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Autore: iloveromanzirosa    27/05/2013    10 recensioni
“Lasciami andare!” Esclamo io con un filo di coraggio in più.
Mi molla i capelli, ma continua a tenermi stretti i polsi, non ho la forza nemmeno di allentarla, quella stretta, figurarsi scioglierla.
Mi giro per guardare l’uomo in faccia, ed è un errore.
Avrà si e no due, forse tre anni in più di me. E’ altissimo, sul metro e novanta, pallido, meno di me, ha gli zigomi pronunciati e la mascella squadrata. Dei tratti affilati, e la sua espressione gelida non fa che peggiorare le cose.
Ma questo lo noto in seguito.
La prima cosa che vedo sono l’ebano e la giada.
Dei suoi capelli e dei suoi occhi.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
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Pov. Sir
 
Stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida Stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida Stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida.
Ma che cavolo vado a pensare?
Come posso essere stata così idiota da potergli chiedere una cosa del genere?
E adesso ci ho rimediato una bellissima macchia viola appena sotto l’occhio.
È da circa un’ora che sono qui: seduta sotto i rami frondosi di un albero, raggomitolata fra le sue radici nodose e sporgenti, e ancora non ho capito bene cosa sia successo.
Tremo dal freddo, non ho coperte in cui trovare riparo, e questo luogo mi è sconosciuto.
Mi copro il collo coi capelli, come a creare una specie di sciarpa, e mi abbraccio le ginocchia con le braccia.
Questo luogo non è sicuro, non lo è per niente. Non solo è estraneo, ma la foresta è il luogo in cui avvengono le battaglie più cruente, ed è un luogo molto soggetto ai predoni, nonché ai seguaci dell’Organizzazione.
Già li vedo arrivare con la loro divisa bianca immacolata, pronti a far fuoco con le loro K.R., le pistole che ho imparato a riconoscere e temere.
Ora che ci penso sono passati due anni dal momento in cui ho visto un vero Organizzatore al di fuori delle immagini che si potevano intravedere nel megaschermo della mia famiglia.
Nel 2102 infatti la tecnologia si era molto avanzata, le televisioni si erano ormai trasformate in grandi monitor 4D, tablet e cellulari si erano ormai uniti in una cosa sola.
Peccato che adesso, nel 2104, io sono provvista sia della tecnologia che dei mezzi per poter sopravvivere, quindi mi pare di essere messa piuttosto male.
Tutto è però iniziato nel 2087, quando mio fratello era ancora piccolino e mia madre era incinta di me.
In quell’anno nacque un partito, chiamato Ordine, prevedeva strade pulite, minore inquinamento, minore spreco, ma c’era un unico problema. Così facendo non si sarebbero potuti aiutare i paesi ancora in via di sviluppo, e i miei genitori facevano parte di ciò che oggi è chiamato ribellione, ma che ieri era nominato Controversismo.
Facendo parte di una famiglia abbastanza in vista, pensarono di riuscire, assieme ad altre persone, a bloccare questo partito.
Facendosi poi catturare e ammazzare da sicari pagati appositamente per non lasciare alcuna traccia, lasciando al loro destino i loro figli. Io e mio fratello, che all’età di sedici anni dovette occuparsi di me che ne avevo appena dodici.
Ed è da quel momento che il mondo ha cominciato ad andare a rotoli: i paesi in via di sviluppo sono in preda alla povertà, e le famiglie meno ricche di quelli restanti non hanno una situazione molto diversa.
Mi rialzo in piedi a fatica, sapendo che probabilmente la situazione non cambierà mai, e appoggio la mano alla corteccia di questo albero morente. Probabilmente nemmeno lui sa quanto potremo ancora resistere a questa miseria, nonostante abbia più di cento anni.
Chissà com’era la situazione prima... non avendo potuto pagare docenti mio fratello mi aveva insegnato quanto più sapeva, ma si sa che anch’egli aveva solamente sedici anni.
Domani voglio muovermi, a giudicare dalla posizione del sole il nord dovrebbe essere da quella parte.
Compio un passo maldestro, mentre la notte scende come un velo oscuro sugli alberi e su di me.
Forse è meglio se mi sposto adesso, per evitare che quel Michele mi segua. Non sembrava avere intenzioni benevole, almeno non verso i miei confronti.
Cammino spedita fra gli alberi malmessi, passano ore quando scorgo un albero che mi sembra familiare.
