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Autore: Peppers    24/05/2013    1 recensioni
"Il Destino plasmò il mondo, poi creò gli Dei affinché popolassero la Terra. Dapprima vennero si destarono le Bestie, poi gli Elfi e i Nani, per ultimi gli Uomini, la giovane gente, ognuno secondo la propria provenienza"
(Incisione Elfica rinvenuta nel nord della Norvegia)
Un Europa nata dall'unione di storia, fantasia e mitologia fa da sfondo alle vicende narrate in questa collezione di one shots. Tante vicende sparse, come mille frammenti di luna, nello spazio e nel tempo.
I capricci degli Dei del pantheon greco-romano, elfico e nanico; la sopravvivenza di culti proibiti e misteriosi come l'adorazione di Bhaal a Cartagho; la guerra fra l'Impero Romano e le creature fantastiche; i meandri più tenebrosi delle caverne degli Elfi Oscuri; le foreste impenetrabili degli Elfi Silvani; le mirabili imprese degli Elfi del Crepuscolo; gli incanti del Palazzo di Ghiaccio dei Nani Nordici. Queste sono solo alcune dei temi della raccolta.
Ogni racconto, un volto. Ogni racconto, una storia. Ogni racconto un filo di un'intricata matassa. Ogni racconto una sfaccettatura di un poliedro fantastico che vi riserverà mille sorprese.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’OLOCAUSTO DEGLI ANGELI – PARTE II

 
Soundtrack consigliata : http://www.youtube.com/watch?v=R8MzHqkNBwo
 
 

“Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno
e, mentendo, diranno contro di voi ogni sorta di male per causa mia.”
Matteo 5, 11

 
 
