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Autore: fishbone    11/07/2013    0 recensioni
Cadevano tutti, precipitavano, come i sassi nello stagno dei miei ricordi annebbiati, le ali d'argento a formare un guscio, la loro iridescenza a formare una pioggia di stelle.
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1

La bellissima e favolosa Cécile. Lei era sempre così… “lucente”. Questo era l’unico termine che le venisse in mente per provare a descrivere la donna che sedeva a fianco a lei, cosa – a suo dire - davvero molto ardua.
Lunghi capelli del colore del grano in giugno, occhi verde mare, il profilo del volto a dir poco perfetto, con la curva morbida del naso e le lunghissime e folte ciglia la rendeva una delle donne più belle del creato.
Un piccolo sbuffo di disappunto deformò le labbra sottili di Marywheater. Non era proprio il caso di pensare a queste sciocchezze… però non poteva fare a meno di paragonarsi a Cécile ogni volta che si trovava nella stessa stanza e, di conseguenza, morire d’invidia.
Si trovavano tutti tranquilli a fare colazione, in quella specie di veranda-cucina-foresta. Era in un certo senso pittoresco, pensò. Certo, se si tralasciava che si trovavano in una villa abbandonata da chissà quanto - in mezzo alla foresta del niente – e per di più la vegetazione aveva spaccato le bellissime vetrate di quella che una volta era una maestosa cucina, finendo per eliminare parte del soffitto. Molto romantico, nevvero?
C’era da dire che era utilizzata raramente, poiché in inverno vi era troppo freddo e quando pioveva, anche se buona parte della stanza era al coperto, non era comunque consigliabile starvi.
- Mary, che mi dici di quella storia con quel fabbricante di armi? Ha portato a qualcosa? – le domandò Julian, distogliendola dalle sue considerazioni silenziose su Cécile.
- Oh, no, alla fine era solo un ladro e un impostore. Non aveva proprio nulla che ci interessasse. – come capitava spesso Mary, si stava scaldando. Era una ragazza molto passionale, soprattutto se si trattava di disquisire a proposito di giustizia, potere e altre faccende legate al popolo.
Keith, di fronte a lei, fece una smorfia. – Quindi abbiamo perso altro tempo, e non hai riscosso la taglia. – commentò, con una nota di disappunto.
Mary gli riservò uno di quegli sguardi assassini che solo lei sapeva tirare fuori. – Pensi che, ora come ora ci siano ancora taglie da riscuotere? – rispose, più tagliente della lama della sua spada. – Con tutte le manovre del re di Engherad per tagliare fuori tutta la magia dalla comunità? -
- Tanto per cominciare – la interruppe subito Keith – noi non siamo a Engherad. Inoltre non so se l’hai notato, ma di criminali se ne trovano sempre, che ci sia o meno la magia. – disse lui in tono loquace, mentre si versava un’abbondante tazza di latte caldo.
- Sì ma – replicò Mary, con la voce che quasi s’incrinava per l’irritazione – noi non andiamo a caccia di criminali normali. -
Keith versò due cucchiaini di zucchero di canna nel suo latte. – Beh, vorrà dire che cominceremo a farlo. I soldi ci servono. - Keith era calmo, ma il suo sguardo era canzonatorio.
Le labbra carnose di Cécile si allargarono appena in un sorriso. – Oh Mary, cara, ignoralo. Lo sai che Keith è simpatico come una scopa adagiata su per... – Cicy! – interruppe Julian, tuttavia stava trattenendo un sorriso mentre la riprendeva.
La rabbia di Mary, però, era già svanita, lasciando posto a una risata collettiva. L’unico a non ridere fu Keith, poiché punto nell’orgoglio, e la giovane donna dai capelli corvini che si affacciava or ora alla stanza.
***
Ci si perde spesso a pensare al tempo e all’ineluttabilità della morte. E non è la morte in sé che ci fa piangere, non è il dolore; è la consapevolezza che una volta andati, i nostri momenti non torneranno mai più. La consapevolezza di essere vivi e contemporaneamente essere già un ricordo.
