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Autore: Unsub    25/05/2013    3 recensioni
Qualcuno è un amico, qualcuno è un nemico, qualcuno è qui per aiutare, qualcuno è qui per fare del male. Decisioni difficile da prendere, fiducia mal riposta o meno, niente è quello che sembra e tutti hanno un secondo fine. Le regole a volte vanno infrante, ma cosa succede quando non conosci le regole del gioco?
La mia prima fanfiction, riveduta e corretta. Della storia originale rimane la trama e qualche spezzone, per il resto sono stati introdotti nuovi capitoli e le situazioni sono state approfondite. Ormai non mi soddisfaceva più come era all'inizio e ho deciso di riscriverla. Ringrazio Ronnie89 che mi fa da beta: sei sempre una grande! Enjoy!
Genere: Generale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Sarah Collins '
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capitolo 11

Novembre 2007 – Camera d’albergo, New York

 

Appena entrata buttò la borsa sul letto perfettamente rifatto e cominciò a disfarla velocemente. Le pratiche per registrarsi non avevano richiesto che pochi minuti, ma a lei erano sembrate interminabili ore mentre si chiedeva se i suoi colleghi sarebbero stati sul suo stesso piano. Alla fine non l’aveva chiesto al portiere, preferendo correre a farsi una doccia bollente.

Mise con cura gli indumenti puliti sul letto e sistemò il resto delle sue cose nell’armadio con il borsone da viaggio. Entrò in bagno e aprì la doccia, poi si tolse gli indumenti lasciandoli cadere a terra e spingendoli via con un piede.

Si guardò allo specchio e rimase spaventata dalle profonde occhiaie che neanche il trucco pesante riusciva a nascondere.

Entrò nella cabina ma non si mise sotto il getto d’acqua, preferendosi prima rannicchiare nell’angolo del piatto doccia seduta e pronta alla tempesta che sentiva arrivare. Cominciò a piangere come una bambina mentre le immagini di quello che le ragazze le avevano fatto il suo primo anno di superiore le scorrevano nella mente come un film a rallentatore.

 

 

Ottobre 1991 – Stafford High School, Stafford, Virginia

 

L’ora di ginnastica era finita e gli spogliatoi risuonavano delle risate delle ragazze. Sarah era la più piccola e l’unica che non avesse ancora sviluppato; guardava di sottecchi le sue compagne che giravano tranquillamente in biancheria intima mostrando i propri corpi. Lei, invece, era avvolta completamente in un accappatoio e si dirigeva a sguardo basso verso il suo armadietto: le altre avevano seni sodi e glutei dalle linee morbide, lei era ancora una bambina di dieci anni con il corpo acerbo.

Mindy, il capitano delle cheerleader, stava parlottando con una delle altre ragazze pon-pon e la osservava con uno sorriso divertito, mettendola ancora di più in imbarazzo. Era arrivata al suo armadietto e cominciò ad armeggiare con la serratura, notando appena con la coda dell’occhio le altre ragazze che sghignazzavano e si davano di gomito.

Sapeva che ridevano di lei ma pensava che sua madre avesse ragione: se non avesse permesso che vedessero quanto la stavano ferendo, presto si sarebbero stufate e avrebbero rivolto le loro “attenzioni” verso qualcun altro.

Il lucchetto scattò e l’anta si aprì da sola, rovesciandole addosso il contenuto che le sue compagne avevano provveduto a sostituire. Non c’erano i suoi vestiti, ma qualcosa di completamente diverso che le cadde addosso e le sporcò una gamba. Istintivamente lanciò un urlo, inorridita e schifata, mentre le altre cominciavano a ridere istericamente. Mindy le si avvicinò con i vestiti che le avevano rubato in mano, lì poggiò sulla panca vicino a lei e la guardò dritta negli occhi con un sorriso cattivo dipinto sul volto.

-        Perché urli tanto? Sono cose da donna, no? – si batté una mano in fronte e poi fece una faccia quasi dispiaciuta – Scusami, mocciosetta, dimenticavo che tu sei solo una bambina e la mamma probabilmente non ti ha ancora spiegato queste cose.

Sarah si pulì la gamba con l’accappatoio e si vestì più in fretta che poteva, combattendo contro le lacrime di rabbia e umiliazione. Non avrebbe mai permesso che la vedessero piangere e ringraziò il cielo che fosse l’ultima ora. Lasciò accappatoio e asciugamano per terra e corse fuori proprio mentre la campanella suonava. Si precipitò al pulmino e non rivolse la parola a nessuno mentre tornava a casa.