3. Lavinia si era lasciata condurre via senza opporre alcuna resistenza.
Teneva il figlio stretto a sé, ma non riusciva a ribellarsi. Negli occhi, gonfi di lacrime, aveva ancora l’immagine della morte di Vatinio. Non riusciva a capire il senso di tutto ciò che le stava accadendo intorno.
Divodurum brillava come una stella nella sua ultima notte, aizzata da roghi e combattimenti. I cadaveri riempivano le vie come se, stremati dalla battaglia, quei soldati avessero solo bisogno di riposare un po’. C’erano ancora sporadici focolai di resistenza, per lo più bande di disperati convinti di vendere cara la propria pelle, ma ormai la città era in mano ai nemici.
Lavinia stringeva il proprio bambino, mentre nel suo animo cupo si delineava l’ineluttabile certezza di orrori ignoti. Gli elfi uccidevano i soldati e ogni uomo che opponeva resistenza. Ammucchiavano i prigionieri in gruppi nelle piazze. Davano alle fiamme i simboli dell’Impero e piantavano vessilli malvagi. Il simbolo del Crepuscolo ora svettava lì dove poco prima l’Aquila strillava, indomita, la propria sfida al cielo. Cosa avrebbero fatto dei superstiti? Stringeva il piccolo Cornelio, angosciata da quel pensiero. Vatinio era caduto, e con lui ogni certezza. Era sempre stata una moglie amorevole, con poche pretese se non una mite tranquillità familiare. In vita sua aveva lottato solo una volta: affinché Vatinio abbandonasse la vita militare. Aveva vinto, con la sola arma di lacrime e parole.
Lacrime e parole.
Dubitava che sortissero lo stesso effetto con quei mostri. Quale sensibilità potevano avere creature selvagge come quelle? Erano passate solo poche ore da quando la sua famiglia era stata distrutta, ma aveva l’impressione che l’intero mondo in cui era vissuta fosse lontano mille miglia. Cornelio era in uno stato di atterrita indifferenza. Ciò che era successo aveva dilaniato il suo piccolo animo, lasciandolo in balia di chi gli stava attorno. Lavinia lo capiva semplicemente guardando sul fondo di quegli occhi bruni. Il bambino non parlava né si opponeva. Teneva il viso basso, lasciando che le lacrime increspassero la polvere delle strade. Lo strinse a sé, nell’ultima speranza che non separassero una madre dal proprio bambino. Lo strinse a sé piangendo, come se quel corpicino sporco e tremante potesse darle forza.
Forza.
Forza per far cosa?
Si guardò intorno. Gli uomini venivano condotti come bestie ai recinti. Lavinia si sentì asserragliare in mezzo a una folla di visi sconvolti e stremati. Il guerriero che aveva ucciso Vatinio non  disse un parola. Le lasciò il braccio, la spinse insieme agli altri prigionieri, la scoccò un’occhiata truce e si dileguò, tetro aguzzino di innocenti, a compiere il suo sporco lavoro. Lavinia sembrava non riconoscere più la città in cui aveva vissuto in quegli ultimi anni. Le fontane agli angoli facevano gorgogliare acque rossastre ai piedi delle divinità romane. Di tanto in tanto qualche insula, consumata dalle fiamme, crollava, accasciandosi su se stessa. Alcuni si gettavano dai tetti di quei giganti di legno e pietra, preferendo la morte alla prigionia degli elfi. Altri, incapaci di trovare il coraggio di abbandonare la vita, imploravano un vicino affinché elargisse loro una fine rapida.
Lavinia stropicciò gli occhi mentre scrutava quei figli di Satana. Eccolo lì, ritto su una bestia alta quanto un uomo, l’elfo che i romani chiamavano l’Anticristo, il comandante di quei vili demoni. Indossava un elmo nero con un cimiero grigio che scendeva sulla spalla. Sul suo viso pallido brillavano due occhi di ghiaccio. Aveva uno sguardo determinato, da freddo conquistatore. Reggeva le redini del suo destriero, pericoloso almeno quanto il cavaliere che portava in groppa, avvolto in un manto nero che garriva al vento come le ali di un pipistrello. Lavinia provò un moto di disprezzo contro quel viso giovane e bello, che studiava la città con cinica indifferenza. Impartiva ordini nella lingua degli elfi e nessuno fra gli uomini osava avvicinarvisi. Quando il Cavaliere Nero scesa dalla belva che cavalcava, muovendosi a lenti passi verso la piazza, la folla indietreggiò come di fronte al Nemico di Dio.
«Non azzardate iniziative personali» esordì il Comandante degli Elfi in un perfetto latino. «E non vi verrà fatto alcun male».