Allora fissiamo tutto nella mente. Un battito di ciglia, l’esatto momento in cui inizia una nostra emozione, che sia paura, rabbia, dolore, felicità, che si allunga e si propaga nel tempo, si artiglia ai nostri ricordi con tutte le sue forze, per non finire nel vortice di quelle cose che sono successe, ma non sono successe. Non siamo niente se nessuno si ricorda di noi.

Ginevra osservava quel quadro familiare che coinvolgeva i suoi ospiti. Certo, litigavano, ma a lei parevano proprio una bella ammucchiata di persone dai colori diversi. In Julian risplendeva il giallo caldo e vivace come il sole a luglio, Keith era di un blu cobalto, Cécile rosa shocking e Mary rosso fuoco. I colori aiutavano Evie a identificare le persone. Erano quasi tangibili, attorno a loro, come una specie di “aura”; la loro personalità.
Lei, per contro, al momento si sentiva grigia come il cielo sopra di loro.
Stava attraversando giorni di apatia e desolazione che la lasciava insensibile e triste. Non triste per la perdita dei suoi cari, come aveva appreso il giorno del suo risveglio in quel luogo, o per lo meno lo era solo in parte; poiché non ricordava nulla di loro, ma per la sensazione di non essere niente che si affacciava ogni giorno sempre più nel suo cuore. Solo un vago sorriso, un anello, un drappo di capelli color miele e pochi altri dettagli incorniciati da un alone di foschia la incatenavano al mondo.
Restava lì, in silenzio, insieme al tutto ma fuori da esso, fuori dal mondo, fuori dal tempo. Sentiva parlare di regni, e di magia – sì, aveva origliato un pochino - e… una parte della sua mente aveva registrato questi dati, in passato, ma non riusciva proprio a ricordare che cosa significassero.
Restava zitta, Evie, non perché non ricordasse la pronuncia e la forma delle parole, semplicemente non sapeva come si utilizzassero. Oh, come doveva essere bello, svegliarsi la mattina e, guardandosi allo specchio, conoscere il proprio posto nel mondo! Ci aveva provato talmente tanto da farsi venire l’emicrania, ma i ricordi rimanevano così, come il mondo visto da un miope.
Stava rimuginando su ciò quando fu bruscamente riportata alla realtà sentendo pronunciare il suo nome.
- Cosa? – sussurrò.
- Ti ho chiesto come ti senti oggi, cara – ripeté pazientemente Julian.
- Io…oh, sto abbastanza bene credo. – Si coprì la gamba con la vestaglia. – Non fa molto male ormai. –
- E’ un bene che tu ti stia rimettendo. Anche se pensò che ci vorrà un bel po’ per guarire dalle cicatrici – commentò Julian. E non si riferiva alla sua gamba.
Evie scrollò le spalle. Da qualche parte, in qualche luogo, aveva già compiuto quel gesto.


***
Come guaritrice le era stato insegnato a essere paziente e comprensiva, e a non sottovalutare mai l’aspetto psicologico dei pazienti. Così Cicy, mentre medicava la gamba di Evie, si ricordò di non lasciar trasparire sul suo volto tutta la compassione che provava per la povera sventurata.
- Ancora non ricordi nulla, Ginevra? – chiese con calma la giovane donna.
- Hm... non proprio. A volte ho qualche specie di flash, oppure mi sembra di aver già fatto o detto certe cose… ma niente di concreto. – si confidò. Il suo cervello non era abituato a confidarsi, ed ebbe la sensazione che in passato non era solita farlo con nessuno.
- Vedrai, andrà bene. Sono certa che piano piano riaffiorerà tutto. Tu, cerca di non forzarci la mano. – rispose la donna.
Evie era affascinata dall’aspetto di Cicy: il suo viso era talmente bello, il suo corpo era talmente statuario che mai, mai l’avrebbe immaginata capace di sentirsi a suo agio tra siringhe e ferite sanguinanti. La vedeva bene come attrice, o come musa ispiratrice di qualche pittore famoso, o entrambe le cose. Invece era precisa, con le sue piccole mani delicate ma esperte, mentre fasciava la ferita della ragazza, e in più sembrava concentrata – prova di ciò una piccola ruga frontale, e…passionale. Le piaceva il mestiere che esercitava.