Appena arrivata si strappò gli abiti di dosso e si infilò sotto la doccia per pulirsi e lavare via l’umiliazione. Da quel giorno quando tornava da scuola correva sotto la doccia a piangere, per impedire a chiunque di sapere l’inferno che stava passando.

 

 

Novembre 2007 – Camera d’albergo, New York

 

Da grande aveva mantenuto il “rituale” delle doccia, solo che ora la faceva tutte le sere appena tornava dal lavoro. Non lavava più via l’umiliazione, ma la tristezza e la solitudine che le attanagliavano il cuore perché non era ancora riuscita ad indurirlo abbastanza. Si chiese quante altre batoste la vita dovesse assestarle prima che smettesse di fare male e il suo cuore diventasse così arido da non permetterle più di provare la minima emozione.

Il pianto si era appena calmato, quando sentì arrivare il flusso del sangue e scoppiò in singhiozzi accorati; non era più un pianto di dolore ma di sollievo. Si tirò su in piedi e si mise sotto il getto di acqua bollente, maledicendo Mark e quello che le aveva fatto. Era stata una stupida a cominciare una storia con lui, era stata un’idiota ad andare nel suo appartamento per dirgli che se ne tornava in America ed era stata una vera cretina quando non aveva preso provvedimenti subito dopo.

 

 

Ottobre 2007 – Lione, Francia

 

Mark l’aveva fatta entrare dopo il primo attimo di stupore nel trovarsela alla porta di casa a quell’ora di sera. Chiuse la porta e le sorrise in modo viscido mentre allungava le braccia per toccarla.

-        Non farti idee sbagliate. – lo ammonì facendo un passo indietro – Non sono qui per ricominciare la nostra storia.

-        Ah, no? Eppure sei venuta nel mio appartamento di tua spontanea iniziativa alle nove passate.

-        Sono qui solo perché non volevo che lo venissi a sapere in ufficio a cose fatte. – lo guardò dritto negli occhi – Ho ottenuto finalmente il trasferimento, fra una settimana parto e torno a casa.

-        Cosa? – alzò la voce e fece un passo verso di lei, paonazzo in viso – Me lo dici così? Non puoi deciderlo da sola, noi siamo una coppia e…

-        No! – fece un gesto stizzito – Non siamo mai stati una coppia, noi eravamo amanti ma è finita da un anno ormai. Sono venuta solo per mera cortesia.

-        Non puoi farmi questo, capito? – l’afferrò per un braccio – Nessuna mi lascia, tantomeno una come te. Guardati, non eri niente prima di incontrarmi.

-        Ero un’agente federale, proprio come ora. – cercò di divincolarsi, ma la presa dell’uomo era troppo forte per lei – Smettila con questa storia e lasciami il braccio, mi fai male.

-        Io ho creato la tua carriera e io posso distruggerla, lo sai vero? – dal tono di voce e dal modo in cui la stava guardando era chiaro che fosse furioso con lei.

-        Non dire stronzate. Non ti devo niente, la mia carriera la devo solo alla mia preparazione e professionalità. – non provò minimamente ad essere diplomatica.

-        Balle! Battenberg non ti avrebbe mai dato una possibilità se non glielo avessi chiesto io. – strinse ancora di più il braccio che le aveva afferrato.

-        Falla finita di raccontarti bugie. Avevo una carriera prima di incontrarti e la avrò anche dopo, ora che me ne torno a Washington.

-        Tu non puoi lasciarmi! – urlò strattonandola.

-        Non ti sto chiedendo il permesso. – provò un ultima volta a divincolarsi, con lo stesso risultato di poco prima.

Sentì l’urto dello schiaffo contro la sua guancia e vi poggiò una mano sopra, guardandolo allibita.

-        Come ti permetti? Io ti denuncio…

Arrivò un altro schiaffo e poi un altro ancora, perse l’equilibrio e si trovò per terra. Mark le salì sopra a cavalcioni e cercò di sbottonarle la camicia. Sarah maledisse il fatto di essere andata da lui con una gonna e cercò di ribellarsi, cominciando a tempestarlo di pugni sul torace.

-        Lasciami! – gridò disperata.

Lui la colpì più forte ancora, a mano chiusa e lei avvertì un fiotto di sangue in bocca: le aveva rotto il labbro. Tentò ancora di divincolarsi ma un altro pugno in pieno viso la intontì. Sapeva che lui era fisicamente troppo più forte di lei e girò la testa per non guardarlo mentre le alzava brutalmente la gonna e le strappava gli slip.