Lavinia scosse il capo. Non riusciva a credere alle proprie orecchie. Non vi verrà fatto alcun male. Uno dei uomini aveva fatto irruzione nella propria casa, scovato il loro nascondiglio e ucciso senza esitazione suo marito. Se questo non era considerato fare del male, cos’altro erano in grado di fare quelle creature?
L’Anticristo continuò a parlare alla folla, camminando avanti e indietro con l’elmo sottobraccio.
«La città è caduta nelle nostre mani, dunque non contate più sull’aiuto delle istituzioni romane. Certamente vi state chiedendo perché siamo qui e cosa vogliamo».
Fece una pausa, per dare maggior rilievo alle parole che seguirono.
«Ce lo siamo chiesti anche noi, il giorno in cui il vostro Imperatore ha dato inizio a una caccia la cui ferocia è pari a quello che vedete attorno a voi. Molti di voi erano soldati che hanno difeso fino alla fine la propria città. Molti di voi sono uomini indifesi, vittime inermi di un massacro di cui siete spettatori succubi».
Il suo volto era infiammato da un impeto feroce, di cui tutti ebbero terrore.
«Siamo in guerra con Roma. Ogni guerra ha le proprie vittime. I vostri soldati sono caduti, il vostro Signore si nasconde a Roma. E voi?»
Gli elfi presenti nella piazza scoppiarono in un fragoroso urlo di vittoria a quelle parole. Battevano le lance, percuotendo le pietre delle strade in un coro d’acclamazione.
«Se diserterete l’Impero, avrete salva la vita. Seguirete la nostra colonna, come prigionieri. Spingerete i carri e raccoglierete la legna. Luciderete le nostre spade e ci aiuterete nella nostra marcia verso il cuore dell’Impero».
Parlava con una sicurezza arrogante. Parlava come chi non ammettesse indugi o repliche. La sua voce echeggiava nella notte, strappando lacrime e singhiozzi. Davvero il suo destino e quello di Cornelio era quello di divenire schiavi di colui che aveva schiacciato la loro vita? Lavinia sentì il respiro farsi irregolare. Avrebbe voluto Vatinio al suo fianco. Lui le avrebbe fatto forza. Lui avrebbe trovato una soluzione. Invece era morto, per difendere una libertà che il Cavaliere Nero stava soffocando nel suo terribile pugno. Lavinia sentì le lacrime rigarle la guancia.
 Nemmeno nella morte trovava una consolazione.
Vatinio non aveva mai voluto abbandonare il culto degli dei romani. La sua anima indugiava sulla barca di Caronte verso l’Ade, lontano dal Paradiso cristiano a cui lei era destinata.
Separati per l’Eternità.
Quel pensiero le dilaniò il petto, terrorizzandola più della prigionia e della morte. D’istinto strinse forte a sé Cornelio, che teneva fissi gli occhi verso l’Anticristo.
«Non guardarlo, piccolo mio» gli sussurrò, nel timore che anche solo uno sguardo al Cavaliere Nero portasse sventura.
«Che significa disertare, mamma?»
Lavinia non rispose. Spiegare ciò che li attendeva sarebbe servito solo a rendere più pesante il fardello che gravava sulle loro spalle.
«Se invece rimarrete fedeli a Roma» proseguì il Comandante «morirete per un città che ha ignorato le vostre vite. Dov’era Roma quando la prima città del confine era caduta? Dov’è adesso il vostro Imperatore?»
Ogni parola dell’elfo trasudava un odio più nero della notte, un feroce rancore determinato a lasciare dietro di sé solo morte e devastazione.
«Vi dico io dov’è Teodosio di Roma: uccidere i nostri guerrieri, picchia le nostre donne, tortura i nostri bambini, converte la mia gente al cristianesimo. Scegliete, romani. Scegliete, se vivere o morire. Scegliete, se ribellarvi a un Impero indifferente alla vostra sorte o morire per una bugia che hanno tramato contro di noi. E chiunque andrà in Paradiso non dimentichi di portare queste parole al Dio d’Israele: Edheldur Arhathel, il Cavaliere Nero, il Campione del Dio Mordhros, il Comandante degli Elfi del Crepuscolo di Nainiel, spezzerà la croce e soffocherà Roma nel suo stesso sangue».
Pronunciò il discorso con un impeto tale che dovette riprendere fiato. Persino gli elfi rimasero ammutoliti di fronte alla maledizione con cui Edheldur sfidò il Cielo e la Terra. Lavinia si segnò col gesto della croce, per difendersi dalle parole di quella bestia partorita da Satana in combutta con i peggiori demoni dell’Inferno.
