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Autore: Horrorealumna    25/05/2013    2 recensioni
L’incubo sarebbe finalmente finito.
Insieme alla mia vita e alla sua.
L’incubo sarebbe finalmente finito.
Con la nostra morte.
Dopotutto non c’è niente da temere.
Perché temere la morte quando si ha già paura del buio?
Genere: Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alessa Gillespie, Dahlia Gillespie
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fear of ...'
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IL SAPORE DELLA LIBERTA’
 
Il bambino che Travis doveva essere stato, anni fa, attraversava il buio corridoio, diretto verso la stanza che suo padre aveva preso per loro due, al Riverside Motel di Silent Hill. L’aveva fatto per Helen, sua moglie, era certo, ma il bambino non poteva saperlo.
Richard Grady aveva fatto di tutto per far dimenticare a Travis di sua madre, sin dal giorno in cui suo figlio si intrufolò nel reparto femminile del Cedar Grove Sanitarium.
Comunque, la stanza dei due era la numero 500. La porta bianca della loro camera non era chiusa a chiave e bastò una leggera spinta per entrare nello spoglio ma accogliente piccolo ambiente, diventato stranamente familiare per Travis dopo una settimana passata là.
Il silenzio che accolse il giovane era, a dir poco, cosa spettrale, ma suo padre lo aspettava là dentro, ne era certo. Il sorriso era ancora stampato sul viso del bambino: tornava da una bella passeggiata attorno alla piscina del motel e da un sacco di partite al flipper dei Kiss. Aveva vinto così tante volte, che aveva perso il conto e il proprietario dei minuscoli tavoli da biliardo e della macchina elettronica gli aveva persino intimato di abbandonare la postazione, forse solo invidioso della sua innata bravura.
- Papà! - chiamò lui - Papà!!
Stringeva un quarto di dollaro. Il suo futuro portafortuna, tutto quello che gli rimaneva dei soldi che suo padre gli aveva dato per divertirsi nella piccola sala giochi... forse l’unico modo per distrarsi dal pensiero di Helen, la donna che aveva tentato di ucciderlo, sua stessa madre.
- Papà! Dove sei? - continuò il bambino correndo a controllare in bagno.
Vuoto.
Tornò, quindi, sui suoi passi, confuso come non mai. E poi... eccolo là: suo padre pendeva dal soffitto, con una spessa fune attorno al collo, sospeso come una marionetta impiccata nei suoi stessi fili. Aveva gli occhi aperti... respirava... ed era davanti a noi: ero stata io a farlo “tornare”.
Le pareti si sporcarono all’improvviso di sangue e ruggine, mentre il pavimento spariva insieme ai mobili, lasciando al loro posto grate di ferro e puzza di corpi in decomposizione. Ma il piccolo Travis sembrava non essersene accorto: sorrideva placido al padre, contento d’averlo trovato.
- Papà - disse tutto contento - Ho vinto il gioco! Ho vinto tutto! Ma mi è rimasto questo quarto di dollaro.
Porse la monetina al corpo penzolante, ma Richard non rispose.
- Lo vuoi, il quarto? Papà! Papà! - riprese Travis più forte, ingenuo, e non aveva idea di quello che era successo a suo padre - Papà, per favore, rispondimi. Sveglia, papà!
Il sussurro di suo padre riempì la stanzetta di tensione:
- Non sto dormendo, figliolo.
- Cosa... ? - si domandò il ragazzino, abbassando la mano, ritirando l’offerta e stringendola forte.
La stanza tremò:
- Tu sapevi che non avrei dormito. Dove sei stato per tutto questo tempo? Non si fa così - mormorò l’uomo, dondolando in avanti e rendendo la scena ancora più disturbante.
- Papà...
- Non è stata una buona decisione. Dovevi tornare... e saremmo stati insieme per sempre - continuò Richard. Le sue parole vennero accompagnate da uno strano fremito, come se fosse stato investito da una potente scarica elettrica, così potente da fargli cadere gli occhiali dal naso.
Naturalmente non andò così tanti anni fa.
Era successo tutto prima che nascessi, quando il mio salvatore era alto la metà di ora, innocente come solo i bambini possono essere. Dopo aver rischiato la morte col gas, essere entrato in manicomio per sua madre, tempo fa, Travis, di ritorno dalla piccola sala giochi del Riverside Motel, trovò il corpo senza vita di suo padre in camera. Suicida per impiccagione. Si era salvato, il piccolo, ancora una volta; se fosse stato accanto al padre, si sarebbe lasciato probabilmente condizionare e si sarebbe ammazzato insieme a lui.
Comunque, auto - convinse sé stesso che il suo papà, sebbene legato al soffitto, pallido e silenzioso, fosse ancora vivo e per giorni e giorni dormì accanto al cadavere, lo toccò e ci parlò. Lui e il corpo di suo padre, a marcire in un camera d’albergo.
Solo dopo parecchio tempo, i camerieri insospettiti dalle continue richieste del bambino che ordinava loro di non pulire la stanza, scoprirono la macabra e triste realtà e provvidero a Richard e all’incolumità e allo spostamento dell’orfano.
 
