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Autore: _Marika_    23/05/2013    1 recensioni
Verena e Steve. A New York.
La loro vita si srotola tranquilla fino ad un imprevisto: il nuovo lavoro di Verena. E, soprattutto, il nuovo intrigante capo di Verena, che ad un tratto comincia a dimostrare delle particolari attenzioni nei suoi confronti..
Questa è la storia di un amore. Un amore brillante, ironico, sofferto, vissuto, vero. Un amore banale e, nella sua banalità, così stupefacentemente inconsueto.
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Mike o la svolta inaspettata

 

 

 

Ho avuto parecchie relazioni nella mia vita.

Non avendo avuto la fortuna sfacciata di mia madre -che incontrò mio padre a vent'anni ad un ricevimento a Mosca e se ne innamorò perdutamente al primo sguardo, escludendo così qualunque altro esponente del genere maschile dalla sua vita- ho dovuto accontentarmi di quello che mi capitava.

Non sono una ragazza dai gusti difficili, lo ammetto.

Che poi ho anche poco da far la difficile, con la faccia da cavalla androgina che mi ritrovo. Mia madre no che non aveva avuto problemi ad accalappiare mio padre, poveretto! Sfido chiunque a resistere ad una biondona alta un metro e ottanta, con gambe lunghe come la transiberiana e due tette esibite in modo quasi vergognoso.

Mi sono innamorata di tuo padre appena l'ho visto” mi aveva cinguettato mia madre quando avevo sei anni. “Mi ha stregata con quei suoi modi da predatore”.

In realtà, dove mio padre avesse questi modi da predatore, io dovevo ancora capirlo. Mio padre era tutt'altro che bello. A vederlo non diceva niente di che: era basso, tozzo, con mani troppo grandi e capelli scuri. Forse ciò che più aveva affascinato mio madre era la voce: mio padre ha una voce roca e calda, la voce giusta per raccontare una favola ad un bambino. Ma forse non era proprio una favola quella che mia madre sperava di sentirsi sussurrare all'orecchio da mio padre, a quel tempo.

Che due porci.

Comunque.

Dicevo di avere avuto molte relazioni. E' vero.

Poco tempo fa ho trovato per caso questa frase, che mi ha molto colpita: forse Dio vuole che tu conosca molte persone sbagliate prima di conoscere la persona giusta, in modo che, quando finalmente la conoscerai, tu sappia essere grato. Era un poeta spagnolo, o forse portoghese, non ricordo.

Se è così, Dio si è divertito molto con me, prima di regalarmi Steve.

Prendiamo Mike, per esempio.

Mike è stato il mio primo ragazzo all'high school. Mike odiava il football, odiava la scuola, odiava la sua famiglia. In effetti, forse odiava un po' tutto. Ma aveva questa sorta di malinconia poetica che mi affascinava, e questo odio indiscriminato che aveva nei confronti del mondo lo rendeva piuttosto divertente. E poi si sa, le persone che sputano cattiverie non sono mai noiose.

Io sapevo che Mike non era cattivo, in fondo. Stava passando quel periodo della vita in cui si vuole a tutti i costi emergere dalla massa, in cui ci si vuole sentire unici, meravigliosi, incompresi, ribelli. Mike era un po' sfigato, ma era anche un po' bohémienne.

Io ero la sua vicina di banco nelle ore di biologia e matematica. Iniziò con le sue lamentele sul vetrino scheggiato del laboratorio e finì con una limonata piuttosto ardita nello spogliatoio delle ragazze.

Non era un granché come baciatore, se proprio vogliamo dirla tutta. Però le ragazze della squadra di pallavolo ci videro, e si sa come girano i pettegolezzi a scuola. Prima che suonasse la campanella della pausa pranzo lo sapevano perfino il preside e la bidella con la sciatica dell'ultimo piano. In meno di una settimana la fama di Mike come sciupafemmine schizzò alle stelle: si parlava di come si fosse fatto Emily Wilson e Charlotte nello sgabuzzino delle scope, e sembrava che con Summer Oregon avesse avuto perfino una sveltina.

Tutto questo, solo per uno squallido bacio con me.

Due settimane dopo, Mike mi aveva scaricata per una cheerleader grassoccia con le trecce, famosa per i suoi lollipop.

A quell'età i doppi sensi si sprecano.

