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Autore: LilithJow    26/05/2013    3 recensioni
[..] Gli occhi di Johanna mi fissavano ancora e - non per mia impressione - si erano avvicinati parecchio al mio viso, più di quanto avessero fatto giorni prima, a scuola.
Ma, proprio come quella volta, qualcosa accadde: ancora quelle ombre rosse che le attraversarono l'iride. Più forti, più scure, più continue: le vidi chiaramente, e non era né un riflesso di luce né una mia fantasia né, tanto meno, per via di una botta in testa. Li fissai, incredulo, ma allo stesso tempo incuriosito: a cosa era dovuto? Non ne avevo la benché minima idea. Forse internet mi avrebbe dato delle risposte, oppure – cosa molto più probabile – riempito di ansie, paure e paranoie.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies Saga'
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Capitolo 24
"Presage"


Presentimento: sinonimo di presagio; avere un'intuizione, una sensazione di ciò che sta per accadere. E' quasi sempre associato a qualcosa di negativo, perché la felicità non è propriamente prevedibile.
Gli esseri umani hanno spesso presagi e capita che si lascino condizionare da essi, forse fin troppo. Alcuni presagi hanno il potere di gettare nel panico una persona, di farla divorare dal terrore. Altri, invece, vengono semplicemente ignorati e sono i peggiori, perché sono gli unici che si rivelano veri.

 

Erano passati tre giorni dal mio ricongiungimento con Hazel. Avevo avuto la possibilità di tornare a casa, da mia madre, che si rallegrò di rivedermi con “la sua Johanna” - lo dimostrò il suo largo sorriso quando ci vide entrare in casa mano nella mano; ma uno strano presentimento mi aveva sempre accompagnato, durante quel breve periodo. Non che potesse essere altrimenti: chi non avrebbe cattivi presagi con un Divoratore di Anime che non vuole altro che il suo sangue?
Tuttavia, era strano. Della mia incolumità, poco mi importava. Ero più preoccupato per quella degli altri: mia madre, per prima, dal momento che era all'oscuro di tutto e non aveva difese. Chiesi a Tamara – o meglio, pregai Martha di parlarle per me – di mettere un incantesimo di protezione su di lei. La strega disse che l'amuleto che le avevo messo in borsa settimane prima era ancora funzionante e che poteva bastare. Cercai di fidarmi, sebbene ancora scettico.
A seguire, c'era Hazel. Sebastian aveva ancora il pugnale e prima o poi avrebbe scoperto il fallimento del suo piano così ben architettato e sarebbe tornato alla riscossa. Ero pressapoco sicuro che non avrebbe più esitato ad uccidere la sorella e, di conseguenza, me.
Infine, c'era Martha. Lei era la più forte di tutti, colei che all'apparenza non aveva bisogno di nessuna protezione – tanto meno della mia. Ma aveva di sicuro qualche punto debole e sicuramente lui ne era a conoscenza, o lo sarebbe stato presto.

“Il sacrificio sei tu, idiota! Sei tu quello in pericolo, non loro!”. La mia coscienza continuava a rimproverarmi. Era la parte più egoista di me e, in fondo, aveva ragione.
L'obiettivo del Divoratore biondo ero io, non loro.

La domanda che mi assillava costantemente, però, era perché stesse aspettando e cosa, soprattutto. Probabilmente, Tamara ne era conoscenza, ma non ce lo avrebbe mai detto, nonostante i suoi tentativi di redimersi. Iniziai a comprenderla, sotto un certo punto di vista: cercava di salvarsi la vita – sua e della madre – e rivelandoci ogni dettaglio del piano del nemico, si sarebbe messa in guai seri.

Il presentimento non svanì, anzi, diede l'impressione di diventare sempre più concreto, sempre più assillante. Avevo paura ed era difficile negarlo.

L'insonnia era tornata, nonostante le ninne nanne di Hazel. Finivo col rigirarmi costantemente nel letto, senza riuscire a chiudere occhio; oppure, quando ci riuscivo, i sogni incantati venivano oscurati da incubi tenebrosi, che mi facevano palpitare forte il cuore e sudare freddo, proprio come quella notte.
Mi misi seduto di scatto sul letto, con gli occhi spalancati e il fiatone, come se avessi corso per chilometri. La maglietta bianca del pigiama mi si era appiccicata addosso, insieme ai capelli che si erano incollati alla fronte.

«Tutto okay?». La voce lieve di Hazel risuonò nelle mie orecchie. Girai appena il capo e lei era lì, seduta al mio fianco, con addosso la sua camicia da notte di pizzo bianco, sveglia e lucida – e perfetta – come sempre. Annuii, distrattamente. «Ho solo avuto un brutto sogno» biascicai. La sentii sospirare. «Vorrei poterti aiutare a non averne» sussurrò «ma riesci a cacciarmi via dalla tua testa».