Comincio a scavare con le unghie la terra già smossa in precedenza, e ne tiro fuori una confezione di marmellata di pesche.
Comincio a mangiarla, consapevole che per domani non avrò nulla di cui nutrirmi.
Quando finisco sospiro. Vorrei non trovarmi in questa spregevole situazione.
Mi stendo sul mio solito cartone, che trovo a cento metri di distanza. Sto per prendere sonno, cullata dal rumore un po’ inquietante dalle foglie frustate dal vento, quando una goccia d’acqua mi colpisce la guancia.
Fantastico. E ora dove cazzo vado? Mi alzo con uno sbuffo, lasciando al suo destino il mio cartone.
Devo trovare un luogo in cui non posso bagnarmi. Se prendessi una qualche malattia chi si occuperebbe di me?
Trovo un capanno, che di capanno non ha più niente dato che è tutto sfondato, ma di tetto ce n’è abbastanza.
Mi rannicchio alla parete bagnata come un pulcino.
Mi strizzo i capelli e tolgo la felpa. Tremo di freddo, ma almeno non ho più i vestiti fradici.
Da una crepa sul soffitto legnoso entrano gocce d’acqua, ma sono contenta di aver trovato un luogo disabitato.
“Ehi, venite qui!” è una voce maschile. Ho un colpo al cuore.
Non è Michele, è qualcun altro che non conosco... come farò? Mi addosso completamente alla parete tappandomi la bocca con le mani, così da non far loro udire il minimo rumore.
“Forse c’è qualcosa qui dentro!” la voce è più vicina, questa volta. È buio, ma il crepuscolo ancora non è finito, e si vede ancora abbastanza bene l’ambiente circostante.
Sto per cominciare a credere che se ne siano andati quando mi trovo davanti uno di questi ragazzi.
“Meglio di quanto credessi...” io lo fisso spaventata, incapace di muovermi. un turbine di emozioni scorre dentro di me, a ritmo con il mio cuore.
Tento di indietreggiare, ma il muro mi preme sulla schiena come a ricordarmi che non c’è via di fuga.
“Non mi toccare” gli intimo. Non credo di essere molto convincente dato che scoppia a ridere.
“C’è una gatta selvatica qui!” chiama sghignazzando i suoi compagni.
Mi prende per un braccio ed io, con tutta la forza di cui sono capace, gli tiro un cazzotto sul mento, facendo più male a me stessa che a lui.
Però ottengo lo stesso ciò che avevo pianificato: mi lascia andare come scottato, ed io gli passo sotto il braccio, credendo di aver creato un buon diversivo.
Capisco di essermi sbagliata nel momento in cui mi afferra per la vita e mi ricaccia dentro il capanno, stringendomi alla parete pesando su di me con tutto il suo corpo.
“Brutta stronzetta, te la farò pagare cara” è molto arrabbiato, e il suo sussurro gelido mi ferma immobile sul posto, anziché farmi reagire.
Sento qualcosa di freddo toccarmi la guancia: è la sua mano gelida che mi lascia una carezza lasciva.
Tremo di paura, e lui ricomincia a ridere.
“È un peccato dover rovinare questo bel visetto” continua con il suo monologo.
Comincio a ribellarmi dopo quel momento di panico, ed è costretto ad usare tutte e due le mani per tenermi ferma, ancorata alla parete.
Disperata tiro fuori le unghie e gli graffio il viso, più forte che posso. Non riesco a capacitarmi di ciò che ho fatto. Sono sempre stata una persona tranquilla, non ho mai usato la violenza per i miei comodi, e tantomeno artigliato il viso di qualcuno.
Questa volta ulula tanto forte da farsi sentire dai suoi compagni, che lo chiamano da fuori.
“Ehi! Senti, se questo capanno comincia a crollarti addosso io non entro mica, eh?” è stata una donna a parlare, e dalla voce sembra avere come minimo una quarantina d’anni, oppure le piace soltanto fumare.
Nessuno di loro accenna ad entrare, ed è meglio dato che posso a malapena reggere l’attacco di una persona, figuriamoci di più.
L’uomo che mi sta davanti è abbastanza giovane, sulla trentina, direi. Potrebbe avere un bel viso, se non avesse quei tre graffi profondi che gli segnano la guancia già arrossata e pulsante di sangue.
Il pugno mi arriva improvvisamente, ma in un certo senso me lo sarei aspettata comunque, facendomi perdere i sensi per un attimo. Puntini gialli e rossi offuscano la mia vista, è strano, mi sarei aspettata gli uccellini a farmi cip cip sulla testa.
