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Autore: fishbone    25/05/2013    1 recensioni
Cadevano tutti, precipitavano, come i sassi nello stagno dei miei ricordi annebbiati, le ali d'argento a formare un guscio, la loro iridescenza a formare una pioggia di stelle.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PROLOGO

 
Fiamme lambiscono il mio corpo.
Sono ovunque, attorno a me. Il pavimento brucia sotto i miei piedi. L'odore acre del fumo mi ostruisce le vie respiratorie, soffoco.
Il fuoco mi avvolge, avvolge le urla degli altri, massacra e scarnifica tutto ciò che incontra sul suo cammino, implacabile.
Non è tanto il dolore fisico, i polmoni che s'impregnano di fumo, impedendomi di respirare.
Non è tanto il dolore, quanto la consapevolezza che stanno bruciando. Li sento, sento le loro grida, il panico. Devo riuscire a tirarci fuori. La disperazione s'impadronisce di me, si nutre di me, rendendomi schiava del panico e del terrore.
Raggiungi l'uscita, raggiungi l'uscita. Concentrati. Puoi salvarli.
Ma è troppo tardi. Sento le fiamme che mi mangiano i vestiti, la pelle, la carne.
Il fuoco sta banchettando col mio corpo.


Aprì gli occhi, sudata e ansimante, con la coltre delle coperte che soffocava le sue gambe accaldate. Una voce maschile stava dicendo parole in una lingua che non conosceva. O era troppo esausta per capirlo.
In effetti, stava pronunciando il suo nome a bassa voce, condendolo con imprecazioni fiorite.
- Che cosa succede? – chiese lei, in un sussurro.
- Dimmelo tu, che cosa succede. Ti abbiamo sentita urlare  - rispose lui, vagamente irritato. Non vedeva altro che la sua sagoma che si stagliava di fronte a lei, grazie alla luce lunare riflessa dal finestrone, le cui tende erano state aperte.
Tutto intorno vi era uno strano alone azzurro, un chiarore , opera della luna piena che sorgeva pallida e paffuta come una regina viziata, che rendeva tutto come più nitido, come se, per quella notte, non si potessero nascondere le bugie e i capricci che di solito il buio portava amorevolmente in grembo.
- Io... – si fermò a riflettere sulle immagini che aveva sognato. Era un sogno? -  Non lo so... c'era del fuoco e...   - la testa cominciò a turbinare, il “sogno” sfocava, ne rimaneva solo un vago sentore di bruciato e un eco di urla.
La sagoma rilassò le spalle, e si avvicinò per tastarle la fronte, quando parlò, ogni traccia d’irritazione era scomparsa, sostituita da... quello che a lei parve trepidazione.
- Uhm... - biascicò e, senza aggiungere altro, si avviò alla porta, fermandosi un momento con la mano sulla maniglia. - Me ne torno a letto. Buonanotte. -
La ragazza non seppe se essere perplessa o lanciargli addosso qualcosa. In fondo non si stava certo procurando incubi apposta per attrarre l’attenzione!
Si sdraiò, contemplando la luna panciuta attraverso le belle vetrate azzurre con tre piccoli archi disegnati in fila all'interno di un arco molto più grande, che portava in centro una decorazione a lei vagamente famigliare.
Provava una strana sensazione di sofferenza, come se le fosse stata tolta l'aria per un periodo troppo lungo e ora ne avvertiva le conseguenze: le doleva il petto e faticava a respirare regolarmente.
Si toccò la gamba fasciata, ma subito si ritrasse, trafitta da un dolore acuto.
Ricordava a mala pena il suo nome e questo la fece sentire sola, in una stanza sconosciuta, piena di sconosciuti in un mondo estraneo che la rigettava.
Sporadici e frammentari brandelli del passato si affacciavano ora nella sua mente e nel suo cuore: una sensazione di felicità e di tepore che riconduceva a una giornata estiva chissà dove, il profumo del mare che, per qualcuno a lei caro, non era per nulla un profumo e altre piccoli riflessi di una vita fa.
Ginevra Stonheim, ventidue anni, nata un giorno d'autunno. Le piaceva correre, la letteratura, la musica. Aveva una famiglia, probabilmente anche degli amici. Era benestante.
