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Autore: Flaqui    27/05/2013    6 recensioni
Il mondo è diverso da come lo ricordate.
La società è moderna, avanzata, dotata di ogni genere di tecnologia e ha affrontato il problema Bomba Nucleare con la costruzione di alcune zone sicure in cui è ancora possibile vivere. In un ambiente post-apocalittico, li unici insediamenti umani ancora esistenti sono le quattro grandi Cupole, rette da un Governo irreprensibile e organizzate in delle rigide classi sociali dalle quali non si può scappare.
I Governanti, una classe sociale unicamente maschile, si occupa di offrire al Paese un sistema politico degno di questo nome. I Guerrieri, allenati nella grande scuola di Metallica, difendono il Paese da minacce esterne e interne. I Produttori svolgono li altri mestieri, occupandosi delle necessità loro e delle altre classi. Ma c'è gente che non ci sta.
"Il mondo di Melanie finisce lì, si esaurisce alle pareti di materiale invisibile della Cupola, dove l’aria è respirabile e dove, grazie all'aiuto delle macchine, qualcosa cresce ancora. Fuori dalla Cupola Melanie non sa cosa sia esistito, un tempo.
Ma sa cosa c’è adesso. La morte."
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ringraziamento speciale a Bess, Nipotina, Rosie e a Freak the Freak che hanno recensito lo scorso capitolo! Un ringraziamento più che sentito va alla meravigliosa March Hare che mi ha regalato il banner postato qui sotto!

 
Capitolo II
Ricorda il nome

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1 Ottobre 2198, Cupola Ovest
Metallica; SottoCupola Tunner, (Messico)
Infermeria, Vicinanza Alloggi Beta, Ore 19:54
 
Improvvisamente la realtà prese a bruciare di colori accesi e di suoni squillanti. Il freddo sulla pelle, il dolore urticante agli arti, il sapore in bocca intenso e metallico.
Rebecca, distesa su una superficie liscia e gelida, sentì il cuore rimbalzarle nel petto e la paura stringerla in una morsa, spronando i suoi arti goffi e impacciati a muoversi e, allo stesso tempo immobilizzandoli lì.
Fuggire, correre –devo, devo andare, io devo- la sensazione che un qualcosa di terribile fosse sul punto di abbattersi su di lei non le diede pace. Provò a sollevarsi e si accorse di avere li occhi sbarrati. Allora provò ad aprirli e si accorse di non riuscirci.
Era come se le avessero incollato le palpebre: se anche solo provava a schiuderle, sentiva un formicolio spiacevole lungo la spina dorsale e un dolore terribile all’altezza dello sterno.
Si agirò irrequieta e le sue mani, nonostante l’intorpidimento iniziale, incontrarono un qualcosa di freddo e liscio, proprio alla sua destra. Cercò di afferrarlo, qualsiasi cosa fosse, ma le sue dita non rispondevano ai comandi e un verso di frustrazione le uscì dalle labbra.
Non appena si rese conto di poter emettere dei suoni –le sembrava che un enorme peso le fosse stato depositato sul petto e le impedisse di respirare- cercò di modulare la poca voce rimastale per chiedere aiuto. Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva che a produrre borbottii indistinti e mugolii che non sarebbero stati uditi da nessuno.
Se avesse potuto tirare un pugno a qualcosa lo avrebbe fatto. La sconfitta e l’impotenza le bruciarono dentro e il cuore prese a battere sempre più forte.
Riusciva quasi a sentirne il rumore, vagamente metallico e ritmico, come il suono di una macchina che… C’era qualcosa altro.
Rebecca lo realizzò all’improvviso, senza nemmeno fare un ragionamento logico, semplicemente ci arrivò. Il suono del suo cuore era accompagnato e scandito dal continuo intercedere di una macchina e, per quanto patetico quel pensiero potesse essere, ne fu tranquillizzata: se fosse stata morta non ci sarebbero state macchine o rumori metallici.