Barcollo di lato, ma lui mi sostiene, solo per tirarmi un calcio sullo stomaco che mi spedisce a terra in preda ai conati. Tossisco forte, e non ho il tempo nemmeno di tentare di far forza sulle braccia così da rimettermi in piedi che mi arriva una pedata al fianco. Questa volta rotolo lateralmente, e gemo dal dolore. Più che un lamento, però, sembra un urlo.
Sto per cominciare a supplicarlo di fermarsi quando mi arriva un altro calcio, che mi toglie il respiro e impedisce di parlare.
“Allora, puttanella, come ti senti adesso, eh?” lo sento gridare in preda a una crisi isterica.
Sputo a terra, e quello che vedo non è solo saliva, c’è anche un grumo di sangue, e allora ci sono solo due opzioni: o mi ha rotto un dente oppure è successo qualcosa di grave grazie ai suoi calci.
Magari mi ha pure rotto una costola.
Lo percepisco che strilla ancora, ma ormai non lo ascolto più. Sento che sto per perdere i sensi, il dolore si affievolisce fino a scomparire.
Ecco, e così è questa la mia fine.
Morire in un capanno, di notte e con la pioggia.
Finalmente, però, potrò mettere alla mia esistenza la parola fine.
Chissà, magari nel luogo in cui sto per andare ci sono anche mamma, papà e Alessandro.
Alessandro... mi dispiace non aver mantenuto la promessa. Penso.
Ma, vedrai, saremo più felici insieme.
Chiudo gli occhi aspettando che le tenebre giungano.
Dov’è la luce bianca?
Questo è il mio ultimo pensiero, prima di vederla e librarmi verso di essa, leggera come una piuma che attraversa silenziosa le correnti del vento.
 
Pov. Michele


Torno barcollando verso l’edificio che dovrei chiamare casa, ma che per me è solo un ammasso di ferraglia inutile.
Cosa cazzo ho fatto? L’ho lasciata andare. Non la conosco, ma so che la Rossa tornerebbe senza alcun indugio, specialmente per quella fottuta collanina d’oro.
Caspita, se avessi saputo che per lei valeva così tanto da lasciarci la pelle allora gliel’avrei data subito.
Ma prima ero in collera e confuso, e mi ero rifiutato di darle quel monile.
Non so che mi è preso. L’ho pure picchiata... non avevo mai messo le mani addosso a una donna prima d’ora, e mi è bastato vedere quel suo nero sguardo di sfida per non vederci più.
Cammino per i corridoi deserti, oltrepassando porte chiuse, finché non arrivo alla mia. La apro e ci entro, facendomi spazio tra i vestiti buttati a casaccio in ogni dove.
Trovo dopo alcune ricerche la scatolina di cartoncino, che in precedenza era una scatola di preservativi (non so come ne sono venuto in possesso, giuro) e tiro fuori la catenina sottile.
Cos’avrà di tanto speciale questo ciondolo a forma di cuore? Me lo passo tra le dita, curioso.
Quasi lo lascio cadere a terra quando, senza accorgermene, lo rompo in due. Ma non si è rovinato, anzi, al suo interno c’è una fotografia. Ritrae una famiglia composta da quattro persone, un uomo, una donna, e due bambini.
La donna è rossa di capelli, e gli occhi verdi puntano proprio all’obbiettivo, e sembrano sorridermi.
L’uomo è alto, così tanto che per fare la foto si è dovuto chinare un po’. Ha i capelli castani, e una calvizie incipiente.
Il bambino avrà più o meno otto, nove anni, è bassino e sorridente, ed è leggermente davanti alla bambina, come a volerla proteggere.
Mi accorgo che è Lei dopo averle guardato gli occhi. È stata colta nel momento in cui si stava portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio, gesto che le ho già visto fare. Avevo ragione, sono capelli fantastici.
Sorride genuinamente, e mi trafigge con il suo sguardo allegro, quello che mai ho visto e, probabilmente, mai avrò occasione di vedere. Tiene stretta la mano della madre, felice.
Perché lo sto tenendo io sul palmo questo ciondolo? Cosa mai ci potrò fare? Non centro nulla con lei e la sua famiglia, e non ho tantomeno il diritto di appropriarmi di una sua cosa così prepotentemente e inavvertitamente.
Chiudo quella piccola scatolina e me la infilo in tasca.