Quando infine il Cavaliere Nero fece ritorno alla sua cavalcatura, vi risalì e dette aria al proprio corno, la notte attorno a lui sembrò farsi più fosca. Tre lunghe note lugubri e sinistre. Lavinia sentì i capelli rizzarsi sulla sua nuca e un brivido mutarle il sangue in acqua. Quando infine Edheldur Arhathel sparì fra le vie per incontrare il suo Stato Maggiore, tirò un sospiro di sollievo.
Il terrore lasciò posto a una scalpitante impazienza. Vivere o morire. Non riusciva ad accettare nessuna di quelle due alternative. Quell’elfo avrebbe retto il confronto col più abile oratore del Senato. Non c’era una vera scelta da compiere. Si trattava se scegliere di morire subito e più tardi. Lavinia non aveva dubbi sul futuro che attendeva i profughi, una volta terminata la guerra. Sul fondo di quei occhi di ghiaccio aveva visto sentimenti inumani, incapaci di provare pietà.
La gente attorno non era meno stordita di quanto fosse lei. Un lugubre silenzio, pregno di rassegnazione, gravava come una cappa immota sui dispersi del massacro di Divodurum.
Cornelio, soprafatto dagli eventi di quella notte, cedette ad un sonno irrequieto. Lavinia lo strinse fra le sue braccia, scaldandolo col suo manto. Sedette sulla piazza, insieme ad altre centinaia di prigionieri. Chiamò a raccolta le ultime forze del suo animo. Barcollava fra un’eccitata ricerca di una via di fuga e l’abbandono alla preghiera. La notte trascorse lentamente, come un carro sovraccarico per una strada impervia.
L’idea le arrivò proprio quando stava cedendo al sonno.
Edheldur Arhathel aveva vinto il suo braccio di ferro con la città e scorazzava ormai incontrastato per Divodurum, scegliendo il luogo più adatto dove stanziare il suo quartier generale. Le morsa degli elfi si era fatta meno stringente. In fondo, perché dubitare che ognuno sarebbe rimasto fermo nel proprio giaciglio? Se doveva agire, questo era il momento. Ora che il nemico era meno vigile, ora che Divodurum poteva ancora offrire qualche gramo rifugio.
Dove gli uomini avevano fallito, Dio poteva prevalere.
Se il Cavaliere Nero era più di un uomo, era certamente meno di una divinità. Lavinia si alzò, fra le braccia Cornelio ancora dormiente, e sgusciò, insignificante ombra nella notte, fino al limitare della piazza. Attese, finché la ronda degli elfi non le lasciò lo spazio di una fuga disperata. Corse a perdifiato, senza voltarsi indietro. Corse col cuore in gola, evitando le strade principali. Normalmente quelle strette viuzze fra le insulae erano il luogo preferito in cui banditi e tagliagole tendevano i loro agguati. Ma la Divodurum che conosceva era morta, e pericoli ben più oscuri che banditi vagavano a piede libero per la città.
Non impiegò molto tempo a raggiungere la chiesa.
Era una costruzione solida, priva delle effigi con cui i maggiori templi pagani erano riccamente decorati. Un edificio squadrato, dal tetto a punta sormontato da una grossa croce. Lavinia passò oltre il portone principale, dirigendosi verso una porticina secondaria che si apriva sul lato orientale dell’edificio. Bussò sul portone arrossato dai riverberi degli incendi. Bussò una seconda volta, ma nessuno venne ad aprire.
«Per l’amor del Cielo» implorò, bussando ancora una volta. Attendeva inquieta, guardandosi le spalle. Sapeva che da un momento all’altro poteva giungere un elfo. Appoggiò la fronte contro la porta e singhiozzava, quando da un piccolo spiraglio apparvero un paio d’occhi tremanti.
La porta s’aprì, rivelando un prete vecchio e curvo. Nello stato in cui si trovava, Lavinia non badò al saio largo e logoro, né ai pochi capelli unti che scendevano ai lati della testa dell’uomo. Cadde in ginocchio di fronte a quel santo salvatore.
«Vi prego, datemi un posto in cui possa nascondermi insieme a mio figlio»
L’uomo si inumidì le labbra, indugiando nel cedere il passo alla donna.
«Credi in Cristo, figliola?»
Lavinia annuì. Incapace a parlare, estrasse una collana da cui pendeva un piccolo crocifisso, testimone della sua fede. Quando la porta si richiuse alle sue spalle, tremava ancora. Sapeva che ci voleva ben più di un portone a fermare Edheldur Arhathel, ma confidava nella sacralità del luogo in cui aveva trovato rifugio.