Questa scoperta la rese ancora più determinata a sfuggire all’immobilità e, con uno sforzo in grado di toglierle il respiro, riuscì a distendere completamente la mano destra. L’oggetto freddo che aveva sfiorato poco prima era una sbarra: liscia e tondeggiante. Proseguì con le dita oltre il bordo e ci trovò il vuoto, quasi fosse sospesa nel vuoto.
«Mhmm»il suono che le era uscito dalla bocca, questa volta, fu più chiaro e forte e Rebecca si congratulò con sé stessa. Si ripropose di ritentare di nuovo, di sforzarsi ancora, di rendere nota la sua presenza a qualcuno e stava appunto per riprovarci quando dei suoni –non metallici, non ritmici- le giunsero indistintamente alle orecchie.
A differenza del suono del suo cuore e della macchina, questi le arrivavano più indistinti, vaghi e confusi. Rebecca ebbe appena il tempo di ipotizzare la loro natura umana che una mano calda –e lei aveva tanto freddo, tanto, tanto- le si poggiò sul braccio.
All’inizio fu solo uno sfioramento leggero, e lei lottò per aprire li occhi, ma  poi la presa si intensificò e Rebecca sentì un qualcosa colpirla leggermente, una volta, due volte, tre volte.
La quarta volta il colpo fu abbastanza forte da far formicolare le dita delle mani.
Poi, la quinta volta, la mano –aveva deciso che quella era una mano, anche se la sua temperatura era andata a salire con il passare dei secondi- si staccò di colpo e, insieme con lei, un qualcosa di indefinito che era attaccato alla sua pelle.
Fu abbastanza doloroso e Rebecca sentì i peli delle braccia rizzarsi tutti, ma, non appena quel qualcosa si fu staccata dal suo corpo, si sentì incredibilmente meglio.
Improvvisamente fu in grado di muovere liberamente le mani, le dita, i piedi e il peso all’altezza del petto sparì. Dopo pochi secondi spalancò li occhi.
 
Era completamente nuda, sotto il lenzuolo bianco.
Una parte infinitesimale del suo cervello si chiese come fosse successo, cosa fosse accaduto; ma era una parte infinitesimale, appunto, perché il resto della sua mente era concentrato su… sututto il resto.
Riusciva a vedere tutto. Tutto, ogni singola cosa, ogni singolo particolare.
Le chiazze di colore più intense sulle pareti -lì dove il pennello dell’intonaco era passato più volte- le saltavano all’occhio come se fossero stati evidenziati. Piccole particelle di polvere si agitavano nell’aria e Rebecca riusciva a distinguerle una ad una, come se fossero state grandi come palloni. Riusciva a scorgere con una chiarezza disumana le invisibili ali degli insetti, a calcolare la loro velocità, a intuire da che parte si sarebbero mosse, dove avrebbero girato.
«È come avere mille occhi, mille orecchie e mille mani in più. Bello, eh?»
La testa di Rebecca scattò nella direzione della voce che le si era appena rivolta, ad una velocità disumana e troppo elevata. Se fosse stata… -normale, ecco- probabilmente avrebbe avuto un giramento o, per lo meno, le immagini le sarebbero arrivate sfocate nel movimento.
Eppure le parve, in quel piccolo scatto, di poter percepire ancora più chiaramente tutto quello che la circondava: riuscì persino ad individuare la piccola crepa che attraversava il lucernario.
La voce apparteneva ad un ragazzo dai capelli rasati e una espressione seria in volto.
Rebecca distinse con una facilità innata le invisibili rughe ai lati degli occhi, una piccola cicatrice biancastra all’altezza del mento e ogni singola lentiggine, neo o macchia sulla sua pelle abbronzata.
Era assurdo come, dettagli che non avrebbe mai nemmeno notato, le saltassero all’occhio involontariamente. Una mera casualità e una conoscenza spicciola che le diedero la sensazione di poter riconoscere quel viso fra una folla immensa, dopo averlo visto per appena cinque secondi.
«Cosa… cosa è questa roba?»
La voce le uscì vagamente soffocata e Rebecca si prese un attimo per recuperarla del tutto, prima di parlare nuovamente. Nel mentre i suoi occhi, che non riuscivano a rimanere fermi per più di pochi secondi e continuavano a spostarsi per la stanza, coglievano ogni volta sempre più particolari e li elaboravano in modo continuo.