Cazzo, non posso lasciarla andare così, non se lo merita. Qualsiasi cosa abbia passato non posso reputarmi abbastanza da rubarle un ricordo così importante.
Mi alzo di scatto, ed apro la porta, precipitandomi nel corridoio.
Le assi di legno scricchiolano, ma non mi importa, fosse per me si potrebbe svegliare anche il mondo intero.
Sono quasi all’uscita quando vado a sbattere contro un’ombra. È Andrea.
“Che ci fai ancora in piedi, ragazzo?” mi chiede basito. Penso velocemente a una risposta, e mentre gli rispondo sorrido da bravo ragazzo.
“La terra era troppo dura, il badile non serviva a molto e ci ho messo un bel po’ per seppellire il corpo della ragazza” gli spiego.
Non sembra avere qualche dubbio su ciò che gli dico, d’altronde quando mai gli ho mentito?
“Ah, allora va bene, sei giustificato” soffoca uno sbadiglio e ricomincia a camminare, incurante di ciò che accade dietro. Infatti appena si volta riprendo a correre, scagliandomi a tutta velocità nel bosco, schivando alberi e massi, cespugli e tronchi marciti.
Comincia a piovere improvvisamente, come se il cielo volesse impedirmi di reggermi sui piedi, facendomi inciampare sullo strato fangoso.
Passa una mezzoretta prima che io mi fermi e trovi un albero, sulle cui radici è adagiato una strana poltiglia marroncina, che prima dell’arrivo della pioggia sarebbe dovuto essere un pezzo di cartone.
Lo oltrepasso, cercando qualcosa che mi faccia capire la sua presenza.
Poi scorgo qualcosa di blu che esce dalla porta di un capanno, corro verso quel punto, magari si è rifugiata in quell’angusto posto, chi può saperlo.
I miei passi sono attutiti dallo scroscio dell’acqua, ed è per questo che mi accorgo dopo dell’uomo che si accanisce calciando qualcosa di inerme sul pavimento.
Sbatto le palpebre confuso, cercando di scorgere l’oggetto delle sue attenzioni.
È una ragazza, almeno credo, difficile da capirlo a giudicare dai lineamenti coperti di sangue.
Riconosco però la maglietta lilla, i pantaloni consumati e bucati, i capelli rossi...
Mi scaglio su di lui, caricandolo con un pugno. Uno schiocco secco mi segnala che il setto nasale si è rotto, e l’uomo, tenendosi il naso sanguinante con due mani, smette di tirar calci e mi guarda stupito: non si era accorto di me.
Guardandolo meglio in viso scorgo dei graffi sanguinanti sulla guancia sinistra, la gattina allora ha tentato di difendersi tirando fuori le unghie.
Sposto lo sguardo su di lei, vedendola giacere, immobile, sul pavimento. Il sangue le esce dal naso, dalla bocca e da un taglio sul mento.
Distolgo lo sguardo da quella vista orribile nel momento in cui l’uomo carica, agganciandomi con le braccia in una presa da lottatore. Io mi ribello e, furioso, gli tiro più pugni di cui sono capace, a costo di ferirmi le mani.
Dopo un po’ di tempo capisce che con me non ha proprio speranze, già stremato com’è dopo essersi accanito sulla Rossa.
Barcollando scappa via, pestando la felpa blu della ragazza.
La prendo, è tutta stracciata e bagnata, nonché impregnata di fango: è ormai inservibile.
Mi avvicino a quella povera creatura sfiancata, la giro a pancia un su e, vedendo com’è stata ridotta, dubito che sia viva. le poggio due dita sulla giugulare e, dopo aver sentito il suo flebile battito, la prendo per le ginocchia e le spalle, sostenendola con le braccia e proteggendola dal freddo. Mi sfilo la giacca e gliela metto sulle spalle, rimanendo solo con la felpa.
Esco dal capanno, correndo sotto la pioggia con lei in braccio. Che situazione assurda...
La pioggia mi arriva negli occhi, ma per questo non rinuncio a tirare avanti. Il freddo mi colpisce pungente fin nelle ossa, ma continuo a correre, a correre, a correre... non so nemmeno io per quanto tempo.
Spalanco con un calcio la porta della piccola casetta cementata che era usata, un tempo, per contenere la legna da ardere, ma che ora è solo un covo per ragni.
La adagio piano per terra e vado a prendere delle coperte dal ripostiglio, e agguantando dallo scaffale vicino all’entrata la valigetta di pronto soccorso.