I suoi occhi si concentrarono sul gatto bianco di Mark che si era nascosto sotto un mobile del salotto e che la guardava con gli occhi gialli sbarrati. Sentì il dolore in mezzo alle gambe ma si impose di non urlare e di non piangere, non voleva dare quella soddisfazione a quel porco che la stava stuprando.

Lo sentiva muoversi senza delicatezza e il bruciore aumentava, insieme al dolore e all’umiliazione che le stava infliggendo. In quel momento pensò a Gideon, al fatto che nulla di tutto quello le sarebbe successo se solo lui non l’avesse mandata in Francia per soffocare i pettegolezzi.

Quando Mark ebbe finito rotolò lontano da lui, si tirò giù la gonna e si alzò in piedi fuggendo verso la porta. Sentì quello schifoso chiamarla ma non si voltò, mentre correva per le scale. Prese un taxi e si rifugiò nel proprio appartamento, rifiutando persino di rispondere al telefono fino al momento di imbarcarsi per tornare in America.

 

 

Novembre 2007 – Camera d’albergo, New York

 

Sapeva di essersi comportata come una stupida. Avrebbe dovuto andare in ospedale per farsi visitare, raccontare quello che era successo e denunciarlo ma la vergogna era stata più forte della sua razionalità. Aveva anche paura: tutti sapevano che lei e Mark erano stati amanti, nel corridoio della Sezione di Criminologia dell’Interpol non si parlava d’altro.

Chi poteva credere che un bell’uomo come lui avesse bisogno di stuprarla? Non era più probabile che tutti credessero in una sua vendetta perché lui l’aveva mollata? Già sapeva che quella sarebbe stata la versione di quel viscido lurido verme. Riusciva persino ad immaginarsi il suo tono di voce prostrato mentre diceva agli agenti che a lei piaceva il sesso violento e che magari avevano esagerato un po’, poi lui aveva deciso di darle il ben servito e quella tipa strana voleva vendicarsi. Una storia del genere non era un buon biglietto da visita ora che si apprestava a ritornare a casa.

Aveva paura che le minacce alla sua carriera non fossero del tutto infondate. Mark non era così “potente” o “influente” da poterle nuocere, ma le chiacchiere potevano stroncare qualsiasi possibile promozione. Voleva solo dimenticare e lasciarsi tutto alle spalle: era tornata a casa per rifarsi una vita e non voleva che gli errori del passato le precludessero delle strade.

Era stata così sciocca da non pensare neanche di prendere dei “provvedimenti” visto che lui non aveva usato il preservativo. Quando aveva realizzato che rischiava una gravidanza erano già passate settantadue ore dal momento dello stupro, la “pillola del giorno dopo” non sarebbe più stata efficace[1] e lei aveva vissuto nella paura fino a quel momento. Non le era mai capitato di benedire i crampi da mestruazione, quella era la prima volta in vita sua e sperava anche l’ultima.

Si lavò per bene, si mise un’assorbante e si rivestì. Cominciò a preparare il letto alzando la sopracoperta, quando sentì il cellulare che squillava. Lo tirò fuori dalla tasca interna della giacca, sapendo che non era una chiamata di lavoro visto che quello era il prepagato che aveva comprato una settimana prima. Certo, era comunque “lavoro” ma non ufficiale.

-        Chi è? – chiese brusca, immaginando già la Strauss che la tampinava per sapere se c’erano novità.

-        Siamo di cattivo umore, questa sera.

La voce calda e avvolgente di Jason la prese alla sprovvista, costringendola a sedersi. Si inumidì le labbra e serrò le palpebre, non voleva parlare con lui in quel momento. Era ancora emotivamente troppo vulnerabile, rischiava di vomitargli addosso tutto il rancore che sentiva per lui e di confessargli lo stupro che aveva subito, solo per ferirlo e dargli tutta la colpa.

-        Sarah? Sei ancora lì? – la voce era leggermente allarmata.

La ragazza cercò di recuperare il controllo e si impose la calma.

-        Cosa vuoi?

-        Volevo sapere se andava tutto bene.

-        La tua adorata squadra è ancora tutta intera. – non riusciva a sopprimere il tono acido – Sempre lì a preoccuparti per loro, non sei stanco di fare da balia asciutta a queste persone?

-        Te l’ho spiegato, ti ho parlato di loro e…

-        Di come ognuno di loro è speciale e ha già sofferto abbastanza. – lo prevenne assumendo un tono derisorio – Tutti soffrono nella vita, Jason. Tutti hanno dei problemi e devono fare i conti con la cattiveria del mondo.

-        Quando parli così non ti riconosco.