«E’ veleno. Sei stata ferita troppo gravemente perché potessimo fare niente»li occhi del ragazzo erano rivolti verso il basso e Rebecca non poté nemmeno carpirne il colore «L’unica nostra speranza per salvarti era usare il Rivitalizzatore, nonostante sia una delle cose più dolorose esistenti. Forse non funzionerà nemmeno, è molto rischiosa, come sostanza. Mi dispiace davvero…»
Rebecca sentì il suo cuore sprofondare, affondare nel petto, finirle nello stomaco. Improvvisamente si sentì vuota e persa, come disfatta in un vento invisibile, pronta per essere spazzata via. Serrò i pugni delle mani, come in attesa di un colpo invisibile che la sbalzasse all’indietro come era successo sul treno.
La veloce spiegazione del ragazzo era chiara: avrebbe sentito molto dolore e forse non sarebbe nemmeno sopravvissuta. Ma lei non si era mai sentita meglio in tutta la sua vita e questo, oltre alla enorme varietà di colori, particolari e dettagli che le saltavano all’occhio tutti insieme, la distraevano alquanto.
Se le mie condizioni sono davvero così gravi… perché mi sento così bene?
Fu un attimo. Il sorrisetto del ragazzo davanti a lei comparve per appena un secondo ma Rebecca fu in grado di percepirlo. Era in grado di percepire qualsiasi cosa e questo la speventava –la elettrizzava- ancora di più.
«Stai mentendo. Io mi sento benissimo, se fossi tanto grave sarei…»
Il letto della sua camera, le pareti gialle che si distinguono appena nella penombra, la fronte che scotta contro il cuscino. La strada che porta alla sua scuola, quello stupido di Effrod che la spintona e il ginocchio rosso e poi viola e poi di nuovo rosso e il dolore pulsante. E le unghie conficcate nei palmi delle mani, nell’attesa dei risultati per il Test. E la tosse roca di suo padre, e il Misuram che indicava la temperatura corporea troppo alta, il Tubo che li porta al Centro dei Produttori con Attestazione Medica e…
Mille e mille ricordi le si affollarono davanti agli occhi, tutti collegati fra di loro: quelli in cui era stata malata o in cui aveva visto qualcuno malato, sprazzi di conversazioni e quel poco che sapeva sulla Medycina, tutto le venne riproposto in quell’attimo, porzione infinitesimale di tempo.
Era come se le porte della sua memoria si fossero aperte e tutto le apparisse più definito e nitido. Come se nel suo cervello ci fosse molto più spazio a disposizione, molti più pensieri da sviluppare, più ragionamenti da mandare avanti. Rebecca cercò di concentrarsi su un unico problema ma la sua mente continuava a divagare sugli argomenti più vari e inconsueti.
Ebbe diversi flash completamente estranei alla situazione –un paio di scarpe slacciate, il rock and roll, i raggi del sole, sua madre che le diceva “Sei forte”, sono forte, la polvere che rotea, confusione, stecchita, sei morta, sarai morta fra poco- e il ragazzo di fronte a lei sorrise appena, una smorfia di sufficienza che gli sollevò le guance rasate.
«E’ difficile concentrarsi, vero?»si chinò in avanti avvicinando i loro volti, tanto che Rebecca, dopo essersi stretta con maggiore forza il lenzuolo addosso, indietreggiò appena «Dovresti preoccuparti: la distrazione è il primo segno che il veleno sta facendo effetto. Fra poco non sari in grado nemmeno di…»
«Pyke, smettila di spaventarla»la voce arrivò a Rebecca da un imprecisato punto alle sue spalle ma, per quanto potesse apparire assurdo, lei aveva percepito quel qualcuno muoversi ancora prima che quello effettivamente si muovesse.
Il “qualcuno” era una donna sulla quarantina, dai capelli rossicci e una espressione gentile sul volto segnato dalle rughe. A Rebecca quel sorriso ricordò quello di sua madre e, anche se impercettibilmente, rilassò le spalle contratte.