Cicy si accorse degli occhi grigioverde che la stavano fissando intensamente. Evie doveva aver avuto un’aria molto dolce, prima che gli eventi la indurissero. Non che lei ne fosse consapevole.
- C’è qualcosa che non va, Ginevra? – le chiese dolcemente.
Le guance di Evie si tinsero di un color pesca. – No… stavo solo pensando che sei davvero bellissima. – le rispose, semplicemente.
Cécile non poté fare a meno di ridere. In quel poco tempo in cui aveva conosciuto Ginevra, si era accorta di una sua peculiarità innata: era franca, come il terreno sotto i suoi piedi.
La sua risata argentina era così musicale, e il modo in cui aveva inclinato la testa, muovendo quella massa di soffici capelli lucenti, baciati in alcuni punti dal sole del mattino, fece rimanere Evie ipnotizzata a fissarla.
- Sei molto gentile, cara! – le rispose e, arrivando con la logica dove tutti giungevano infine, aggiunse: - Ti starai chiedendo come mai ho scelto una professione tanto brutale, immagino. – Evie non parlò, ma assentì con la testa: aveva notato che la curva delle sue labbra si era abbassata. - Vedi, mio padre fu un medico. Faceva ricerche anche nei luoghi remoti, nelle foreste a est di Basch, e nei deserti dopo Refìa e Colcas ed io molto spesso lo seguivo. Ai quei tempi frequentavo l’università di ricerche. Volevo studiare gli animali, viaggiare e vedere il mondo. A Colcas però ci era stato consigliato caldamente di non recarci, per via della guerra in corso tra loro e il regno di Engherad.  Devi sapere che mio padre era un uomo d’onore, molto ligio al dovere e al suo giuramento come medico, perciò, nonostante tutto decise di andare. – La donna fece una pausa, colta da un eccesso di emozione in cui sapeva che la sua voce si sarebbe incrinata ed Evie, con molto tatto, volse lo sguardo alla finestra, aspettando che fosse pronta a continuare la sua storia. Quel motivo a lei tanto famigliare si ripeteva anche in questa finestra, e in tutte quelle che aveva avuto modo di vedere.  – Non volle portarmi con lui, lo riteneva troppo pericoloso per me. Io però non gli diedi ascolto. Io, …lui… morì tra le mie braccia, per mano dell’esercito di Engherad. Loro non potevano permettere che s'intromettesse, curando le persone indiscriminatamente, senza costatare a quale esercito appartenessero. – La sua voce si affievolì, mentre riviveva l’epilogo del giorno in cui perse suo padre. I suoi occhi luccicarono, riflettendo l’infinita tristezza del suo esserne sopravvissuta. Una parte di lei sarebbe voluta morire lì. Una parte di lei, effettivamente, morì, quel giorno.
Evie le prese la mano. Così, istintivamente, poiché aveva sentito una storia così triste, ma si rendeva conto che c’era dell’altro. Evie sentiva tutta la sofferenza di Cécile. Quest’ultima alzò lo sguardo e notò che anche la sua interlocutrice aveva gli occhi vagamente lucidi.
- Hai deciso di occupare il posto di tuo padre, per rendergli onore, per continuare a proteggere le persone dalla tirannia e dalla sofferenza della guerra. – concluse, dolcemente, per evitarle il dispiacere di dover continuare a raccontare una storia che la rendeva tanto sofferente.
Lo stupore di Cécile era autentico. Questa ragazza aveva compreso fino in fondo il dolore e le motivazioni che l’avevano spinta a scegliere una strada impervia e non priva di dolore. Questo la rincuorò; si asciugò gli occhi e disse: - Ti ringrazio molto Ginevra. Sei stata molto dolce. -
- Potresti chiamarmi Evie? Lo preferisco a Ginevra. – disse la giovane. – Ah! D’accordo Evie! – esclamò – e tu chiamami Cicy, intesi? -
E questo suonava come un interessante inizio di una grande amicizia.
***
- Ginevra, mia cara, puoi seguirmi un momento? – domandò sorridendo.  Julian era un uomo di circa quarant’anni, con un fisico piuttosto esile e una capacità innata di infondere calma e fiducia nelle persone: questo genere di potere si chiamava carisma. In ogni caso non ne stava usufruendo al momento, nel momento di far chiarezza.
