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Autore: Pichichi    25/05/2013    1 recensioni
Lucrezia è chiusa in una camera d'albergo. Sta aspettando il suo amante e nel frattempo tenta di scrivere una lettera a suo marito.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DIETRO LA PORTA



Lucrezia sta tentando di scrivere quella lettera da ormai troppo tempo e in cuor suo sa che non la finirà mai e le sue parole invecchieranno nel cestino. È inutile perdere altro tempo a scervellarsi: una volta recapitata verrebbe comunque stracciata, lanciata nel fuoco, mangiucchiata fra le lacrime.

L’idea le era piaciuta, per qualche ora; metterlo per iscritto l’avrebbe reso più reale, avrebbe dato al tutto un languore romantico, lo avrebbe purificato. Non può scrivere perché le trema la mano. Dopotutto non è ancora successo niente e imprimerlo sul foglio con la penna sarebbe come emettere un’amara e prematura sentenza; il Caro Francesco in alto a sinistra sa di presa in giro e anche le due righe successive le risultano estranee: non può scrivere altro perché non ha niente da dire e infiocchettare quella lettera venefica con piccole concessioni e aneddoti affettuosi non ha alcun senso. Sono tutte cose che Francesco scoprirebbe per la prima volta da un pezzo di carta, piuttosto che dalla bocca di sua moglie.

Lucrezia controlla l’ora e decide di lasciar perdere: se mai ne avesse voglia, potrà scriverla dopo.

La pioggia batte forte contro le imposte, le sembra di avvertire dei brividi sulla schiena. Dà un’ultima occhiata allo specchio e si stringe la cinta della vestaglia. Le sue cose sono al loro posto sul mobile – profumi, creme per il corpo, smalti e cosmetici vari – e il letto è intatto; non una piega sul piumone, non un lembo che fuoriesce; la valigia è nascosta sotto la scrivania; le tende sono accostate e la stanza ha un’aria raccolta che le piace molto. È tutto in ordine, ogni cosa è al suo posto. Lucrezia fa due passi per la stanza e si guarda ancora nello specchio; non mostra un briciolo di tensione, non una smorfia di agitazione.

Fa un respiro profondo e, raccolte le estremità della veste, si siede sul letto ad aspettare. È un momento curioso, si dice: si trova in una sorta di limbo, è venuta in quella camera d’albergo vincendo l’indecisione, sulle pareti appaiono proiezioni dell’adulterio, ma non è ancora successo nulla. È in tempo per tornare indietro, potrebbe riportare tutto a casa e nessuno si accorgerebbe di nulla.

A un certo punto, quella mattina, si è chiesta che cosa diavolo stesse facendo e ha avuto l’impulso di scappare. Tante sue amiche hanno ricevuto quel genere di offerte più o meno esplicite e tutte, per quanto abbiano vagheggiato compiaciute quella possibilità, hanno rinunciato; la salvaguardia del vincolo matrimoniale prima di tutto; i figli prima di tutto; la rispettabilità prima di tutto; la sicurezza economica prima di tutto. Lucrezia invece ha detto il suo sì con tono sicuro, senza nascondersi dietro ammiccamenti o rossori di sorta. Ha detto sì ed è rimasta nella stanza. Una parte di lei sa con lucidità che non può permettersi di fuggire, che c’è qualcosa che la tiene ancorata al letto – un uomo che guarda una donna con concupiscenza ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.

Ha imparato a memoria ogni anfratto di quella camera; l’ha percorsa a passi nervosi per tutto il giorno, ha provato la vasca da bagno e saggiato la morbidezza dei cuscini, controllato i cassetti e serrato bene le finestre. Sa perfettamente dove si trova – nella camera di un motel in periferia – che cosa ce l’ha portata – un uomo le ha chiesto di incontrarsi lì – e che cosa sta per fare – un’ora di amore clandestino con lui.

Ha pensato: se non venisse? Durante le prime ore è stata tentata dal prendere il cellulare e telefonargli, avere la certezza di non essere da sola, di non aver sognato tutto quanto, ma non l’ha fatto. Anche telefonargli avrebbe significato rendere il tutto reale, farlo accadere di già. Lucrezia ha voluto riservarsi fino all’ultimo la libertà di rifiutare, di andarsene via; con questi pensieri contraddittori si è sistemata nella stanza con l’idea di rimanere lì fino all’ora di pranzo. Una volta lì dentro, però, ha scoperto una tranquillità che non aveva idea di possedere. Quella camera d’albergo l’ha raccolta e protetta da ogni esitazione, tutto ciò che di pauroso e incerto le girava per la mente è rimasto lì, dietro la porta. La lettera per suo marito è stata partorita in un momento di noia, nella sciocca idea di volersi sentire come l’eroina di un romanzo ottocentesco. Caro Francesco ti scrivo per dirti come ho passato la mia giornata oggi. Stamattina ho raccolto le mie cose e mi sono sistemata in una camera d’albergo; ho aspettato un uomo per tutta la giornata e poi ha abbandonato la penna. Ora fissa la maniglia d’ottone, il cuore le batte più forte, le pare di aver sentito il rumore di una portiera; presto qualcuno arriverà da dietro quella porta e, in un modo o nell’altro, la priverà di qualcosa. I due colpi brevi e secchi esigono una risposta precisa, un sì o un no.

Da quel momento in poi succede una cosa strana; è lì sulla soglia, mette il naso fuori timorosa di non trovarlo, poi a un tratto si allontana: è come se una mano invisibile l’avesse presa e portata su palco privato che dà sulla camera, come non fosse presente a se stessa in quel corpo, in quelle ciabatte: lei che apre la porta e quasi indietreggia, scossa dalla sua presenza, lui che si infila nello spiraglio con modi spicci.