«Mi dispiace».

«Non è colpa tua». Hazel si mise in ginocchio sul materasso, rimanendomi accanto e si sporse lievemente, a depositare un delicato bacio sulla mia tempia. Non osai replicare e, per un po', il silenzio fu nostro compagno. Con l'assenza di parole, rimasero solo i gesti: io che le baciavo il dorso della mano, piano, non tralasciando nemmeno un millimetro di pelle e lei che mi accarezzava piano i capelli sulla nuca e mi stuzzicava il collo con le labbra.

«Ricordi l'installazione di Martha?» sussurrò, poco dopo, il che mi portò a portare lo sguardo sul suo viso e i nostri occhi si incrociarono. «Certo che sì» mormorai. Lei sorrise. «Hai scelto Parigi come città» continuò. «Un giorno, vorrei portarti lì, quando tutto questo sarà finito e baciarti sotto la vera Tour Eiffel».

Sorrisi anche io, genuinamente. «Tu ci sei già stata?» domandai.

«Sì, ma non c'era ancora la Tour Eiffel e, cosa più importante, non c'eri tu».

«Quante città hai visitato?».

«Parecchie. Quasi tutto il mondo, in realtà».

«E non hai mai voluto... Restare da qualche parte?».

«Parecchie volte, ma non potevo e dovresti sapere il perché».

«Lo so». Feci una breve pausa, abbassando lo sguardo. «Forse potrei portarti io, a Parigi» sussurrai, poco dopo «con un convenzionale volo aereo, in terza classe, ma andrebbe bene comunque».

«Che vuoi dire?».

«Voglio dire che, da umana, l'aereo sarebbe il mezzo più veloce per attraversare l'oceano». Successivamente a quella frase, il sorriso che le si era stampato in faccia da quando avevo aperto gli occhi, svanì, lasciando posto ad una strana e poco rassicurante smorfia. La sentii sospirare, mentre lentamente scioglieva l'intreccio delle nostre mani e si scansava appena. «Tu credi...» mormorò «credi ancora a quella storia? Dell'umanità che nasce giorno per giorno?».

«Certo che ci credo».

«Non dovresti».

«Perché no?».

«Perché... Perché è qualcosa che Tamara ha scoperto e... E lei ci ha mentito così tanto. So che l'abbiamo perdonata, ma... E' diverso».

«Ci ha mentito, è vero, però non penso che l'abbia fatto su questo. Sono sicuro che...».

La mia frase non ebbe modo di avere fine. La porta della mia stanza cigolò e i passi – appena percettibili – di mia madre sulla moquette, costrinsero Hazel a dissolversi prima che potessi impedirglielo – che poi, nemmeno potevo impedirglielo, se volevo evitare un conseguente interrogatorio.

«Simon! Sei sveglio» disse mia madre, accendendo la luce. L'assenza repentina della semi-oscurità mi portò a strizzare gli occhi. «Ehm, sì» replicai «ho fatto un brutto sogno». Mi sentii un bambino di cinque per pochi secondi. Capitava spesso, a quell'età, che mi svegliassi nel cuore della notte, urlando e col fiatone, e lei veniva a tranquillizzarmi, qualunque ora fosse, e restava con me fino alla mattina, anche dopo che mi ero addormentato. Sorrisi lievemente, a quel ricordo. «Tu che ci fai in piedi?» chiesi poi.

«Volevo solo...» rispose, a bassa voce. Sospirò e si sedette sul letto, vicino alle mie gambe distese. «Volevo solo controllare che il mio piccolo stesse bene».

«Sto bene».

«Ultimamente, non sembrava». Fece una breve pausa, spostando per un momento lo sguardo altrove. Poi lo riportò su di me e allungò una mano, tirando leggermente i miei capelli all'indietro. «Ti vedevo sempre triste, cupo, a volte arrabbiato» continuò «ma adesso le cose si sono aggiustate, no?».

Annuii. Come accadeva sempre, mia madre era stata in grado di ricostruire perfettamente ciò che era successo, senza che io gliene avessi effettivamente parlato. Era la sua empatia, costantemente efficace e presente, ed ero grato che ci fosse.

«E' quella ragazza, vero?» sussurrò, poco, e abbozzò un sorriso. Mi parve di vedere i suoi occhi brillare. «Johanna. Lei... Lei ti rende felice».

«Sì. Lo fa». Sorrisi anche io, allora, con lo stesso suo entusiasmo.