Travis, ora, era faccia a faccia con lui, proprio come ai vecchi tempi. Stava parlando a lui, non più bambino naturalmente; sembrava scosso, molto più di quanto lo fu con sua madre Helen, e tremava senza controllo.
Richard e l’ultimo pezzo di Flauros erano una cosa sola, a questo punto. Stavo per essere liberata interamente!
- Questa è follia! - esclamò Travis al padre, un ammasso di carne e tentacoli, occhi e sangue. Una mia nuova creazione.
- E’ora di affrontare il passato - ruggì la bestia, il suono irregolare e cupo che usciva fuori da un grosso buco su quello che una volta era il suo petto - Tua madre e io... ti rivedremo in Paradiso, figlio mio...
Ruggì forte, rivelando la sua nuova sete di sangue. Il suo stesso sangue, stessa carne.
Ero lì, ad assistere, come sempre, allo scontro “generazionale”. Non sopportavo il fatto di essere una semplice spettatrice, ma non avevo la minima intenzione di dargli una mano, per ora: era proprio ora di affrontare i fantasmi del passato, per quanto i ricordi possano averlo ferito e provato... per quanto i ricordi possano bruciare dentro di noi.
Richard contro Travis...
E in fondo non mi preoccupavo. La sconfitta del giovane Grady era inconcepibile: aveva dato prova di coraggio, astuzia e forza fisica, perciò sapevo che sarebbe uscito vincitore. Promisi a me stesso che quella sarebbe stata l’ultima battaglia coi suoi ricordi e i suoi mostri, proiezioni del nostro Otherworld.
Sentivo crescere la sua ira e la sua rabbia... contro Richard e contro di me e avrei dato qualunque cosa per riappacificarmi con lui. Forse pensava fossi solo una bambina capricciosa, anzi, un fantasma che non faceva altro che impartirgli ordini e missioni. Che si approfittava di lui per recuperare un oggetto dai poteri soprannaturali.
Oh, solo un altro po’...
 
Quando il mostro cadde a terra, morto, infradiciato del suo stesso putrido sangue e pallottole nella carne, Travis aveva un pesante fiatone e traballava, scosso e sfinito dalla battaglia.
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, sospirando e ansimando, con la pistola ancora stretta nella destra:
- Papà... com’è possibile... - sussurrò nervoso - Come ha potuto fare una cosa del genere?!
 
Mi resi nuovamente visibile, proprio alle sue spalle. Silenziosa e calma, azzardai qualche passo in avanti, mentre il ragazzo raccoglieva l’ultimo pezzo di Flauros necessario, che si trovava ai piedi del mostruoso genitore. Lo girò tra le mani, sentendone lo strano calore, il potere celato nell’oggetto piramidale. Lo sentì ribollire dentro, in attesa del mio arrivo. Non mi sarei sorpresa se mi avesse lanciato contro il pezzo: il suo respiro affannato, i movimenti veloci e il suo tremare... erano per me, e io stessa ne ero la causa.
Si rivolse a me, urlando e con l’oggetto bene in vista, sopra la sua testa, lontano dalla mia portata data la sua altezza:
- Perché lo fai? Perché non vuoi farmi dimenticare?! Perché mi tormenti! Come ci riesci?!
Gridò davvero forte, tanto che esitai; anche nella mia invulnerabilità e nella mia volontà di uscire dallo “specchio” per entrare nel mondo reale, mi sentivo piccola, insensibile e paurosa... come se fossi tornata ad essere la patetica bambina di qualche giorno fa. La sua rabbia mi travolse, comunque, come un treno in corsa. Ero preparata, ma ne provavo comunque timore.
- Vieni fuori! - gridò con gli occhi lucidi e spalancati - Non vedi? Ho la tua, tua... COSA per te. Vieni a prenderla!
Ero già dietro di lui. Così passai velocemente le mani sul grembiule, provocando un debole sfruscio di tessuto blu. Bastò quello a farlo voltare verso di me.
Mi vide con lo sguardo basso, i capelli sulla spalla e le mani dietro la schiena.
Ero preoccupata, sì, ma forse lui pensava che stessi ancora giocando alla povera ed innocente bambina, perché si avvicinò con passo minaccioso, tremante di rabbia. Si muoveva a scatti. Questo mi costrinse ad alzare il capo per cercare di guardarlo negli occhi: bruciavano di odio, dolore e sofferenza.
- Contenta? - mi chiese in modo sarcastico. Vidi le sue labbra curvarsi in un sorriso incerto, una smorfia d’ira e di collera - Hai “dissotterrato” i miei genitori. E ora cosa avresti intenzione di farmi?!
Si avvicinò di più, sempre più veloce. Per un attimo rividi mia madre, che cercava di convincermi a seguirla; una visione orribile ma istantanea. Mi limitai ad accennare anche io un mezzo sorriso, ma questo mio gesto sembrò alterarlo ancora di più: allungò la mano libera dal frammento di Flauros, quella destra, e la tese verso di me, sempre continuando ad avanzare e spingendomi contro la parete alle mie spalle. Cercò di afferrarmi per un braccio, furioso, sibilando:
- Parla! E io? Quando potrò finalmente entrare nella tua piccola mente malata?!
La mano era ancora tesa per afferrarmi, quando sentii il muro di sangue e ruggine dietro di me. Ci sbattei violentemente contro, sussultando per la sorpresa; Travis, a quella vista, sembrò calmarsi e ritrasse l’arto,
limitandosi a fissarmi in cagnesco. Ai suoi occhi ero pur sempre una bambina, la stessa che aveva salvato dalle fiamme e, forse, la mia impotenza contro gli adulti, che senza dubbio mi caratterizzava, aveva placato per un po’ la sua collera.
La frase, la domanda, mi colpì come un pugnale, doloroso quanto le fiamme che avvolsero il mio corpo. “Piccola mente malata”? Erano le parole che non avrei mai voluto sentire pronunciare da parte sua.
Mi costrinsi a guardare per terra, mentre lo addormentavo contro la sua volontà. Perse in sensi velocemente: succedeva sempre così quando ero triste o arrabbiata.
Ero tornata debole come un tempo. E quella metà debole e sensibile non era fatta per restare qua, insieme a “me”, a Silent Hill, anche se era parte di me.
Il Flauros rotolò a qualche metro di distanza dalla mano dell’uomo, proprio ai miei piedi. Lo raccolsi riluttante e confusa, ma in fondo felice, e avvicinandomi al corpo privo di sensi e lo posi nella mano dell’uomo, stringendo le dita rilassate affinché non lo perdesse ancora.
“Piccola mente malata”.
Lo sentivo ancora ringhiarmi contro quella parole. Forse lo ero veramente, malata.
E fu proprio la parte innocente, insignificante ma così forte, dentro di me, a farmi salire le lacrime agli occhi. Ma erano lucciconi così falsi... inutili...
Chiusi i falsi occhi, cadendo sulle false gambe... per terra, accanto a lui.
“Esco dallo specchio, l’Otherworld raggiungerà la vera Silent Hill” pensai, cercando di rincuorarmi da sola.
 