La mia storia con Mike era durata poco, ma qualcosa mi aveva insegnato: basta un gesto per capovolgere una situazione, nel bene e nel male. Forse io, interessandomi a Mike, avevo reso migliore la sua vita. Lui non si era sprecato a ringraziarmi, ma a me non interessava: la gratitudine ormai è un sentimento raro come un cane giallo. Non che io sentissi una profonda e indignata mancanza di questo 'grazie'. Magari è stato lui a spingere me verso la parte giusta della vita, chissà. Il buon Dio opera per vie misteriose, eccetera, eccetera.

Certo, che un bacetto bavoso che sapeva di deodorante portasse a lollipop non l'avrei mai potuto immaginare, ma si sa, quando la vita ci si mette in mezzo...

 

•••

 

Mmm. Devi proprio andare?” mi lamentai, facendo capolino dalle coperte.

Steve era già in piedi, vestito di tutto punto, e si stava facendo il nodo alla cravatta. “Direi di sì, devo proprio andare. Non vorrai che anch'io rimanga deliziosamente disoccupato, no?” disse, scoccandomi un'occhiata irriverente.

Tornai a nascondermi sotto le coperte, sofferente. “Colpo basso. Sotto la cintura non è regolamentare, sai?”.

Mi sembrava che fossi tu la prima a frugare sotto la cintura, ieri sera”.

Doppio colpo basso. Sto agonizzando”.

Lo sentii ridere e sedersi sul letto. Sbucai di nuovo dalle coperte e lo guardai. La linea dura della mandibola, la rasatura perfetta delle basette, i riccioli scuri che gli circondavano il capo come un'aureola angelica. Da bambino Steve doveva essere uno splendido esempio di putto preraffaellita, con quei capelli.

Dopo essersi allacciato le scarpe si girò verso di me. “Che farai oggi?” chiese, allungando una mano per carezzarmi una guancia.

Mmm. Penso che andrò a iscrivermi ad un corso di ju jitsu. Troppi colpi mortali stamattina, devo sapermi difendere”.

Tu parli? Con la lingua ti difendi fin troppo bene, te l'assicuro”.

Perché anche questo mi sembra un doppio senso schifosamente maschilista?”.

Perché hai una mente malata” replicò lui, stampandomi un bacio sulla fronte e alzandosi per mettersi il cappotto. “Torno stasera, alla solita ora. Ceniamo fuori?”.

Ti aspetti davvero che io cucini qualcosa?”.

Io ci spero sempre, non si sa mai”.

 

•••

 

Che la vita fosse piena di cambiamenti inaspettati, l'avevo capito fin da bambina. Mia madre ne era un esempio. Nata in Russia da genitori russi, costretta al lavoro di modella fin da quindici anni per portare il pane a casa, aveva visto solo steppa siberiana e passerelle prima di conoscere mio padre.

Poi si erano incontrati, innamorati e zac! lui l'aveva portata con se in giro per il mondo: avevano visto la Spagna, il Marocco, la California, l'Argentina, il Sudafrica.

Avevano girato per anni, grazie al lavoro di mio padre.

Io avevo già due anni quando lui le aveva chiesto di sposarlo, sullo sfondo mozzafiato dei colori del Gran Canyon. Per questo portavo ancora il cognome di mia madre, Vakhrusheva. Avevo passato metà dell'adolescenza a sillabarlo ad ogni mio professore e coetaneo, finché i malcapitati non accettavano il fatto certi suoni andavano al di là delle loro capacità di articolazione glottologica.

Non pensavo al mio cognome quando entrai nella casa editrice del Fashion Time Magazine, ma se avessi saputo che sarebbe servito ad assicurarmi un lavoro l'avrei schiaffato sulla scrivania della hall prima ancora di dire buongiorno.

Ma allora non lo sapevo, quindi restai docilmente in attesa. La tizia bionda alla scrivania stava parlando al telefono. Dal modo incerto in cui teneva la cornetta si poteva intuire che si era appena messa lo smalto sulle unghie.

Rosa antico, se vi interessa.

Quando finalmente mise giù il ricevitore, mi feci avanti baldanzosa.

Salve, sono Verena Vak...”.

Desidera?” mi troncò la bionda senza staccare gli occhi dal computer.

Nascosi una smorfia infastidita.

Vi ho mandato il mio curriculum circa tre settimane fa, avevo trovato un articolo in cui la Fashion Time Magazine diceva di aver bisogno di dipendenti e volevo sapere se...”.

Abbiamo già trovato qualcuno per quell'incarico” mi liquidò.