«Questa è la cosa più importante: tu devi essere felice. Se è lei la tua felicità, non lasciarla andare, Simon: mai. E' rara da trovare, al giorno d'oggi».

«Non ne ho alcuna intenzione». Abbassai per qualche secondo lo sguardo. «Perché mi stai dicendo tutto questo?» sussurrai.

«Perché il mio bambino sta crescendo ed ha bisogno delle giuste dritte. Voglio impedirti di commettere errori che ti segneranno per tutta la vita, un po' come ho fatto io».

«Intendi papà?».

«Intendo un sacco di cose». Scosse appena la testa e non osò dire altro. Si alzò lenta dal materasso e io non proferii parola. Mia madre non aveva mai esternato il proprio dolore: aveva sempre cercato di essere forte, nonostante le difficoltà; mi era rimasta accanto, cercando di rendere la mia vita il più normale possibile, senza farmi mancare troppo mio padre, anche se era difficile, per entrambi. Però capitava che qualche volta crollasse e si lasciasse andare: mai al limite, mai in via definitiva, ma accadeva e, in quei casi, io ero il suo unico appiglio.

«Torna a dormire, Simon» sussurrò, ormai sulla soglia della porta. «Domani hai scuola». Si congedò in quel modo, spegnando la luce e sparendo nel buio corridoio.

Io restai immobile, seduto sul materasso, nell'attesa di qualunque cosa, probabilmente che Hazel tornasse a farmi compagnia per il resto della notte, che venisse a cantarmi una delle sue ninne nanne e che mi regalasse bei sogni, ma nulla accadde. Rimasi solo, nell'oscurità. Tornai quindi a sdraiarmi sul letto e mi costrinsi a chiudere gli occhi, sperando di addormentarmi presto.
 

***

Mi svegliai con il sole tenue che filtrava dalla finestra della mia camera. Doveva essere l'alba. Ero riuscito a dormire, per un po', senza sogni, né incubi, il che, per me, andava più che bene. Mi trascinai fuori dal letto, facendo cadere sulla moquette le lenzuola. Le lasciai lì, le avrei raccolte dopo. Mi sentivo stranamente confuso e intontito, così dovetti stropicciarmi gli occhi più volte per essere un po' più lucido. A piedi nudi, uscii dalla stanza e il contatto con le mattonelle gelide mi fece rabbrividire.
Solitamente, anche a quell'ora, sebbene fosse presto, la casa era quasi sempre invasa dal profumo della colazione: pancake, cornetti caldi, uova strapazzate e pancetta, e altre delizie che mia madre preparava a tonnellate. Non riuscivamo mai a finire tutto, ma lei non osava ridurre la quantità di cibo. Quella mattina, invece, l'ambiente aveva un odore acre, strano, di aria rafferma, di un posto sigillato da fin troppo tempo. Mi chiesi il perché, rigirando tra le varie stanze: la cucina, il salotto, la camera degli ospiti, il bagno. Ogni angolo del grande appartamento.

«Mamma?» chiamai, attendendo una risposta nel bel mezzo del corridoio. «Mamma? Non mi dire che stai ancora dormendo».

Incurvai le labbra all'insù, lasciandomi trasportare per un attimo dai ricordi d'infanzia: probabilmente quella giornata avrebbe avuto quello come tema.
Da bambino, quando mi svegliavo prima dei miei genitori, mi intrufolavo nella loro camera e strisciavo sul letto, tra loro, iniziando a saltare sul materasso. Erano momenti felici, spensierati, che da quando mio padre se ne era andato, erano scomparsi.

Così, mi diressi verso la stanza dove dormiva mia madre e aprii piano la porta. Era buio, le tende gialle erano tirate, perciò il sole, là dentro, non riusciva ad entrare. Camminai in punta dei piedi fino al letto e vi salii sopra, mettendomi in ginocchio su di esso. «Mamma?» esclamai e scossi appena il materasso. Ma lei non ebbe alcuna reazione.

“Sonno pesante” pensai e ripetei il gesto di poco prima. Una volta, due, tre.

«Mamma?» chiamai ancora e allungai una mano, per scuotere lei, stavolta. Non appena toccai il suo corpo, tuttavia, percepii qualcosa di bagnato sul mio palmo: un liquido appiccicoso, ghiacciato.

«Mamma!». Questa volta urlai e la mia voce si spezzò. Non ebbi bisogno di accendere la luce per rendermi conto che quello era sangue e il rosso era ovunque. Lei non si muoveva, non respirava e il suo cuore non c'era più.

Ed ecco che i miei presagi divennero realtà, mentre io iniziavo a tremare e il mio inconscio mi trascinava in un baratro nero, dal quale difficilmente sarei uscito.

  
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