Portai Travis e me all’ospedale Alchemilla, nel deposito più precisamente. Mi sentivo più vicina al mio guscio, il mio corpo... ma ero vicina anche a mia madre. Avrei dovuto sbrigarmi.
Infatti quando l’uomo ritornò in sé, col i pezzi di Flauros raccolti, la stanza senza via d’uscita, solo, capì ciò che doveva fare per uscire da quella situazione.
Il Flauros.
Il puzzle fu risolto nel giro di pochi minuti: gli bastò incastrare i pezzi l’uno con l’altro, fino a quando l’oggetto sembrò tremare di vita propria. Fluttuò, dalla mano del ragazzo, nell’aria, davanti a lui, roteando e illuminando il buio ambiente.
Sentii il mio potere crescere insieme a quello dell’oggetto magico. Il Flauros continuò a volteggiare, privo di peso, per qualche istante, fino a quando un boato e il suono di una sirena non invasero l’area: il manufatto si spezzò, in piccole piramidi, che andarono a scagliarsi attorno al camionista che, spiazzato e sorpreso, cadde a terra per la sorpresa.
 
Tornò il buio.
Il Flauros era sparito.
Ma io ero libera.
Ero a Silent Hill. Quella vera. Priva, per ora, dei mostri della mia “piccola mente malata”.
E sicuramente anche Travis lo capì perché, per la prima volta, gli apparvi nel mondo reale, senza sangue o ruggine. Lo osservavo, dall’altro verso il basso. Rimase seduto dov’era, sul freddo pavimento, alzando pigramente il capo per riconoscermi.
Lo fissai di rimando, sorridendogli.
- Sei tu... - sussurrò rassegnato.
Mossi le braccia, alzandole, già pregustando ciò che stavo per far accadere. Potente e sicura di me, mi diressi verso la porta d’uscita, chiusa a chiave.
- Aspetta! - mi urlò Travis mettendosi in piedi.
Ma era troppo tardi. Non mi voltai, né gli risposi. Questa volta la parte innocente non avrebbe prevalso sull’altra mia “metà”. Fissai la porta, concentrandomi, e il sigillo di Metatron apparve su di essa, scarlatto e brillante.
Continuai la mia marcia, imperterrita e mi sembrò quasi di sentire il sussurro di sorpresa di Travis, che mi vide attraversare la superficie di legno tranquillamente, come se fossi stata un fantasma.
Libera.
 
ANGOLO AUTRICE:
Non mancano molti capitoli alla fine della storia :) 
Da questo episodio in poi, comincia la mia parte preferita xD quindi non vi farò attendere molto. Detto questo, passo e chiudo! Alla prossima! :D

 
 

 
 
   
 
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