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Autore: ScleratissimaGiu    27/05/2013    1 recensioni
Samantha è stata assunta nello studio legale Benson&Clarks per le sue ottime referenze, ma il suo egocentrismo e la sua arroganza con uno dei suoi colleghi, William, stanno esasperando proprio il diretto interessato.
Stufo del suo comportamento, egli convincerà il suo capo ad affidarle un caso senza speranza: far uscire Charles Manson, lo spietato killer che terrorizzò gli USA, dal carcere e mandarlo agli arresti domociliari.
Tratto da una storia vera.
Genere: Generale, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Los Angeles avevo consultato un medico, il dottor Elijah Torres, che aveva acconsentito ad una visita di Manson per stabilirne lo stato schizofrenico, a patto che anche la prigione di Corcoran avesse dato la sua disponibilità.
Il signor Weller, malgrado il tono titubante, diede il via libera per una visita medica stabilita per il giorno 3 dicembre 2011.
Nel frattempo, mi aveva spiegato, avrei potuto far visita a Manson quando avrei voluto.
Tornai dal mio nuovo cliente per circa tre volte a settimana, spiegandogli la mia linea nei minimi dettagli.
Lui annuiva, non so per quanto potesse essere cosciente di ciò che gli stavo spiegando, ma asserì che, nelle motivazioni dell’udienza, dovevo assolutamente dire “riabilitazione”.
- O qualsiasi parola che ti passi per la testa che sia simile a questa, - mi spiegava ogni volta, sempre con lo stesso tono che definivo invasato - perché io voglio guarire.
Lui voleva guarire.
Io volevo vincere e umiliare Cooper.
Le tre cose potevano combaciare alla perfezione.
 
 
Il tre dicembre presi il treno come facevo ormai da poco più di un mese e andai alla prigione di Corcoran insieme al dottor Torres.
Quando arrivammo, nella sua cella Charlie stava cantando qualcosa.
Non riuscii a capire cosa fosse, ma s’interruppe appena ci vide.
Inaspettatamente, quando il dottore lo portò nell’infermeria per la visita, mi scoprii in ansia.
Qualcosa in me stava cambiando.
 
 
 
- Le comunicherò i risultati in treno, non voglio che nessun altro li conosca a parte me, lei e Manson.
Così mi aveva detto il dottor Torres, dopo due buone ore rinchiuso in quella saletta con Charlie.
Annuii silenziosa, salutando il mio cliente con la mano e un sorriso radioso, gesti che lui ricambiò volentieri.
Il Los Angeles Express, alle sei del pomeriggio, era deserto, il che era un bene sia per me che per il dottore.
- Vede, - mi disse, mostrando alcuni disegni e scritte fatti da Charlie - gli ho detto di scrivere tutto quello che gli passava per la mente, e questo è quel che ha fatto.
Il foglio era pieno di frasi sconesse, parole a caso, scritte per di più in una calligrafia incomprensibile e con diversi colori.
Si distinguevano, in una calligrafia a dir poco atroce, parole come “Dio, Gesù, Satana, Reincarnazione, Morte, Vita, Discepoli, Famiglia, Charlie”.
- Quanto è grave, dottore? - domandai, senza distogliere lo sguardo dai fogli.
- Difficile a dirsi, - sospirò l’uomo, accarezzandosi il mento - la schizofrenia peggiora ogni giorno, indipendentemente dall’individuo. Ha parlato da solo, si è messo a cantare… non so davvero cosa dirle.
- È malato, quindi?
- Su questo non c’è dubbio.
Mi appoggiai al sedile, sospirando.
Uno a zero per Samantha Wilson, lo stadio è in delirio, signori.
La palla ritorna al centro.
- Crede che potrò invocare l’infermità mentale in tribunale?
- Ovvio, ma non credo che le daranno retta, anche con le analisi in mano. Gliele consegnerò non appena avrò scritto un’ulteriore diagnosi personale sul paziente.
- Perfetto.
Quando, quella sera, mi distesi a letto, pensai a Charlie più del solito.
Non ero totalmente felice perché era davvero malato, ma anzi ero triste proprio per questo fatto.
Dunque, mentre mi trastullavo in questi pensieri, presi il telefono e composi il numero di mio padre, che rispose al primo squillo.
- Tesoro, qualcosa non va?
Domanda scontata.
Lui sapeva già quando aveva risposto, che c’era qualcosa che non andava, e sapeva anche cosa.
Ma la sua nuova “umanità”, chiamiamola pure così, lo stava catturando più di quanto si era aspettato.
- Sì. Sono preoccupata.
Sospirò.
Non gli piaceva quando assumevo quell’atteggiamento, quando mi buttavo giù senza combattere.
- Vinci. Tiralo fuori di lì. Io credo in te, Sam. 
E appese.
L’ho detto anche prima, di poche parole.
E sì, anche stavolta mi bastavano solo quelle.
 