Si accomodarono nel suo studio: una sala abbastanza modesta, che necessitava di una spolverata, che aveva una gran quantità di scartoffie e libri, oltre a un mappamondo piuttosto curioso di bronzo e una quantità di aggeggi meccanici che riposavano silenziosi sugli scaffali.
- Ti piace il mappamondo? – chiese lui, seguendo lo sguardo della giovane.
Evie osservò intensamente gli occhi nocciola del suo padrino: egli conosceva, in parte, il suo passato, cose che nemmeno lei sapeva. Era una sorta di ancora al suo passato: ei poteva concederle un po’ del passato che aveva perduto. Rispose con un cenno di assenso.
- Apparteneva a tuo padre. – disse, con semplicità. Evie si voltò di scatto, da lui al mappamondo: quindi era una sua eredità? L’idea di essere vicina a una cosa tangibile, che era stata comprata e usata dalla persona che aveva contribuito alla sua nascita la faceva sentire un po’ più reale da una settimana a questa parte; ciononostante non sapeva cosa rispondere.
- Allora, mia cara, senza tanti giri di parole, ti spiego per quale ragione ho deciso di avere con te questo colloquio privato: credo sia giunto il momento delle risposte. Ormai è una settimana che ti trovi qui e di certo alcune, ecco…, stranezze non ti saranno sfuggite. Inoltre, conscio della tua amnesia, se posso esserti di qualche aiuto a recuperare qualche frammento della tua memoria, lo farò: ma non ora, ci sono cose più urgenti e importanti di cui devo assolutamente discorrere con te. – disse, rispondendo nel contempo a quella che probabilmente sarebbe stata la sua prima domanda: informazioni su di lei e sulle sue origini.
- Mr. Julian, colgo l’occasione per ringraziarmi: anche se siete il mio padrino non eravate costretto a tenervi con voi. Vi assicuro che non appena compirò i venticinque anni e sarò maggiorenne, vi leverò di dosso il fardello della mia presen- cominciò, ma Julien le mise una mano sulla spalla. – Io ero molto affezionato ai tuoi genitori. Ero presente il giorno della tua nascita. Niente al mondo mi farebbe rimpiangere di averti soccorsa e presa sotto la mia ala, come niente al mondo mi dà più gioia che averti sotto il mio stesso tetto. Ricordalo bene e non osare mai più dire questo genere di eresia. – sentenziò con un finto sguardo severo, difatti i suoi occhi stavano sorridendo.
Evie si trovò così ad essere imbarazzata per la seconda volta nel giro di qualche ora.
- Non volevo mancarvi di rispetto – si scusò.
- Non l’hai fatto, tesoro! Assolutamente! Allora, vogliamo accomodarci? – prese una sedia e la spinse dietro la giovane, da vero gentlemen.
- Innanzi tutto avrai ben capito che svolgiamo un mestiere un po’… insolito. Noi facciamo parte di una branca della polizia segreta, ci occupiamo di tenere l’ordine e il silenzio riguardo a problemi di natura soprannaturale. Negli ultimi anni il regno di Engherad è stato la causa di emigrazioni massicce di esseri dotati di qualsivoglia magia: pare che egli sia molto “conservatore” se vogliamo metterla in questi termini. Perciò il lavoro per il nostro team si è un po’ moltiplicato. Senza contare che, se mettessimo piede nei territori sotto il controllo di Engherad – che sono numerosi al momento – verremmo uccisi senza pietà solo per la nostra professione. Questo spiega anche perché abbiamo dovuto spostare la nostra base da Demestris a questa vecchia magione all’interno delle Waldlands. –
Quindi ci troviamo in mezzo ai boschi di Waldland! Evie ne aveva il sospetto perché la vegetazione intorno a loro aveva il caratteristico colore verde acceso che si trovava per l’appunto delle foreste di Waldland. Nel contempo si compiacque di ricordare almeno la geografia, sintomo che la sua memoria non era del tutto farlocca.
- Ehm.. la vostra “polizia” a chi fa capo? – chiese gentilmente lei.