Ah” mormorai. “Grazie allora, e arr...”.

Arrivederci” tagliò corto la segretaria, senza mai alzare gli occhi dallo schermo.

Mi voltai piano, svilita, ma andai a sbattere contro un tizio alto che stava in fila dietro di me.

осторожны, юная леди!” strillò questo, decisamente alterato.

Oh, mi scusi! Cioè, мне очень жаль, я не видел”.

Il tizio sembrò illuminarsi d'immenso. “Вам говорят на русском?” mi chiese.

Sì, sì, parlo russo. Ehm, cioè, mi scusi: Да, я говорю на русском”.

Oh, grazie al cielo!” tuonò il tizio, con un forte accento di Mosca. Era vestito elegante e stringeva una ventiquattrore. Aveva tutta l'aria di essere un influente industriale. O un mafioso. “Finalmente qualcuno in questo dannato posto che sa come si ci comporta. Lavora qui da molto?” sbottò, prendendomi alla sprovvista.

Cosa? Ah, bè, veramente io...”

Una voce sconosciuta arrivò in mio aiuto. “E' stata appena assunta”.

Mi voltai di scatto, ipersensibile in quella situazione insolita.

Accanto era apparso un uomo sui quarant'anni anni, con capelli brizzolati e profilo aristocratico.

Benvenuto al Fashion Time New York, signor Stjepanovic;” esordì lo sconosciuto, con una voce così profonda e roca che quasi sentii vibrare il pavimento “la stavamo aspettando”.

 

 

 

Con una spinta decisa ma gentile il tizio dalla voce roca mi spostò verso di lui, facendo strada al mafioso russo. “La ringrazio, Signor Carter. Наконец кто-то, кто имеет благопристойность, чтобы нанять переводчика!”.

Tale Carter si voltò verso di me con naturalezza, come se ci conoscessimo da sempre. Capii che da me voleva una traduzione simultanea. “Finalmente qualcuno che ha la decenza di assumere un traduttore!” recitai tutto d'un fiato, come quando da bambina mi appioppavano il ruolo di voce narrante nel musical di Anna Karenina. Un po' avvilente, in realtà. E pure razzista. Non chiedetemi perché alla scuola primaria dovessimo mettere in scena una storia tanto scabrosa. In musica, perlopiù. Forse per indicare alle dodicenni quale sarebbe stata la loro fine in caso scegliessero la via della promiscuità sessuale. O forse perché la mia maestra di geografia aveva un master in letteratura russa e se la faceva con il tizio che tagliava le aiuole. Bah. Orribile scenografia, comunque.

Il mafioso russo marciò baldanzoso verso l'ascensore, e Carter mi fece cenno di seguirlo con una lieve pressione sul gomito.

Sempre più confusa, lasciai che le porte dell'ascensore si chiudessero dietro di noi. Il russo schiacciò il numero 19, e un silenzio imbarazzante ci avvolse come una coperta. Avevo un mafioso sovietico alla mia destra e un tizio altrettanto losco e autorevole alla mia sinistra. E non avevo la minima idea di cosa facessi lì.

Come si chiama, signorina?” mi chiese cortesemente il signor Stjepanovic nella sua lingua madre.

Verena Vakrucheva, signore”. Il tizio con la voce roca non chiese nulla, ma intuì il contenuto della conversazione e si fece attento.

Siete stata assunta da poco, signorina Vakrusheva?” continuò il russo.

Da pochissimo, direi” risposi, con una nota di nervoso sarcasmo. Cominciai a sudare. Cosa dovevo dire? Cosa non dovevo dire? Aiuto.

Per fortuna la conversazione verté su un campo in cui mi sentivo più a mio agio. “Da dove viene? La sua pronuncia che non mi è nuova”. Dentro di me tirai un sospiro di sollievo. “Mia madre è di Noril'sk ma io sono nata in America. Ho perso molto del mio accento, ma la mia S a quanto pare ancora mi tradisce”.

Stjepanovic si fece una grassa risata. Dio, era proprio un mafioso.

Carter, alla mia sinistra, mi squadrava.

Le piace il suo lavoro qui? Dicono che Carter sia un vero stronzo con i suoi collaboratori”. Altra grassa risata. Grazie a Dio in quel momento il bottoncino 19 si illuminò, e le porte dell'ascensore si aprirono. Il signor Stjepanovic marciò fuori dall'ascensore senza aspettare una mia risposta, continuando anzi a ridacchiare.