Il prete condusse Lavinia per uno stretto corridoio che sboccava all’interno della chiesa. Le panche erano state rimosse e ammassate contro la porta principale per aumentare la resistenza di quella piccola fortezza. Centinaia di persone gremivano il vasto vuoto rimasto, sussurrando preghiere, sgranando rosari e piangendo silenziosamente in una sobria austerità. Cornelio si svegliò mentre la madre sedette fra i gradini che conducevano all’altare maggiore.
«Dove siamo, mamma?»
«In una chiesa, bambino mio»
«Mi sono addormentato, mamma»
Lavinia si sentì addolorata dal tono di speranza colpevole che permeava la voce del figlio. Capì che sperava fosse solo un brutto sogno, ma la miseria che li circondava fugò ogni dubbio sull’incubo che stavano vivendo.
«Voglio che tu mi prometta una cosa, Cornelio»
«Cosa?»
Lavinia si tolse dal collo la collana col monile sacro, facendola indossare al figlio.
«Non separarti mai da questa collana»
Cornelio fece un cenno d’assenso, ma non indagò oltre. Rimasero immersi in un cupo silenzio. Lo sguardo del bambino indugiava sulla gente che li circondava, pur senza soffermarsi su nessuno in particolare. Di tanto in tanto gli occhi umidi tradivano i sentimenti del piccolo romano, allora, per cacciare via l’ultima immagine di Vatinio, prendeva a giocare con il crocifisso che la madre gli aveva donato. Lavinia lo osservava con un nodo in gola. Accennava un sorriso e gli sistemava l’orlo della tunica. Come se fosse nato appena quella notte, lo ammirava in silenzio, cercando di imprimere nel cuore con ogni piccolo gesto del figlio.
Il tempo trascorreva pigramente, così lentamente che Lavinia cadde in un grigio torpore senza che ne fosse consapevole. Capì di essersi addormentata solo quando, svegliandosi di soprassalto, trovò Cornelio intento a profonderle delle carezze.
«Ti ho svegliato, mamma?» chiese il bambino.
«No, piccolo mio»
Lavinia rispose in un sussurro, ancora stordita per il sonno e la stanchezza. Strabuzzò gli occhi e studiò attorno a sé. Non era cambiato molto durante il suo riposo. La gente si raccoglieva su se stessa, cercando di fare il meno rumore possibile. I volti, segnati dalle occhiaie, rivelavano animi inquieti e bisognosi di ristoro. Il prete che l’aveva accolta nella chiesa girava fra i profughi con un ciotola fra le mani.
«Prendete, fratelli miei, è tutto ciò di cui al momento disponiamo».
Le mani s’affrettavano a rovistare fra i viveri, raccogliendo un tozzo di pane o un pezzo di formaggio. Quando il prete le offrì il cibo, Lavinia prese soltanto un frutto e lo porse a Cornelio. Di certo, pensò la donna, quel monaco aveva una solida fiducia nella protezione di Dio. Tutto ciò di cui, al momento, disponiamo. Avrebbe forse avuto modo di procurare altro cibo? Ne dubitava. Lasciare quel rifugio equivaleva a consegnarsi agli elfi. Ma la fame si sarebbe fatta sentire, presto o tardi. E allora che avrebbero fatto?
«Basta, Cornelio». Col cuore pesante, interruppe il pasto del figlio. «Basta così, o rimarremo senza cibo».
Il bambino guardò avidamente la metà di mela rimanente e senza protestare la consegnò alla madre. Lavinia si guardò con circospezione attorno e nascose il frutto, avvolgendolo nel proprio manto.
«Mamma, perché stai ...»
Cornelio si bloccò prima di completare la domanda.
Il silenzio luttuoso che aleggiava su Divodurum rese ancor più terribile lo schianto contro il portone della chiesa.
«Stanno arrivando» mormorò Lavinia, abbracciando a sé Cornelio.
Alla vista delle panche che sobbalzavano, la gente si ritrasse terrorizzata. Ogni colpo rimbalzava fra le pareti di pietra e, amplificato dal soffitto ligneo, sembrava possedere una forza smisurata. Quando infine lo porta cedette, una teoria di soldati fece irruzione nell’edificio. Alcuni circondarono gli uomini e misero ben in mostra le armi per scoraggiare ogni tentativo di fuga. Altri presero posto nella navata centrale, formando un corridoio per il passaggio del Cavaliere Nero.
Edheldur Arhathel entrò con passo imperioso e gli occhi sollevati ai dipinti che adornavano soffitto. L’eco dei suoi stivali fu l’unico suono che osò levarsi al disopra dei flebili respiri. Si fermò a poca distanza dai prigionieri e li studiò in un gelido silenzio.
Lavinia tremava. Teneva lo sguardo basso, fissando l’ombra del guerriero allungarsi sulle pietre.
«Ar reyn  ne m’eh?» chiese uno degli uomini al seguito del Comandante.