-        Certo, visto che tu non mi conosci affatto. – ormai sentiva solo il bisogno di ferirlo, come era stata ferita lei – Cosa sono per te, eh? Un esperimento non riuscito o solo la dimostrazione che addestri bravi profiler?

-        Sarah, tu lo sai che…

-        No! Io non so più niente e non voglio che mi chiami, chiaro? – se fossero stati faccia a faccia l’avrebbe aggredito fisicamente – Mi prenderò cura di loro, di tutti loro. In particolar modo del tuo adorato dottor Reid.

-        Non farlo, Sarah.

-        Oh, vedrai come me ne prenderò cura. – con quell’ultima minaccia chiuse la chiamata e spense l’apparecchio.

Andò all’armadio e lo buttò dentro il borsone da viaggio. Era meglio non averlo dietro, tanto non voleva sentire neanche Erin. Era stufa di quel gioco: non le piacevano le regole che i contendenti avevano stabilito e decise che da quel momento in poi avrebbe dettato lei i termini.

 

Sentendo bussare alla porta, si svegliò e guardò l’orologio che aveva poggiato sul comodino. Era passata poco più di un’ora da quando si era coricata e sbuffò, maledicendo chiunque fosse. A fatica si alzò e si trascinò verso la porta.

-        Chi è? – chiese con voce impastata.

-        Morgan. – si sentì rispondere.

Sarah socchiuse la porta con lo stupore dipinto sul viso e rimase a fissare il suo collega che se ne stava fermo lì, con un sacchetto di carta in una mano e una bottiglietta d’acqua nell’altra. Dopo un attimo di smarrimento, Sarah aprì di più la porta.

-        Cosa c’è? E’ successo qualcosa? – chiese dubbiosa.

-        Posso entrare? – Derek fece un passo avanti, chiarendo subito che non avrebbe accettato un “no” come risposta.

-        Come ti pare. – la ragazza fece spallucce e si spostò per lasciarlo passare.

Derek si diresse al tavolo e vi poggiò sopra le cose che teneva in mano. Poi, con molta calma, prese una sedia e si mise a sedere a cavalcioni. Sarah, dal canto suo, fece scattare l’interruttore della luce mentre chiudeva la porta, si tirò giù la maglietta a maniche lunghe che si era messa per dormire e si avvicinò al letto.

-        Non so perché ma non mi sembravi il tipo da dormire con i pantaloni della tuta e una maglietta. – provò a scherzare Morgan – Credevo che fossi il tipo da camicia da uomo.

-        Ti piace immaginare cosa indosso quando dormo? – si stropicciò gli occhi ancora assonnata – Come vedi, non rientro nelle tue fantasie neanche come abbigliamento.

-        Sei tu che mi hai fatto notare che non è vero che non ci facciamo il profilo a vicenda, semplicemente non ce lo diciamo.

-        Vuoi vedere che sono più brava di te? – lo sfidò con aria apatica.

-        Stai per dire che dormo solo con i boxer? – sorrise l’uomo.

-        No, tu dormi con i pantaloni del pigiama. – guardò il collega fare un cenno con la testa e sorridere – Ma sotto non porti biancheria intima.

Derek rischiò di strozzarsi con la propria saliva e poi la guardò con gli occhi sbarrati.

-        E tu che ne sai?

-        Vedi, non sono solo una stronza arrogante che tratta male le bionde della squadra, sono anche una brava profiler.

L’uomo fece spallucce e la invitò a sedersi con un gesto. Collins aggrottò le sopracciglia ma si accomodò ugualmente sul letto. Rimasero per qualche istante a guardarsi, finché la ragazza non ne poté più di quel silenzio.

-        Sei venuto a fare conversazione sul tipo di indumenti che indossiamo o meno quando andiamo a dormire?

-        No, ero venuto a vedere come stavi e a farti una lavata di capo. – poggiò la testa sulle braccia che aveva incrociato appoggiandole allo schienale della sedia – Ricordi la questione del condividere?

-        Mi sembra di aver esposto le mie idee durante la riunione. – lei fece spallucce.

-        Dovresti anche cercare di interagire, te lo ricordi?

-        Infatti ho partecipato durante lo scambio di opinioni alla centrale di polizia.

-        Cercherò di essere più esplicito, visto che hai deciso di rendermi le cose difficili. – picchiettò il dito indice destro sull’altro braccio – Quando parlo di interazione mi riferisco anche al fatto di cenare tutti insieme e di uscire ogni tanto a bere qualcosa dopo una giornata passata in ufficio.

-        Non ho cercato di evitarvi. – si difese lei, per poi alzare gli occhi al cielo notando l’espressione poco convinta dell’altro – Ero stanca, tutto qui. Sul serio.