Ora quel nome e quei ricordi le stavano stretti, come un vestito preso in prestito da chissà chi e che non ci piace sentire addosso alla pelle.
Chiuse gli occhi, lentamente, e stavolta nessun fuoco accolse i suoi sogni.
***
Il giovane bussò alla porta.
Dall'altra parte dello studio una voce calma rispose di entrare.
L'uomo alla scrivania aveva all'incirca una quarantina di anni -  anche se ne dimostrava molti meno -  era uno di quegli individui col viso adatto a vendere prodotti porta a porta, poiché la gente non si aspetterebbe nient'altro che onestà da una faccia come quella: occhi azzurri e grandi, del tipo che sembravano saggi e giocosi allo stesso tempo – occhi che ridevano attraverso le piccole rughe ai lati, che scrutavano il mondo attraverso un filtro che lasciava passare solo la verità, eliminando sistematicamente ogni possibilità di provare a dire una bugia in sua presenza; capelli corti lisci e corvini – appena spettinati dalla frustrazione di una notte passata in piedi a vagliare documenti - dinoccolato, con abiti semplici ma che lo rendevano comunque un uomo rispettabile agli sguardi dei più.
Aveva un carattere in apparenza docile, una di quelle persone che si considererebbero “un sempliciotto di campagna”, ma che erano solo una facciata: non voluta, intendiamoci, Julian era così – non vi era finzione né posa nel suo modo di essere, buono e dolce quanto furbo e veloce nel capire persone e cose, grazie anche alla sua intelligenza e al suo modo di pensare fuori dal comune.
La stanza era molto confortevole, non troppo grande, con parecchi scaffali in mogano scuro  ricolmi di volumi più o meno grossi scritti in lingue perdute, rilegati con la pelle di chissà quale creatura (forse addirittura estinta) e una scrivania che aveva l'aria di essere tanto antica quanto massiccia al centro della stanza, in tinta con il resto della mobilia. Sul mobile spiccava un bellissimo mappamondo color bronzo.
Il tutto era decorato da una patina di polvere, un po’ onnipresente in quel luogo.
- Che cosa è successo? -  chiese l’uomo, spostando il suo sguardo interrogativo da una serie di cartografie a lui, con la sua voce pacata e comprensiva, che la maggior parte delle volte gli dava un nervoso tremendo. Sostenne il suo sguardo.
- Oh, niente di cui preoccuparsi, era solo un incubo -  rispose - Non pensi che... - incalzò, ma fu subito interrotto.
- Sono il suo padrino, Keith, ho fatto un giuramento. Non intendo discutere oltre. -
Keith abbassò lo sguardo sul tappeto borgogna a ricami dorati, disseminato di buchetti qua e là, scolorito e impolverato da anni di abbandono a sé stesso. Non si rendeva conto della responsabilità, del peso di avere una donna priva di memoria e senza alcuna preparazione sotto allo stesso tetto.
- Almeno dovresti dirle tutto ciò che deve sapere. Sarebbe… più facile. – mormorò, abbastanza forte perché lui potesse sentirlo.
- So che sei preoccupato. Per la nostra e la sua incolumità, per le conseguenze eccetera, ma abbi fede in me. Sono sicuro che andrà tutto bene. - rispose l’uomo, continuando quel discorso che ormai sapeva di stantio.
Ciò che Julian ignorava – o fingeva educatamente di non sapere – era che, sebbene considerevole, quello era solo uno degli aspetti per cui quella nuova ospite lo faceva sentire a disagio.
– A tempo debito saprà tutto. – continuò Julian. - Non è il caso di aggiungere altro dolore, a quello che già prova. Aspettiamo che si ristabilisca. Se crolla, non sarà utile né a sé stessa, né alla nostra causa. –
Come sempre, Julian vedeva nel cuore delle persone. Come sempre, si preoccupava di tutti in egual modo.  Non era un combattente come lui, non era spavaldo e incurante dei pericoli. Lui era riflessivo. Ed era questo, che lo teneva sempre un passo avanti a lui.
- Io… d’accordo. – rispose infine, Keith, rassegnato.
   
 
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