Pur senza conoscere quella strana lingua, Lavinia comprese il senso della domanda.  Sapeva che la propria sorte e quella del figlio sarebbe stata segnata da ogni singola parola che l’Anticristo avrebbe pronunciato.
E la risposta arrivò. In latino, affinché tutti comprendessero.
«Date la chiesa alle fiamme»
Un sentenza pronunciata con lenta ferocia. Una condanna che sembrò sorprendere persino l’ufficiale elfico.
«E i prigionieri, signore?» chiese, adeguandosi alla lingua che Edheldur aveva scelto.
Il Cavaliere Nero strizzò gli occhi, come a sfidare il crocifisso che dominava l’altare maggiore.
«Che brucino insieme al santuario» ordinò con fermezza.
Il soldato indugiò ancora un momento e nei suoi occhi Lavinia scorse un barlume di pietà.
«Arhami ti les derlun, Edheldur» bisbigliò in tono confidenziale.
A quelle parole il Comandante fece scattare la testa verso il compagno.
«Non mi importa se abbiamo bisogno prigionieri» lo ammonì con una punta d’ira. «Non voglio cristiani al mio seguito».
Il soldato chinò il volto composto in un tacito assenso, lasciando arenare ogni tentativo di protesta.
Soltanto allora Lavinia osò sollevare gli occhi, incrociando lo sguardo del Comandante degli elfi. Aveva scelto di ucciderli tutti, e in modo beffardo, trasformando quel rifugio sicuro nella loro tomba. Si chiese se la colpa per quei delitti avrebbe un giorno superato quell’espressione di freddo distacco, macchiando la coscienza di Edheldur. Davvero non c’era un briciolo di umanità in quell’elfo? Eppure il suo soldato ... Un’estrema speranza, di fronte alla rassegnazione dell’inevitabile, soverchiò ogni paura e spinse Lavinia ad agire.
 Il Cavaliere Nero aveva appena mosso i primi passi per tornare all’uscita, che Lavinia urlò.
«No, Aspetta!»
Pregò con tutto il cuore che l’elfo si fermasse ma, non appena lo vide immobile, desiderò che non si fosse mai voltato. La sua sagoma si stagliava minacciosa, illuminata d’oro per i fuochi e d’argento per i riflessi della luna. Non vide traccia d’ira per quell’intervento inaspettato, ma solo sorpresa.
Ormai doveva andare fino in fondo. Afferrò per le spalle il piccolo Cornelio e lo spinse avanti, fino a portarlo di fronte all’Anticristo.
«Uccidimi pure, se ritieni sia necessario. Ma salva mio figlio».
Mise tutto il coraggio di cui disponeva in quell’unica frase, che non suonò come un’implorazione, ma che aveva tutte le sfumature della forza di una donna e di una madre. Ora che aveva finito di parlare, si sentì in balia di quegli occhi di ghiaccio in cui brillava un fuoco inumano. Cadde in ginocchio e non riuscì più a trattenere le lacrime.
Ma doveva andare fino in fondo, se voleva salvare la vita del figlio.
«Se da qualche parte hai un figlio, so che capirai ciò che ti chiedo».
Lavinia non capì quale delle parole pronunciate, riuscì a convincere quell’abile oratore. Fra le lacrime, lo vide alzare il braccio e afferrare Cornelio per la toga. Sui suoi occhi baluginò la pietà, ma fu solo un attimo, poi il suo viso tornò ad assumere quell’aria di sprezzante ferocia con cui aveva piegato Divodurum. Non le diede nemmeno il tempo per un addio, ma trascinò via il bambino che urlava e si dimenava.
«No, mamma! Non lasciarmi, non lasciarmi solo!»
Lavinia si piegò su se stessa e graffiò il pavimento, soprafatta dal dolore. Lo aveva forse abbandonato? Lo aveva forse privato di una madre, unica certezza che gli era rimasta?
Era forse un’idea migliore lasciarlo morire lì con lei?
Lasciarlo morire?
Morire.
No.
Cornelio non doveva morire.
Cornelio doveva vivere.
La vita, il bene più prezioso del mondo.
Lavinia aveva faticosamente guadagnato quella conclusione che si sentì morire ancor prima che i guerrieri elfici eseguissero gli ordini del Comandante.
Un urlo straziante.
Vide per l’ultima volta il figlio, e il suo cuore non riuscì a reggere una tale emozione. Si abbandonò sul pavimento, gli occhi vacui lì dove il figlio era sparito. Si portò la mano al petto, lì dove per anni aveva portato il piccolo crocifisso.
Un giorno Cornelio avrebbe capito. Un giorno, se fosse vissuto abbastanza, avrebbe capito che il sacrificio dei propri genitori gli aveva donato la vita, una seconda opportunità in quel mondo insanguinato dalla guerra.
Pregò, e chiuse gli occhi per non aprirli mai più.
Udiva solo urla e disperazione, poi arrivarono le fiamme.
E fu solo un lungo ed eterno silenzio.
 