Pyke sbuffò appena, allontanandosi con studiata lentezza e fissando le spalle nude di Rebecca con una insistenza tale che lei si sentì arrossire «Non stavo facendo nulla, su! Se non ci fossi stato io a toglierle il Connettitore sarebbe ancora ad agitarsi e a mugolare. Sei stata tua dirmi di occuparmi di lei!»
Rebecca spostò lo sguardo sulla donna, in attesa di sentirne la risposta e, prima ancora che potesse pronunciare alcunchè, fu in grado di prevedere che movimenti avrebbero compiuto le sue labbra. Quella, come se avesse capito cosa le stesse passando fra le testa, le lanciò un sorriso incoraggiante.
«Ben svegliata, cara. Sono felice che tu ti sia rimessa senza problemi. Mi dispiace di non essere stata qui, al tuo risveglio, ma con tutto la confusione che si è scatenata l’Infermeria è stracolma. Confido che Pyke ti abbia trattato con garbo e che ti abbia spiegato come funziona» esordì la donna, prendendo posto sul suo lettino dalla parte opposta rispetto al fastidioso ragazzo «Sono Malina Yorinch, Guerriero di Livello Beta con Specializzazione Medica»
La mano di Rebecca scattò in alto qualche secondo prima del previsto e l’Infermiera sorrise appena, alzando anche la sua e restituendole una stretta salda e rassicurante.
«E’ veleno, quello che ho in circolo?»chiese poi, soltanto per avere conferma delle sue supposizioni e chiarimenti sul suo stato.
La fronte di Malina Yorinch si corrugò appena e delle rughe di espressioni si formarono sulla fronte, mentre inclinava appena la testa «Cosa? Certo che no! Come ti è venuto in mente?»
Rebecca lanciò uno sguardo fugace a Pyke e lo trovò a ridacchiare sommessamente. Si soffermò qualche secondo sulla piccola e invisibile cicatrice che segnava il suo collo e spariva oltre il bordo della maglietta nera, prima di tornare a rivolgersi all’Infermiera.
«E allora cosa è successo? Perché mi sento così… così…»Rebecca non continuò la frase non perché non riuscisse a trovare un termine adatto per completarla ma, anzi, perché la sua mente era scattata in avanti e aveva raccolto ogni parola esistente che potesse adattarsi alla situazione. In un riflesso involontario, le sue mani andarono a stringerle il capo, come ad impedire che scoppiasse per il sovraccarico di informazioni.
«Oh, povera cara. Lo so che è fastidioso. Il Rivitalizzante, la sostanza che ti abbiamo iniettato grazie al Connettitore»e qui Malina fece cenno allo strano oggetto adesivo che Pyke le aveva staccato dal braccio al suo risveglio «fa effetto su un’area del nostro cervello non coinvolta completamente dal nostro organismo che amplia la nostra percezione e la nostra sensibilità. Ci permette di superare i traumi e le commozioni celebrali stimolando, al posto delle cellule danneggiate, altre solitamente inutilizzate. Non ci sono effetti permanenti e non provoca alcun danno, ma potresti sentirti abbastanza confusa e subire dei leggeri giramenti»
Rebecca annuì. Probabilmente, senza il Rivitalizzante, quella spiegazione non sarebbe stata sufficiente a darle tutte le risposte, ma, il modo in cui il suo cervello aveva reagito alle parole dell’Infermiera, facendo una serie di complicati collegamenti, le faceva apparire tutto chiaro.
«Quanto durerà l’effetto?»chiese, rilassandosi appena contro la testata del letto e facendo attenzione che il lenzuolo non le scivolasse addosso. Pyke, a quanto le era parso di capire, era l’assistente dell’infermeria ma, in ogni caso, non aveva la minima intenzione di scoprirsi maggiormente.
