. 
Per tutta la durata della festa cercai di risultare normale, conversando con Marco e Fabrizio, accennando il meno possibile a mia moglie. Se nella vostra vita non avete mai rubato niente, non potete capire come ci si senta. A ogni accenno a mia moglie mi aspettavo che mi accusassero di averla uccisa, l’adrenalina mi scorreva nelle vene, ero impaziente, avevo calcolato che per mezzanotte sarebbe morta, io dovevo solo recitare infinitamente bene, dovevo solo invitare Marco e Fabrizio a venire con me, aperta la porta avrei sentito la differenza di odore ed entrato in cucina, avrei scoperto che la manopola era aperta e che c’era una fuga di gas, lì sarei impazzito correndo verso mia moglie, presumo che Marco e Fabrizio mi avrebbero portato fuori o seguito, in ogni caso la polizia sarebbe arrivata e avrebbe pronunciato le cruciali parole: “Il destino ha fatto il suo corso, siamo desolati signor Stencoforte”. Ed io avrei pianto, mi ero allenato anche su quel frangente e mi veniva piuttosto bene, bastava incanalare tutti i tormenti che mi aveva fatto passare quella donna che le lacrime sarebbero uscite copiose. Poi avrei cominciato a frequentare Rebecca, senza impegnarmi poiché ero appena uscito da una terribile situazione e tutto si sarebbe risolto, avrei rincontrato un’ultima volta la suocera al funerale e poi avrei tagliato i contatti. 
"La festa qui sta morendo". Dissi cominciando a recitare il mio copione. Marco e Fabrizio mi fissarono indagatori.
"Che ne dite se andiamo a prenderci un drink a casa mia?". Marco annui all’istante, mai avrebbe detto di no a un alcolico.
"Non so, Catia ha bisogno di me, non posso tornare troppo tardi". Lo guardai implorante. Lui non doveva mancare, Marco sarebbe stato sbronzo all’arrivo e non sarebbe stato un utile testimone.
"Perché, cos’ha?". Chiesi. Fabrizio abbassò lo sguardo e sorrise.
"Ragazzi a voi non posso nasconderlo, Catia ha scoperto di essere incinta!". Disse radioso. Gli diedi una pacca sulla spalla e lo abbracciai.
"Allora non puoi dire di no, vieni da noi a festeggiare, sveglierò anche Linda per l’occasione!". Dissi uscendo leggermente dal copione. Fabrizio annui.
"Ha ragione Angelo, queste cose succedono raramente nella vita, dobbiamo festeggiare, andiamo". Prendemmo tutti le nostre rispettive macchine e arrivati di fronte alla mia proprietà, accostai, aspettando loro per entrare. Mi si avvicinarono, Marco faceva battute sulle donne incinte e Fabrizio lo guardava torvo. Inserì la chiave nella serratura e la girai, la porta si aprì con uno scatto. Mi fermai sulla soglia e odorai l’aria. Non c’era odore di gas, accesi la luce della cucina, la manopola era stata rigirata, il gas era stato chiuso. Il mio intento non era riuscito. Marco e Fabrizio si sedettero sul divano.
"Va a chiamare la dolce Linda". Disse Fabrizio. Io annui. La prossima volta avrei ricalcolato il piano, salii su per le scale e aprì in un cigolio la porta. La stanza era immersa nella penombra, mia moglie era adagiata sul letto, inerte, accesi la luce, mi bagnai le mani di un liquido appiccicoso. Sarebbe toccato a me pulire. La luce rivelò la vera consistenza di quel liquido. Urlai. Rimasi fermo immobile, mentre dei passi veloci si avvicinavano a me. Marco e Fabrizio mi furono vicini. Fabrizio mi tirò indietro frapponendosi tra me e mia moglie. Marco prese prontamente il telefono e chiamò la polizia.
"Pronto, chiamo da via Stalin numero cinquantatre, c’è la moglie del mio amico morta sul letto, fate presto, credo si tratti di omicidio". Fabrizio mi abbracciava dicendomi di stare calmo. Io rimanevo immobile, paralizzato dal terrore. Chi l’aveva uccisa? Il volto era tumefatto, gli occhi e il cuore asportati e posti sul comodino, tutto questo in una miriade di sangue. Non ero stato io, chi si era introdotto in casa mia e aveva ucciso mia moglie. Solo in quell’istante mi accorsi di quanto terribile era la morte, di quanto ero stato stupido a pensare di ucciderla. Mi lasciai trasportare inerme da Marco e Fabrizio nel salone. Mi adagiarono sul divano e mi si frapposero davanti. "Come ti senti?". Mi chiese Marco. Fabrizio era andato in cucina e stava riempiendo un bicchiere d’acqua. Respirai profondamente.
"E’ morta". Mi vennero le lacrime agli occhi. Chiunque dica che a piangere debbano essere solo le donne è un tale stupido. Marco mi appoggiò la mano callosa sulla spalla e mi guardò compassionevole, Fabrizio tornò dalla cucina e mi porse il bicchiere d’acqua. Le sirene della polizia si udivano in lontananza. Non mi accorsi di quello che successe dopo, percepii solo qualche parola del tenente che affermava fossi sotto choc e di Marco che si offriva a portarmi a casa con lui. Due giorni dopo ci fu il funerale, l’FBI non trovò impronte oltre alle mie sulla luce e a quelle di Linda, mi lasciarono seppellire il suo corpo.
Molti colleghi del lavoro mi furono vicini, in particolar modo Marco e Fabrizio. Fabrizio abbracciava la fidanzata, Marco aveva la testa china e ascoltava silenziosamente l’oratorio del prete. Finita la messa mi chiese se avevo qualcosa da aggiungere, scossi la testa e mi alzai allontanandomi dalla folla in lutto, Rebecca mi seguì per poi fermarmi, lontano da orecchie e occhi indiscreti.
"Come ti senti?". Mi chiese vivace. Io la guardai, invidioso della sua felicità.
"Mia moglie è morta come dovrei sentirmi?". Lei annui.
"Sai uccidere con la scusa di una perdita di gas una persona è da stupidi, poi col tempo ci farai la mano, ma senza il mio aiuto ti avrebbero beccato". Alzai lo sguardo a quelle parole. Rebecca sorrideva.
"L’hai uccisa tu?". Balbettai spaventato dalla persona che mi stava di fronte.
"E chi se no, tu non di certo, ora ringraziami, nessuno scoprirà mai chi è stato, è il nostro segreto". Disse mettendosi un dito sulle labbra per indicarmi di stare in silenzio. Io la fissavo impietrito, non riconoscendo la donna che amavo.
"Tu…". Lei rise amara.
"Non guardarmi così, sei statu tu il primo a volerla ucciderla, sei colpevole quasi quanto me". Disse. Si avvicinò a me, baciandomi la guancia.
"Ora torniamo a funerale". La seguì. Le persone ci guardavano tristi. Il prete chiese se qualcuno voleva intervenire per salutare un ultima volta la cara Linda, fu Rebecca a proporsi. La rabbia mi sovrastò, dietro di me il cugino di Linda giocava con un coltellino svizzero, io gli e lo presi di scatto e pugnalai Rebecca. Lei mi guardò amara.
"Perché?". Mi disse con la vita che usciva dai suoi polmoni. Guardai la folla terrorizzata, poco dietro due ragazzi vestiti di nero che avevano assistito alla scena stavano scappando. Non ero un mostro, non ero io il vero mosto. Mi arresteranno per omicidio e complice di un omicidio, la mia vita è finita. Pensai dolorosamente e mi pugnalai al cuore. 
  
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