- Ovviamente al regno di Demestris, che, osservi bene il mappamondo non è così lontano da qui. Noi siamo quasi al confine della città, ma sono stati applicati dei congegni di sicurezza e delle fatture al maniero. L’unico inconveniente è che, beh, non è proprio come la nostra casa madre, in quanto a manutenzione. – concluse sorridendo, come avrebbe potuto fare un padrone di casa che si scusava del disordine.
- Ora, ti chiederai per quale ragione ti stia raccontando tutto ciò: il fatto è che vivendo con me, preferisco che tu sia attenta e preparata a tutto: vedrai persone andare avanti e indietro, e talvolta dalle missioni ci scappa qualche ferito. Come hai già potuto costatare Cécile è una abilissima guaritrice, quindi non temere troppo per la loro sorte, anche se... ogni tanto potrebbe succedere il peggio. Il punto è che siamo in guerra – continuò, infervorandosi appena -  dietro alle conquiste di Engherad si nasconde qualcosa di più oscuro, di più malevolo di un semplice imperatore alla conquista del mondo, e noi siamo incaricati di scavare in fondo alla faccenda: ne va della vita di molti innocenti; inoltre molti di noi hanno dei conti personali con il regno di Engherad.-
Evie comprendeva questa frase molto di più di quanto il suo padrino potesse immaginare. Ripensò a Cicy, alla sua storia e al motivo per cui aveva scelto quella difficile professione: una sorta di rabbia la colpì all’improvviso; l’ingiustizia era una cosa che mal tollerava.
- Quando ti abbiamo soccorsa, in realtà è stato un caso, in un certo senso: stavamo seguendo una pista che ci ha portato nel luogo in cui eri… rinchiusa. -
Prima di pronunciare l’ultima parola, Julien fece una pausa: era il caso di dirglielo? Quanto l’avrebbe scioccata? Avrebbe incassato il colpo o ne sarebbe rimasta distrutta? La sua memoria sarebbe riaffiorata, rivivendo quei terribili momenti?
Per Evie fu come se le avessero confermato che il suo peggiore incubo si era avverato: in effetti era così. Aveva sognato, quasi tutte le notti, l’interno di una cella, quelle persone che prendevano fuoco insieme a lei, e in quell’istante prese atto che tutto ciò era un ricordo che affiorava alla mente e non solo un bruttissimo sogno.
Si fissò la gamba fasciata: la cartella medica stilata da Cécile recitava “abrasioni di livello nero”, l’aveva sbirciato dalla cartella un giorno che la sua infermiera era distratta.
Julian cercò di proseguire la storia. Dopo la stilettata non se la sentiva di farle più male ancora: - So che non è facile, in cuor mio, sto sperando che la tua perdita di memoria coinvolga quante più cose riguardo a quell’orribile periodo, nonostante ciò che tu puoi aver visto o sentito in quelle celle potrebbe essere utile alla nostra causa.  Ma ritengo che tu debba conoscere anche questi tristi fatti.
Ti trovavi in una cella di reclusione, da quello che stimiamo possa essere circa un anno. Supponiamo che ti trovassi lì per permettergli di ricattare i tuoi genitori, costringendoli a fare qualcosa per loro. Ahimè ormai non possiamo più sapere chi fossero: una volta arrivati abbiamo trovato solo persone che bruciavano: gli aggressori stavano fuggendo e coprendo le loro tracce dando fuoco alla loro base, i tuoi genitori erano stati uccisi non molto tempo prima, quindi non servivi loro più, per loro eri sacrificabile. -
Julien fece una pausa, riempì un bicchiere di acqua e glielo porse. Il cervello di Evie stava turbinando: tante rivelazioni tutte insieme: era stata rapita, usata per ricattare i suoi genitori per almeno un anno.
- Ora lascia che io ti avverta – continuò, stavolta l’apprensione fece spazio a un tono grave -  se ti riconoscessero è possibile che cercherebbero di ucciderti. Penserebbero che tu possa rivelare qualcosa, o almeno potrebbe essere una possibilità: ciò dipende dal fatto che tu abbia o non abbia effettivamente sentito o visto: conversazioni, volti, nomi.
Per tutti sarai mia nipote “Eva Graham” che viene da anni di studi all’università estera. Nessuno dovrà sapere chi sei.