Cosa vi siete detti?” mi sussurrò Carter appena Stjepanovic fu in fondo al corridoio. Ci incamminammo anche noi. “Che sono stata assunta da poco. E poi ci siamo dilettati in una rievocazione geografica dell'ex Urss. Ah, e che lei è uno stronzo. Credo di meritare un aumento per questo”.

Carter mi fissò in faccia uno sguardo sbalordito. Poi fece un sorriso a mezza bocca. “Non hai ancora firmato niente e già contratti lo stipendio?”.

Non replicai, perché raggiungemmo Stjepanovic che si era fermato ad aspettarci. “Su, su, non ho tutto il giorno!” mugugnò infatti in un inglese stentato.

Spalancò una porta alla nostra destra, e entrammo in una sala riunioni gremita. Sembrava che aspettassero solo noi.

Tutti si alzarono con rispetto, salutando il signor Carter e Stjepanovic. Ricevetti qualche occhiata incuriosita, ma nessuno osò chiedere quale fosse la mia utilità in quel luogo. Subito, comunque, Carter la rese evidente a tutti: “Questa è la signorina Verena Vakrusheva, mediatrice linguistica”. Tutti gli sguardi curiosi si spostarono altrove, congelandosi in indifferenza.

Stjepanovic posò la sua valigetta nera sul tavolo, esordendo con un orgoglioso “Gudmorrning to evribody!” per poi cominciare a ciarlare in russo come nemmeno una matrona polacca. Tradussi alla buona per gli astanti, fingendo disinvoltura. Era una vita che non sentivo parlare russo... a parte le invocazioni alla madonna di mia madre al telefono ogni giovedì sera. Inventai qualche vocabolo sperando di azzeccare il contesto generale.

Non mi era sfuggito, comunque, che si parlasse di moda.

Stjepanovic era venuto a proporre l'articolo di copertina del numero di Dicembre di Fashion Magazine: la modella lesbica Irina Pavlova vestita solo di candy canes, ovvero i bastoncini di zucchero rossi e bianchi tipici del periodo natalizio, mentre volteggiava su una nuvola di zucchero filato. Un'idea terribile, ma fortunatamente io dovevo solo tradurre e non fare commenti.

Stjepanovic propose perfino esempi grafici sulle posizioni provocanti della modella, disegnati su A4 con il carboncino.

Alla fine della presentazione calò un silenzio cogitabondo sull'intera sala. Carter al mio fianco non mostrava alcuno stato d'animo, ma guardava fisso uno schizzo abbandonato sul tavolo.

Tutti pensavano che fosse un'idea orribile, lo sapevo.

E' una buona idea” mi contraddisse invece Carter, mentre tutti i presenti si affrettavano ad annuire convinti come cagnolini; “ma i bastoncini di zucchero non mi piacciono. Forse delle palline dorate sarebbero più adeguate. Più natalizie”.

Mentre un mormorio di “è un'ottima idea!” e “geniale!” percorreva la sala come un cancro maligno, Stjepanovic si ergeva in silenzio, valutando accuratamente la proposta.

Se ne può discutere” approvò con un cenno di capo. “Irina si trova già al Palace Hotel, e domani potremmo già provare qualche scatto con la mia troupe di scenografi”.

Perfetto” annuì sobrio Carter.

Fu come se fosse suonata la campanella dell'ultima ora, perché tutti si affrettarono a scostare le sedie e ad andarsene facendo un gran baccano.

Che idea strepitosa”, “Sarà la copertina più bella della stagione”, “Che dici? La migliore di sempre!”.

Guardai tutti come se fossero impazziti. Zucchero filato e palline di Natale? Ma per favore.

Alla fine rimanemmo solo io, Carter e Stjepanovic. Quest'ultimo stava riponendo tutti i fogli nella sua valigetta con grande cura, evidentemente soddisfatto della sua prestazione. Io e Carter ci guardammo.

E ci capimmo.

идеальный, Carter. Tomorrow then. I will have breckvfast wit Irina and then we see here at haf pas ten. Gudbye!”.

Detto questo Stjepanovic strinse la mano a Carter e se ne andò fischiettando. Quando fu lontano, il signor Carter si voltò verso di me con la fronte aggrottata. Lo notavo solo ora, ma quell'uomo aveva i più straordinari occhi verdi che avessi mai visto.

La sua espressione, però, era molto infastidita. “E ora che diavolo ci faccio con te?”.

   
 
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