 
 
 
 
 

“Perché la salvezza sta nella ricerca.
Anche se non si trova.
Anche se non si sa cosa si cerca”
Rosario Magrì

 
 
 
4. Cara Petunia,
Se stai leggendo questa lettera, vuol dire che sono già andato via. Non voglio mentirti, non sto piangendo mentre sono chino a scrivere su questa pergamena. Ti amo, Petunia. Per questo non piango. So che devo essere forte per entrambi.
Ho riflettuto a lungo. Mi dispiace per tutte le promesse fatte e che non manterrò. Mi dispiace per la vita che non divideremo mai. Ma il mio posto è lontano da qui. Sai bene, Petunia cara, che ogni notte continuo a vederli. Sono passati troppi anni, ma il dolore ha lo stesso sapore di quel giorno. Rivedo mio padre, che lotta contro un elfo quando fuori c’erano altre centinaia di quegli esseri. Rivedo mia madre, piccola donna che ha osato levar alta la voce contro colui di cui nessuno osa pronunciare il nome. Ci ho provato, Petunia. Ho provato a mettere una pietra sul mio passato, ma sarebbe come appiccare il fuoco che consumò la chiesa.
Devo partire.
So che verserai lacrime sufficienti per far straripare il Tevere. Se mi ami, lasciami andare. Non fare alcun tentativo di farmi seguire. Dimenticami. Celebra pure il mio funerale, se ti può essere d’aiuto. Mi sento un uomo strappato dalla propria terra. Mi sento un uomo strappato dalla propria razza. Ho tutto ciò che potrei desiderare, eppure mi sento lontano da tutto. Lontano dai visi rubicondi che frequentano la mia casa. Lontano da quella sicurezza osteggiata dai nobili patrizi.
Il suo tocco mi ha cambiato, Petunia. Quei suoi guanti freddi mi stringevano con forza. Mi trascinava come un sacco di grano. Era la creatura più insensibile che io abbia mai incontrato, eppure l’unico con la sensibilità sufficiente da prestare orecchio alle lacrime di una donna qualsiasi. Sotto l’odore del sangue che sporcava la sua corazza, sotto il lezzo di morte che emanava, riuscivo ad avvertire il suo profumo.
Faceva un buon odore, Petunia. O forse è solo il ricordo storpiato dalla mente di un bambino. Era il profumo della libertà, il profumo della vita. Come il canto di una sirena, mi sento attratto ancora una volta da quel profumo. Ancora una volta mi volto irrequieto sul mio comodo giaciglio e sento di dovermi mettere in viaggio. Non pensare che io non ti ami. Ho cercato di non prestare orecchio a quella voce che mi impone di lasciare casa. Ci ho provato, e ho avuto il terrore di divenire simile a lui. I giorni della mia vita mi sfilano davanti agli occhi, ma io mi sento precipitare in un baratro di indifferenza. Nemmeno il ricordo del vecchio Polibio riesce a increspare quel muro impassibile che si è alzato fra me e il resto del mondo.
Il vecchio Polibio.
Ricordo mio padre inveire senza sosta contro il suo nome. Lo accusava di un’avidità sfrenata eppure, quando il Cavaliere Nero mi abbandonò per le strade di Divodurum, è stato il vecchio avvoltoio a trovarmi.
La morte ci ha resi fratelli nella sciagura, mi disse prendendomi con sé. Per un po’ viaggiammo come prigionieri alle spalle dell’esercito. Che Dio possa avere in grazia quel vecchio spilorcio. Persino nella miseria riuscì a portare con sé borsa di aurei: i soldi gli risparmiarono la prigionia, ma non le sofferenze. Dopo aver corrotto alcuni soldati elfici, scappammo insieme fino ad Augusta Treverorum. Povero diavolo, morì di tubercolosi proprio quando giunse alla salvezza.
Come ben sai, ho ereditato ciò che rimaneva della sua fortuna. I suoi possedimenti mi aprirono la via verso l’Italia. Fu lì che ci conoscemmo, Petunia, ed è qui che le nostre strade si separeranno. Ti lascio ogni avere. Che la ricchezza di Polibio possa dispensare la stessa fortuna che riservò a me.
Non mi servirà che un pugno di denari, lì dove mi sto recando. 
L’unica certezza è che il mio sentiero passerà per Divodurum. Non sono sicuro di voler riaffrontare i fantasmi del mio passato. Ho prestato orecchio a tutte le voci giunte dal nord: la città è stata ricostruita. Come un ferito si rialza dopo una lunga convalescenza, così anche Divodurum ha ripreso a vivere. Voglio recarmi nella mia casa d’infanzia nella speranza che, nella botola in cui mio padre morì, io possa trovare la spada di Vatinio.
Non so cosa farò dopo. Cosa rimane di un uomo a cui è stata tolto il sapore della vita?
Dovevo morire anch’io quella notte, Petunia.
Mi sento strappato e lacerato. Sulle mie spalle sento un peso troppo grande per un solo uomo. Ho visto troppo, ho sentito troppo, ricordo troppo.
Le sue parole avevano un fondo di verità.
Divodurum.
Un nome come tanti sulla lista dell’Imperatore Teodosio. La guerra continua la sua corsa, come uno spettro invisibile agli occhi degli uomini, Petunia. La Politica accende fuochi che perdurano negli anni, ma siamo noi, piccoli uomini insignificanti, a soffocare in mezzo alla polvere sollevata dagli incendi. La Religione è un marchio che divide la gente. Dio doveva salvare quei poveri disperati. E invece non ha ascoltato che una sola preghiera. Quella di mia madre. Mi piace pensare che il crocifisso che mi donò sia più di una semplice colata di ferro modellata nelle forme di un uomo morto. Questo monile è speciale, lo sento, per questo l’ho messo fra le pieghe di questa lettera. Voglio che tu possa conservarlo. Io non sono un buon cristiano. Dio vorrebbe forse che io nutra sentimenti così oscuri quanto l’odio? Eppure, non ne posso fare a meno. Li ha uccisi solo perché erano cristiani, Petunia. Sento il cuore creparsi a questo pensiero. Si sbriciola riversando lava incandescente nelle vene. Uccisi solo perché cristiani. Hai idea di quante vite si sono spente quella notte ad un suo ordine?
Cerco di calmarmi. Chiudo gli occhi e tento di riappropriarmi di me stesso. A volte mi chiedo il senso di tutto questo. Mi arrovello in una spirale senza fine per capire quale motivo può spingere un comandante a massacrare centinaia di innocenti eppure salvare la vita a un solo bambino.
Io devo mettermi in cammino. So che, se anche lo trovassi, non riuscirei a ucciderlo. Come potrei mai riuscire lì dove centinaia di legionari ogni giorno falliscono?
Non è la vendetta, ciò che cerco. Voglio vedere ancora una volta quel viso. Voglio scoprire se è ancora bello come lo ricordo nei miei incubi. Voglio scrutare sul fondo di quegli occhi di ghiaccio e leggere nella sua anima.
Voglio scoprire la verità, Petunia.
La verità su quell’elfo che, in una sola notte, gremì il Paradiso con centinaia di Angeli.
 