Immagino che tu ora abbia molte domande da pormi:  se potrò risponderti sarò ben lieto di farlo  - concluse l’uomo tornando al solito sorriso cordiale.
- Qualcun altro è sopravvissuto? – domandò Evie.
Julien abbassò lo sguardo. – Il motivo per cui sei sopravvissuta è la tua componente magica. Non ero informato di ciò: i tuoi genitori non ne fecero mai parola, e, per quel che ne so, nemmeno loro la possedevano. -
- Componente magica? – domandò la ragazza, perplessa.
- Beh, vedi, vi sono alcuni esseri umani…è una condizione piuttosto rara in realtà, che possiedono in sé una stilla dell’antica magia. Abbiamo antenati stregoni, ma molto molto lontani. Di seguito, generazione dopo generazione, la componente magica si affievolì e pochissimi di loro riuscirono a conservarla. Tu sei una di loro.
Ti dirò – proseguì con maggiore enfasi, da cui Evie capì che il suo padrino era davvero affascinato dalle scienze e dalle arti magiche – vi sono varie teorie e pubblicazioni su questo: addirittura si ipotizza che siano molti, ma molti di più a possedere la stilla, che si “attiva” solo in certe situazioni. Ah! – si interruppe - Non voglio trattenerti troppo. Hai molte informazioni nuove su cui riflettere, perciò ti lascio andare. -
Questo segnò la fine di quella conversazione. Stava per uscire dalla porta quando ei la fermò ancora:
- Cara, ho pensato, per il tuo bene, di introdurti alle tecniche di autodifesa con mio nipote. Spero comprenderai il motivo di tale mio pensiero. -
Evie lo guardò e abbozzò un sorriso. Era molto eccitata da quella notizia. – Penso che abbiate fatto benissimo. Non intendo essere di peso a voi, e se posso imparare a badare a me stessa, sicuramente saranno tutti più tranquilli. -
Concluse, fingendo noncuranza.
***
Il giorno seguente Evie si svegliò molto prima del solito (considerando “il solito” un periodo di una settimana circa) spinta dall’agitazione per gli allenamenti in vista.
Aveva passato buona parte del giorno prima a ponderare sui fatti accaduti: si era trovata totalmente impreparata ad una serie di rivelazioni spaventose e scioccanti. A quanto pare era stata rapita, i suoi genitori uccisi, torturata e quasi bruciata viva. Inoltre c’era quella sua componente magica. E tutta la storia di Engherad e di Cicy e …come aveva ben detto Julian, troppe cose tutte assieme.
Tra l’altro, appena giunta nella stanza, la sera, aveva pensato a una miriade di domande a cui, lì per lì presa dallo shock delle rivelazioni, non aveva pensato.
Se le era annotate tutte in un pezzo di pergamena, per non farle scivolare via alla prossima opportunità. Di certo, sarebbe stato estremamente maleducato da parte sua, presentarsi nel suo ufficio e tartassarlo di nuove domande.
Nonostante tutto, Evie era una personcina ottimista: la sua mente cercava di sviare gli orrori del passato pensando alla prima emozionante sessione di allenamento. Chissà com’era il nipote di Julian! Se era bello e gentile la metà di—no, no, che pensieri stupidi.
In quel momento qualcuno bussò alla porta.
- Sì? – rispose la ragazza.
- Buongiorno Ginevra. Sono venuta a portarti una cosa utile, posso entrare? – chiese la voce, che Evie riconobbe come quella di Mary, la ragazza minuta con soffici boccoli rossicci.
- Sì, prego – le rispose – accomodati. – La testolina della minuta Mary entrò con incedere allegro all’interno della stanza della ragazza.
- Oh, bene sei sveglia! – sorrise e annuì nella sua direzione. – Però dovresti cambiarti d’abito, per l’allenamento, cara! – commentò vedendo il suo vestito. Era la prima volta che vedeva Ginevra con indosso un abito.
- Come? Oh, sì certo! E’ che non avevo un abito adatto all’occasione! Il nipote di Julien è già arrivato? – chiese.