Corro velocemente fino a ritornare nel punto in cui ho lasciato la ragazza, e mi chiudo la porta dietro le spalle. Come prima cosa stendo una coperta a terra, e vi adagio la poveretta sopra, per poi coprirla con un plaid. Spero che questo basti a tenerla al caldo.
Apro la valigetta bianca e ne tiro fuori una pezza, con cui detergo il sangue dal suo bel viso.
Ha una guancia annerita, mentre l’altra si sta gonfiando a vista d’occhio. Il labbro è spaccato e tumefatto, e il taglio sul mento sanguina ancora, anche se non ha bisogno di punti.
Quando finisco strizzo la pezza in un secchiello con dell’acqua dentro e, dopo un momento di indecisione, abbasso la coperta e le alzo la maglietta.
Le fisso sgomento la pancia: la pelle è liscia e bianca, ma non è questo a lasciarmi basito, sono le macchie bluastre e viola che la decorano. Provo un forte prurito alle mani, sono tentato di ripartire alla ricerca di quel mostro e fargli il doppio di ciò che vedo sul corpo della Rossa.
Comincia a tremare di freddo, e così le riabbasso la maglietta, non dopo aver tastato in cerca di ossa rotte. Non avendone trovata alcuna fuori posto le rimbocco per bene le coperte. Mi sento un padre premuroso, magari il mio avesse fatto lo stesso con me.
Non posso lasciarla sola, potrebbe aver bisogno di qualcosa, e sento che le sta pure salendo la febbre.
Mi siedo, le spalle al muro e una strana voglia di abbracciare la ragazza stesa accanto a me.
E poi, non so come e tantomeno quando, mi addormento, cullato dal rumore della pioggia e del vento.
 
Pov. Sir
 
Passo un periodo confuso.
Dove sono i miei genitori? E Alessandro?
Perché la luce bianca mi ha abbandonato?
Perché sento di nuovo il dolore?
Perché ho così freddo?
Pensieri confusi e addirittura stupidi passano a far visita alla mia testa pulsante e ferita.
Cosa sono tutti quei pomodori volanti? Perché quei conigli mangiano il mangime se hanno le carote a disposizione? Perché esistono le turche?
Non riesco a fermare ciò che vedo e penso, ma in un certo senso è meglio, queste visioni mi sottraggono in parte al dolore.
Mi rigiro nel mio giaciglio, presa da un’improvvisa vampata di calore. Mi tolgo la coperta scalciando debolmente, ma questa ritorna subito al suo posto a causa di un paio di mani che me le costringe addosso.
Gemo la mia protesta aprendo i miei occhi febbricitanti, e la persona che mi trovo davanti mi lascia stranita. È un ragazzo bellissimo, ma quasi niente in confronto alle magnifiche ali bianche che gli spuntano dalla schiena. Sembrano soffici e delicate, ma so che sono forti, devono esserlo per forza.
Sbatto le palpebre e queste scompaiono, lasciando solo il ragazzo.
Ancora qualche secondo e il buio mi inghiottisce vorace, donandomi un senso di sollievo e torpore.
 
Ritorno in superficie dolorosamente. Mi brucia la faccia, specialmente il labbro,e quando provo a muovermi il busto mi lancia una fitta tremenda, che mi obbliga a rimanere ferma.
“Hai fame?” mi chiede una voce.
È roca e stanca, familiare e fredda. Mi volto non senza difficoltà, ignorando i dolori che mi lancia il mio corpo.
Mi guardo attorno e vedo solo mattoni di cemento accostati e uno sopra l’altro, a formare un edificio a me sconosciuto. Proprio appoggiato alla parete c’è un ragazzo, anzi, Quel ragazzo: Michele.
Mi guarda con un’aria strana, sembra... colpevole?
“Stammi lontano” gli ordino poco convinta, ricordando ciò che mi ha fatto... quando? Che giorno è oggi? Mi domando come sono arrivata qui.
Lui si alza e viene verso di me. Quando vede che voglio alzarmi per scappare via, svelto, si inginocchia e mi spinge le mani sulle spalle, in modo tale da tenermi sdraiata.
Il mio respiro accelera: non mi fido di lui, non dopo lo schiaffo che mi ha dato.
“Ti prego... non mi toccare” mugolo impotente.
Lui ritrae le mani riluttante, ed io sospiro sollevata.
Ha il solito barattolo di minestra nella mano sinistra, e sulla destra ha un cucchiaio.