 
Cornelio Erucio, figlio di Vatinio.
 
 
 
L’ANGOLO DEL BARDO:
I miei occhi, ancora stanchi per la lunga maratona di fronte al pc, esultano, in un racconto in cui rivedo tutto ciò che giorno dopo giorno ha contribuito a quel che i più arditi chiamerebbero “il mio stile”. I frutti dei saggi storici su Roma Antica, stanno iniziando a dare i propri frutti. Un bizzarro incrocio fra fantasia e storia, ne sono consapevole, ma che nasconde aldilà di ogni immaginazione un messaggio, purtroppo, attuale. La guerra, gli stermini, le violenze, le sofferenze a cui tante persone ogni giorno sono soggette. A me personalmente viene in mente un po’ un parallelismo con la seconda guerra mondiale. Mi fa ribrezzo vedere il mio caro Edheldur nei panni dell’Hitler dei Cristiani, ma è così. Se c’è una cosa che, fra le righe, ho sforzato di sottolineare è la non divisione fra bene e male. Non ci sono buoni né cattivi. Ci sono solo persone che prendono decisioni, ed eventi che da queste scaturiscono. Prendo come esempio proprio una semplice comparsa. Polibio, il vecchio nobile che fino alla fine rimane attaccato alla moneta ma che, in memoria di un amico, non esita a salvare il piccolo Cornelio. La riflessione ultima (e vi lascio). Lì dove la politica ha portato divisioni, lì dove la religione ha portato divisioni, ha trionfato qualcosa di estremamente più semplice: l’empatia. Madre romana o Comandante Elfico, sia Lavinia che Edheldur sanno che significa essere genitori. Entrambi condividono quel sentimento profondo che è l’amore. Un amore che va aldilà di ogni parola. Quell’amore che va aldilà di ogni differenza. Se riuscissero a capirlo anche solo un quarto delle persone che popolano il nostro mondo, allora anche la vecchia Terra sarebbe un posto poco migliore. A volte mi chiedo perché scrivo. Forse è per questo. Scrivo perché ho qualcosa da raccontare. E qui il bardo rivela il suo lato più farabutto: nascondere dietro personaggi e situazioni fantastiche messaggi che ritengo vicino a ognuno di noi. Nella speranza di avervi allietati e di non essere apparso presuntuoso, vi saluto.
 
PepperS, il Bardo di Efp
   
 
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