-        Quindi ti sei rinchiusa qui dentro… pessima mossa.

-        Ma insomma, cosa dovevo fare? Ero stanca e sono venuta a dormire. Non è una scusa e lo sai, mi hai svegliato.

-        Sarà. – concesse lui alla fine prima di alzarsi e prendere la busta di carta in mano.

Le si avvicinò e le mise l’involucro sulle gambe, per poi sorriderle.

-        Che roba è? – chiese Collins aprendo il sacchetto e annusando l’odore che ne proveniva – Hamburger e patatine?

-        Non hai cenato e si lavora male a stomaco vuoto. – le mise una mano sulla testa nel gesto di scompigliarle i capelli cortissimi.

-        Non dovevi disturbarti. – Sarah era spiazzata da quella gentilezza.

-        E’ cosi che funziona in una squadra: ci prendiamo ognuno cura degli altri. – si avviò verso la porta seguita dalla ragazza – Hai chiamato il numero che ti ho dato?

-        E per dirgli cosa?

Morgan si girò e la guardò in tralice, mentre lei sbatteva le palpebre assumendo un’aria innocente. Alla fine, Sarah, fece un gesto di noncuranza sventolando una mano e sospirò.

-        E’ inutile chiamare finché siamo qui. Come posso prendere un appuntamento se non so quando torneremo a Washington?

-        Appena torniamo, tu vai di filato dalla dottoressa. – Derek aveva una mano sulla maniglia e aprì leggermente la porta – Domattina vieni a fare colazione con noi e cerchi anche di partecipare alla conversazione. Possibilmente senza saltare alla gola di nessuno, grazie.

-        Perché? – chiese Sarah richiudendo la porta per non farlo uscire.

-        Perché, cosa?

-        Perché sei così gentile e ti preoccupi per me? – la ragazza non riusciva veramente a capire.

-        Te l’ho detto: siamo una squadra e ognuno si prende cura dell’altro. – con il dito indice le diede un colpetto sulla punta del naso e le fece l’occhiolino – Visto che “ti piaccio”, anche se non in quel senso, credo che tocchi a me preoccuparmi che tu stia bene.

-        Derek… io non sono un tipo espansivo e… - si spostò il ciuffo rosso e sbuffò – Insomma, alcuni mi definiscono “emotivamente stitica” perché sono molto riservata, ma ora… in questo momento… so che non ci conosciamo così bene e che tu sei stato fin troppo gentile, però…

L’uomo notò come tirava giù forsennatamente le maniche lunghe della maglia e provò tenerezza per quella strana ragazza.

-        Andrà tutto bene, vedrai. – le disse abbracciandola.

Sarah si abbandonò contro l’ampio torace di lui e respirò a fondo. Era bello sentire un po’ di calore umano ed era grata a Morgan perché glielo offriva senza secondi fini.

-        Sarà meglio che tu vada, adesso. – mormorò scostandosi.

-        Allora buonanotte, ciuffo buffo. – rispose l’uomo provando di nuovo ad aprire la porta per lasciarla sola.

-        Ciuffo buffo? Ma non era Garcia quella che metteva nomignoli strani a tutti? – lo prese in giro lei.

-        Non ti piace?

La ragazza meditò un attimo su quella novità e poi rise leggermente scuotendo la testa.

-        No, anzi devo dire che mi piace come soprannome. – lo guardò attraversare la porta e poggiò una mano sullo stipite, sporgendosi verso di lui – Buonanotte, Derek.

-        Vedi di mangiare che sei già abbastanza magra. – si incamminò lungo il corridoio agitando una mano in segno di saluto.

Collins chiuse la porta, afferrò il sacchetto che le aveva portato il collega e ne estrasse due involucri di polistirolo che allineò sul tavolo. Il profumo invitante che uscì dalla scatola dell’hamburger, quando la aprì, le fece capire quanto in realtà fosse affamata. Si mise a sedere e diede un bel morso al panino, masticò con calma mentre ripensava a come quell’uomo che era un perfetto estraneo fino a pochi giorni prima si stesse prendendo cura di lei.

-        Grazie, Derek Morgan. – disse alla stanza vuota – Grazie.

 

Continua…

 

 



[1] Il levonorgestrel, detto volgarmente “pillola del giorno dopo”, va preso entro 72 ore dal rapporto a rischio. In realtà andrebbe presa entro 12 ore dal rapporto perché abbia l’efficacia massima. http://www.vitadidonna.it/contraccezione/metodi/pillola-del-giorno-dopo-contraccezione-di-emergenza-periodo-ovulazione.html

   
 
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