«Entra, fa freddo.»

Lui che si dà un’occhiata in giro, controlla che non ci sia niente di strano e indugia per qualche secondo in più sulla scrivania.

«Niente, non sapevo come passare il tempo» minimizza lei, che si affretta a trarre a sé la lettera incompiuta.

Non ci può credere, non le sembra vero finché non sente –sente e vede– le sue mani infilarsi sotto la vestaglia, spingerla oltre le spalle e lungo le braccia, i loro piedi calpestarla insieme ad altri vestiti, loro che si schiantano sul materasso senza dirsi niente. Lei che cerca di sistemarsi fra i cuscini, lui che deve fare attenzione a non cascarle addosso; lei che domanda: «Sei contento?», lui che la tira per i fianchi.

Lucrezia si ripete che è ciò che vuole, ma non riesce a scendere da quel palco e riconoscersi nell’uccellino che è stato acciuffato da una mano nodosa; sta lì a guardarsi con la paura di pensare, figurarsi proferire parola.

«Ti sei fatto crescere la barba?»

Lui si acciglia, puntellandosi su un gomito.

«Ce l’ho sempre, la barba» risponde.

Lucrezia sorride e gli passa una mano sulla guancia. L’altra volta non pungeva così tanto, pensa, tuttavia continua a sorridere con affetto. Anche lui ricambia il sorriso e le accarezza i capelli.

«Che cosa hai fatto oggi?» domanda.

«Come cosa ho fatto? Ti ho aspettato» fa lei, con semplicità.

«Tutto il giorno?»

«Sì, tutto il giorno.»

Lucrezia, anche dal palco, può vedere benissimo gli occhi di lui sgranarsi per la meraviglia.

«Tutta la mattina» precisa, persistendo nel sorriso.

Lui sbadiglia intorpidito, lei si raccoglie le braccia al petto.

«Ma c’è la finestra aperta? Sento freddo»

Si siede e allunga il collo per controllare lo stato delle imposte, che sono esattamente come le ha lasciate: sprangate. Anche la porta è chiusa, eppure Lucrezia sente freddo e si guarda intorno nella speranza di scoprire un pertugio, una fessura dalla quale proviene lo spiffero. Tutto è in ordine, tutto è come lo ha lasciato, tranne per i vestiti sparsi sulla moquette e le lenzuola arricciate.

«Hai freddo?» domanda lui.

«Sì, ho freddo.»

L’attira a sé, abbracciandola. Lucrezia ha un verso di sorpresa e cerca di divincolarsi.

«Di’ la verità, che cos’è quella roba sulla scrivania?»

«Che roba?»

«Il pezzo di carta là sopra.»

«Non so di che parli.»

«Ma dimmi la verità!»

Lucrezia vede dal palco il suo amante sogghignare e muovere le mani sul suo corpo, lei innervosirsi. Prova quasi pietà per se stessa, le verrebbe voglia di irrompere sulla scena e separarli, mandarlo via. L’unica cosa che le riesce di fare è tornare su quel letto, voltare il capo e baciarlo sulla bocca. Sente ancora freddo e la sensazione di vergogna non scompare; ha il suo sorriso cattivo contro le labbra.

Stavolta chiude gli occhi, volta il capo; si concentra su di lui, sui loro corpi intrecciati e non osa guardare finché non sente il cigolio del materasso.

«Dove vai?»

Lui si volta e fa un sospiro. È proprio necessario che te lo dica?, sembra dire. Lucrezia non coglie alcun barlume di affetto nei suoi occhi. Si riveste.

«Devo andare.»

Nota che indugia ancora sulla lettera e le pare di vederlo sorridere. Allora si alza di scatto, raccoglie la vestaglia per coprirsi e lo accompagna alla porta. Il nodo della cravatta non è ben stretto, la camicia è arricciata attorno alla cintura.

«Aspetta, faccio io.»

«Oh, grazie.»

Lucrezia lo aiuta a lisciare bene le pieghe per nascondere il turbinio in cui l’indumento è stato coinvolto. Lui si guarda nello specchio e si sistema i capelli, poi fa per andarsene. È un po’ imbarazzato: non sa come congedarsi.

«Hai la macchina?»

Le sorride, grato per averlo tratto dall’impaccio.

«Sì. Ciao.»

La porta si apre e Lucrezia rabbrividisce; lui fa due passi fuori dalla stanza, poi ci ripensa e torna da lei. Le prende una mano fra le sue e la bacia, rivolgendole un sorriso.

Lucrezia non freme al tocco delle sue labbra, non si commuove per quel gesto. Accompagna il suo allontanarsi chiudendo la porta, la fa scattare con eccessiva violenza. Si ferma dietro le tende per controllare se la pioggia batte ancora, le scosta sperando di scoprire una feritoia, ma è tutto quieto e le finestre sono chiuse. Rimette a posto le lenzuola, raccoglie la sua biancheria da terra; per la prima volta nota la polvere sulla moquette e pensa che, una volta a casa, le toccherà caricare la lavatrice. Le creme e i cosmetici che aveva disposto sul mobile finiscono dentro il beauty-case, da un cassetto spuntano un maglione scuro e dei pantaloni comodi; due scarpe dal taglio sportivo si allungano oltre il comodino. Lucrezia raccoglie le sue cose, strappa il principio di lettera e si sposta nel corridoio del motel.

Si gira a guardare la stanza buia; ha l’impressione di aver lasciato qualcosa lì dentro, così strizza gli occhi per individuarla. Fa anche un giro attorno al letto, ma proprio non la trova e allora, rassegnata, si chiude la porta alle spalle. Preme il pulsante dell’ascensore e mentre aspetta che la raggiunga scrive un messaggio a Francesco: sono stata da mia madre. Sto tornando a casa.

   
 
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