- In che senso già arrivato? – Mary la guardò perplessa. Possibile che non sapesse… - hm sì, ora andiamo e vediamo. – In parte la giovane si pregustava lo scherzo, anche se le dispiaceva per la poverina, costretta ad allenarsi con quell’individuo.
Evie ci mise pochi minuti a cambiarsi di tutto punto con la sua nuova divisa: pantaloni amaranto alla cavallerizza che arrivavano fin sotto al ginocchio, corredati di una cintura nera grande,  una semplice camiciola bianca con una scollatura non troppo ampia e maniche corte a sbuffo, un corsetto di pelle in tinta con i pantaloni, con vari legacci e stringhe sul davanti, che iniziava sotto il seno e finiva sui fianchi e stivali lunghi dal tacco bassissimo e la punta in ferro.
Si sentiva più pronta ad un escursione nel deserto che a un allenamento. Ma la divisa le stava relativamente bene, e soprattutto era leggera e molto confortevole, perciò non obbiettò.
- Che ne pensi? – domandò Mary, tutta ammirata. – Oh, è davvero una bella mise! – rispose lei.- - Mi fa piacere che l’apprezzi! Quando Julian mi ha detto del tuo allenamento ci ho messo tutta me stessa per confezionartelo! – confessò accalorata.
Evie la guardò stupita.
- Tu hai fatto questi? – e si indicò.
- Si, a parte le scarpe, ovviamente. Io mi occupo di questo genere di cose alla society, più che altro lavori manuali: sono anche un meccanico e una inventrice. – ammise.
- Caspita! – l’ammirazione di Evie era sincera. – Mi fai sentire stupida e inutile. Inoltre quanti meccanici femmina esistono al mondo?  -
Mary arrossì un poco. – Eh, eh… in compenso sono una schiappa nei combattimenti. Per questo anche io mi allenerò stamattina -
Difatti, la giovane aveva una mise simile: pantaloni più corti a sbuffo kaki, e la camicia col corsetto identico, oltre agli stivali, nel suo caso più corti. Probabilmente non voleva accentuare la sua statura con degli stivali lunghi – pensò.
- Ebbene, mia signora, vogliamo andare? – domandò entusiasticamente.
Le due si avviarono giù per i corridoi, verso l’ala est, che, a che ne diceva Mary, era adibita all’esercizio fisico: i membri dovevano costantemente tenersi in forma, poiché sul campo correvano molti pericoli.
Durante il tragitto la giovane dai capelli rossicci parlò a ruota libera: le spiegò la gerarchia della society, in cosa consistevano di solito i loro lavori, e qualche aneddoto divertente.
Evie per la prima volta sentiva dentro di lei una specie di desiderio, ed era quello di far parte anche lei di qualcosa.
Magari se si fosse dimostrata utile nella pratica forse l’avrebbero presa in considerazione! Era la sua occasione per riscattarsi dal dolore e cominciare qualcosa che la rendesse utile, che la rendesse fiera, come Cicy, che ammirava dopo solo poche ore insieme.
Quando arrivarono a destinazione, Evie era ancora più motivata di prima. Avrebbe fatto l’impossibile.
- Alla buon ora! – esclamò qualcuno la cui voce suonava piuttosto irritata.
Le due ragazze si guardarono intorno: Marywheater era già a conoscenza di chi fosse il padrone di cotale urlo, mentre Evie aveva solo il sentore di aver sentito la voce.
In un angolo, seduta tranquilla, si trovava Cicy, insieme a un uomo che Evie non aveva mai visto prima. La cosa che più la colpì era sicuramente la sua capigliatura: dei lunghi dreadlocks che, acconciati in una coda alta, scendevano fino alla schiena. L’uomo la stava guardando: non con ostilità, ma semplice curiosità. Era davvero bello. Che fosse lui il misterioso nipote?
Finché tutto non fu chiaro: Keith apparve al fianco di Julian, e, per quanto poco si somigliassero, avevano la stessa postura dritta e lo stesso modo di porsi che fu alquanto evidente la cosa.
La ragazza osservò Mary con un cipiglio non troppo felice: ovviamente conosceva l’identità del loro allenatore, ma non aveva proferito parola a riguardo; in più si sentiva totalmente stupida per quelle frivolezze che aveva pensato.