Non me lo porge, come avevo pensato, ma lo immerge nella lattina e ne tira fuori una bella cucchiaiata.
Poggia il contenitore a terra e, deciso, mi prende per la nuca, l’unico punto che non mi duole.
La sua presa è gentile, e lentamente mi alza la testa, così da potermi imboccare senza farmi soffocare.
Perché adesso si prende cura di me? non mi riesco a dare una risposta.
“Ho pensato che tu potessi essere affamata dopo due giorni di febbre” era un sorriso quello? Potrei giurare di aver visto gli angoli della sua bocca sollevarsi.
accetto la minestra e lascio che si occupi di me come non aveva mai fatto nessuno al di fuori della mia famiglia.
La sua mano sulla mia nuca è calda e piacevole, mi sostiene la testa in una presa ferrea ma comunque gentile.
“Cos’è successo?” chiedo dopo qualche minuto di silenzio.
Lui mi imbocca di nuovo e poi sorride sarcastico.
“Speravo potessi dirmelo tu” mi risponde. Lo guardo affondare di nuovo il cucchiaio dentro il barattolo, e inghiottisco il mio boccone prima di cominciare a parlare.
“Non ricordo granché, solo...” esito “il dolore”. Mi guarda con la compassione padrona del suo sguardo. Chissà che aspetto devo avere... non dev’essere per niente bello dato che mi sento la guancia gonfia e pesante, assieme alle labbra.
“Capisco” e poi, solo il silenzio.
È di nuovo notte. Il giorno non lo ricordo granché dato che ho passato la gran parte del tempo a sonnecchiare, ma lui non c’è.
Quando mi sono addormentata lui si era appena seduto alla parete, e mi sentivo il suo sguardo addosso.
Alzo il viso dal mio braccio addormentato e formicolante, e mi guardo attorno.
No, se n’è proprio andato. Chissà se tornerà mai.
Ho appena finito di formulare questo pensiero e rannicchiarmi sotto le coperte, che Michele entra dalla porta di legno, facendo meno rumore possibile.
Un po’ sobbalzo dallo spavento, un po’ sono felice che sia qui.
Ha i capelli scompigliati, un filo di barba e la felpa stropicciata come se si fosse appena svegliato.
Ha due panini in mano, e me ne porge uno mentre addenta famelico il suo. Ho recuperato le forze abbastanza da poter mangiare da sola, e per fortuna lui se n’è accorto.
Lo ringrazio flebilmente, mentre lo osservo sedersi al suo solito posto, appoggiato alla parete.
Do il primo morso al panino, e mi sento in paradiso. Non ricordo di aver mai mangiato nulla di così buono in tutta la mia vita, mai. Comincio a divorarlo, così velocemente che rischio di soffocarmi.
Tossicchio un paio di volte prima di riprendere a mangiare, incurante dello sguardo divertito di Michele.
“Buono?” mi sorride.
Aspetta... mi ha sorriso? Sì, l’ha proprio fatto. È la prima volta che gli vedo un’espressione serena su quel volto, e devo dire che è molto più... umano così.
Annuisco sorridendogli a mia volta, stando attenta a non tirare troppo il labbro spaccato.
Quando finisco di rifocillarmi mi sdraio nuovamente sulle coperte, e mi ci rannicchio come una bambina spaventata del temporale, solo che è ciò che sta fuori da questo edificio a preoccuparmi.
Lui non si alza né va via, nonostante l’ora tarda.
Dopo qualche minuto di silenzio non colmato è lui ad interagire per primo.
“Chi sei veramente?” mi chiede. È un sussurro che sa di promesse mantenute e silenzi concordati.
Mi volto a guardarlo. Mi sta fissando, mi sento nuda di fronte al suo sguardo, è così maturo e profondo.
Quel verde selvaggio si scontra con il nero, incatenandosi l’un l’altro e rincorrendosi come spire focose di respiro e sbattiti di ciglia.
 
Ed eccoci qui con un nuovo, caccoloso, capitolo alla mia storia! Lo so... è cortissimo, ma non ho avuto molto tempo per scrivere, e c’è stata una serie di sfortunati eventi che mi ha impedito di scrivere per un tempo interminabile. Ma non vi ho abbandonato, è questo che conta, no? XD
Spero di non avervi deluso, :*
La vostra,
Chiara
P.S. non dimenticatevi di andare a leggere questa storia fantastica, vi lascio il link ;)
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1768868&i=1
 

  
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