 
                              * febbraio 2011, due mesi e mezzo prima dell’udienza *
 
 
- Allora, Charlie, riprendiamolo per l’ultima volta.
Gli stavo parlando da più di due ore, ma quel giorno era uno delle sue “ricadute”, come diceva il dottor Torres.
Ricaduta” era il termine con cui il dottore definiva i giorni no del mio cliente.
Lo sorpresi a parlare da solo più di una volta, a fissare il vuoto con occhi smarriti, a storcersi le mani senza una qualche ragione.
- 9, 10 e 26 agosto 1969, dov’eri, Charlie? Sei andato con loro?
Erano i giorni degli omicidi.
Da quello che avevo letto e visto nei documentari, Charlie non c’era mai stato, era sempre rimasto al ranch col resto della Famiglia.
Ma era lui che doveva dirmelo.
- No… - mormorò, sempre fissando il vuoto.
- Dunque tu non hai mai fatto niente a quelle persone, giusto?
- Ho detto agli altri di ucciderle… 
- Ma materialmente non hai fatto nulla, no?
Scosse la testa, poi si girò improvvisamente dietro di sé.
- Cosa c’è? - mi allarmai, cercando di individuare quel che aveva attirato la sua attenzione.
- Niente… Niente!
Aveva urlato.  
Di nuovo.
Continuava ad urlare.   
Sempre.
Non dico che mi spaventasse, ma mi preoccupava.  
Mi preoccupava molto.
Stava peggiorando.
- Io vado, Charlie. Torno tra qualche giorno, ok?
Annuì, fissando il tavolo.
Rimasi a guardarlo per qualche secondo, per vedere se si riprendesse da quello stato catatonico, ma invece rimase lì, imbambolato.
Sul treno di ritorno a casa, per la prima volta piansi.
Un vecchio signore si accostò per chiedermi se avessi bisogno di qualcosa, ma gli risposi che stavo bene, era solo un crollo nervoso.
Piansi perché avevo paura, visto che Charlie stava peggiorando.
Piansi perché sapevo che avrei perso la causa.
Piansi perché sapevo che, se l’avessi persa veramente, Charlie non avrebbe mai potuto curarsi.
Piansi perché una persona che voleva tornare a vivere sarebbe morta agonizzante in una cella di due metri per tre, sotto gli sguardi noncuranti della sorveglianza.
 
 
 
 
Una settimana dopo, Charlie si era ripreso.
Quel giorno di delirio schizofrenico acuto era solo un brutto ricordo, che lui peraltro non ricordava.
Potei spiegargli tranquillamente per la quarantesima volta la mia linea da seguire, e stavolta credo che l’abbia ascoltata attentamente e l’abbia assimilata.
- Io credo in te, Samantha.
Alzai lo sguardo verso di lui, incontrai i suoi occhi nocciola.
Sembrava lucido.
- Davvero?
- Davvero davvero.
Suonava tanto come una conversazione di bambini dell’asilo, ma… non so, mi lasciò una sensazione strana, e me la lascia tutt’ora, quando ci ripenso.
Nel frattempo, sui giornali la mia faccia e quella di Charlie stavano spopolando.
Montagne di articoli, cronologie sulla vita di Manson, sulla mia, chi eravamo e cosa stavamo facendo.
Parecchie volte trovai nugoli di giornalisti, armati di macchine fotografiche, radio e videocamere ad attendermi sulla porta di casa, ansiosi di sapere che cosa stesse succedendo, se mi sentivo sicura, perché io.
“Perché sono l’unica che può farlo” risposi, e sento che sia un concetto vero.
Ma è anche vero che, giorno dopo giorno, l’ansia per il processo aumentava. 
 
 
                                              * 6 marzo 2011, un mese esatto prima dell’udienza *
 
 
 
- … e poi portarono via prima Susan, che ha fatto la cretina con una compagna di cella. Le ha detto tutto: Tate, LaBianca. Così hanno preso me, Tex, Patricia, Leslie e Linda. Tutto qui. Ecco com’è andata veramente.
Charlie, dopo lunghe pressioni, si era deciso a raccontarmi per filo e per segno la sua cattura.
- Come mai Linda ha voluto trattare e gli altri no?
- Chi lo sa. Se n’è andata.
- Non sai dove?
Fece spallucce.
Non gliene fregava nulla, di dove fosse andata Linda, fosse anche morta o viva.
Tanto lei era nascosta, e non sarebbe mai uscita.
L’avevo sentito in quel documentario di History Channel.
- Capito… Charlie, manca solo un mese al processo, lo sai, no?
- Certo.
- Da adesso ho accesso negato a questo posto. Almeno fino al 6 aprile.
Mi guardò perplesso.
- La prigione, per me, è off-limits finchè non ci sarà l’udienza. Così vuole la legge. Mi dispiace.
Sbuffò.
Era un gesto da bambino, che mi portò a sorridere spontaneamente.
Era peggiorato nell’ultimo mese, lo si vedeva dalle rughe che gli si erano formate su tutto il viso, in particolare accanto agli occhi e agli angoli della bocca.
Ma, dopotutto, aveva sempre settantotto anni.
- Capisco…
Si alzò dalla sedia, che scricchiolò terribilmente.
Non ebbi paura quando si avvicinò, e risposi al suo abbraccio come fossi stata una nipotina che sta per partire in un altro continente che salutava il nonno.
Inutile dire che piansi anche quel giorno, sul treno.
  
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