- Suvvia Keith, sii più morbido con le ragazze. – lo redarguì scherzosamente suo zio.
- Chiedo umilmente scusa. Le prometto che farò del mio meglio e non le recherò alcun fastidio d’ora in poi – disse la giovane chinando leggermente la schiena e il capo, in segno di sottomissione. Ora che l’avevano “schiaffeggiata” e aveva smesso di fantasticare si era resa conto di una cosa: in primo luogo non importava che aspetto avesse il suo tutor, in secondo luogo Keith era abbastanza robusto e agile, per quel poco che aveva notato, da essere un buon candidato. Inoltre c’erano degli spettatori: no, non avrebbe sciupato questa opportunità di mostrare quanto valesse.
Per contro, tutti i presenti rimasero allibiti dal suo gesto: nessuno se l’aspettava, tantomeno Keith, già nervoso perché costretto a fare da “babysitter” a due donzelle (così si era lamentato quando suo zio gli disse che avrebbe dovuto allenare le due ragazze).
- Va bene, va bene. – si affrettò a borbottare Keith, leggermente in imbarazzo. – Ma cercate di arrivare puntuali. Per favore. -
Per favore. Keith aveva detto “per favore”? Cicy e Rafien erano sbalorditi. Si guardarono negli occhi e risero, ma di nascosto: sapevano quanto il compagno fosse orgoglioso e irascibile, e le due giovani ne avrebbero fatto le spese se per caso si fosse accorto che lo stavano prendendo in giro.
E così il primo allenamento iniziò: era duro e estenuante. In più di una ripresa Mary supplicò pietà, lamentandosi della severità del suo tutor. Evie invece aveva uno scopo da perseguire e si impegnò con tutte le sue forze: le faceva male la gamba, e tanto anche, ma strinse i denti e continuò, anche dopo che tutti gli spettatori ebbero lasciato la stanza, con lo stesso impegno con cui aveva iniziato.
Il primo allenamento consistette per lo più in esercizi di stretching e corsa, oltre a flessioni e addominali: prima di imparare la tecnica, spiegò Keith, era necessario che s’irrobustissero abbastanza da non cadere all’indietro una volta maneggiata una spada.
Infine dopo due ore e mezza di corse, salti, scatti e altri movimenti terribilmente dolorosi per la povera gamba della giovane, l’allenamento fu dichiarato terminato per quella giornata. Mary si alzò subito e blaterando a proposito di “ingiustizie immeritate” e “difesa dei più deboli” corse, praticamente con le ali ai piedi, a farsi una meritatissima doccia ristoratrice, mentre Evie indugiò ancora un poco. Ora che si era seduta e si era rilassata, la gamba le trasmetteva fitte lancinanti.
Approfittando della solitudine si sdraiò definitivamente sul pavimento di legno, che era in uno stato molto migliore rispetto a molte altre stanze: probabilmente avevano tirato a lucido quel luogo perché sarebbe stato imprudente e pericoloso allenarsi laddove si poteva morire di tetano o inciampare su un’asse del pavimento sconnessa e battere la testa per terra!
Continuando la sua indagine sull’ambiente intuiva i motivi per cui era stata scelta quella stanza: uno strato più fitto di vegetazione ricopriva le mura esterne, lasciando passare la luce dalle finestre (lì probabilmente i rami erano stati tagliati da loro stessi) e attutendo eventuali rumori, senza contare che il soffitto era davvero alto e l’ambiente largo e arioso.
Da un lato, dove si erano seduti Cicy e l’uomo coi dreads, vi erano un paio di panche appoggiate al muro mentre, in fondo, una piccola scala laterale dello stesso legno dai toni caldi del pavimento su cui stava sdraiata in quell’istante si ergeva fino a un soppalco. Dalla sua posizione intravedeva un certo numero di armi appese alle pareti in fondo, oltre ad attrezzi e varie utilità.
Chissà se l’allenamento aveva fatto buona impressione ai presenti? - si chiedeva.  Sperava di sì, di esserci riuscita, di aver mosso un passo verso un futuro e uno scopo.
Uscì dalla stanza, con un po’ di fatica, diretta verso l’ufficio, o quel che era, del padrino con il fisico a pezzi e la speranza nel cuore.
   
 
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