«Dipende dall’intensità del trauma»questa volta fu proprio Pyke a risponderle -Rebecca non fu abbastanza veloce da percepirlo e girarsi verso di lui- e lo fece in modo svogliato, come se ne fregasse altamente «Nel tuo caso credo che basteranno una decina di minuti, all’incirca»
Malina annuì e Rebecca la vide sorridere prima che si girasse a guardarla nuovamente.
«Esattamente. Mentre aspettiamo che le tue facoltà ritornino alla normalità, permettimi di farti qualche domande. E’ solo qualche formalità, nulla di importante: quesiti generici e di routine, nulla di cui preoccuparti»prese un piccolo O.L.O. portatile da un ripiano in metallo e, dopo aver picchiettato con le dita sulle palpebre per attivare le Lenti Della Vista, prese a leggerne il contenuto «Dunque, ricordi il tuo nome, cara?»
«Rebecca»rispose lei senza la minima esitazione «Rebecca Anderson»
«Bene, Rebecca. Sai dove ti trovi?»
«Ehmm» Rebecca sapeva la risposta, la sapeva davvero, ma appena provò a pronunciarla, questa le sfuggì. Tentò di inseguirla e riuscì ad afferrarla per il rotto della cuffia. Ma era in qualche modo incompleta: come se non fosse davvero tutto quello che sapeva «In una Infermeria?»
«Mhm-mhm»asserì Malina «E sai anche in quale Infermeria siamo?»
Questa volta la risposta era così ovvia che Rebecca non ebbe alcun dubbio. Eppure, come prima, anche questa le sfuggì, correndo a nascondersi in una zona del suo cervello a cui non riusciva ad avere accesso. Questo la fece innervosire enormemente: era così facile.
Lo sapeva! La sapeva quella risposta, dannazione!
«Non lo so»ammise alla fine, continuando a sbattere i pugni contro il muro nero nella sua mente: una porta chiusa che limitava i suoi pensieri.
Pyke sghignazzò appena e Rebecca fu ancora più infastidita: perché non riusciva a prevederlo? Era come essere stata dotata di un incredibile superpotere e privatane subito dopo.
Malina non rise e non la prese in giro: il suo fu un sorriso calmo e rilassato.
«Siamo a Metallica, Rebecca. Capisco che ti senti confusa, immagino che l’effetto del Rivitalizzatore stia svanendo. Ti chiedo solo un ultimo sforzo e un’ultima domanda, d’accordo?»
Rebecca annuì, incrociando le braccia all’altezza del seno e stringendo forte le lenzuola.
«Ricordi come mai sei finita qui? Cosa ti è successo prima?»
Rebecca si concentrò, ma i ricordi adesso scorrevano più lenti e lei ci mise interi secondi prima di comprendere appieno la domanda e iniziare a cercare. Si sentiva lucida –molto meno di prima, certamente- mentre la sua mente si affannava alla ricerca di risposte che voleva ma non trovava.  Provò con un altro percorso mentale, nella speranza di avere una visione più chiara. Cosa era successo, ieri? Cosa aveva fatto –ho preso un treno- ecco, il treno e poi… poi avrebbe dovuto –arrivare a Metallica-, certo ovvio. Ma dopo cosa era successo –sono caduta, sono caduta e non riuscivo ad alzarmi- e poi lei aveva…
Sbattè contro il muro nero, di nuovo, senza riuscire a cavarne nient’altro.
Evidentemente, il fallimento e l’irritazione le si leggevano in faccia, perché Malina sorrise di nuovo e la confortò con una gentile pacca sul braccio –Lo so, lo so. E’ assolutamente normale, sia lo sfasamento che il non ricordarsi niente. Ieri sera c’è stato un incidente: a quanto pare uno degli ingranaggi del treno ha fatto reazione e una della carrozze è saltata in aria, non so dirti precisamente. Per fortuna eravate molto vicini a Metallica, così non ci sono stati feriti troppo gravi. Tu stessa hai subito una piccola commozione celebrale, anche se il problema è ormai risolto –o per lo meno lo sarà entro questa sera-. In ogni caso è perfettamente normale sentirsi confusi o non ricordare bene qualcosa, non c’è nulla di preoccupante-
Una esplosione. Rebecca cercò nuovamente, senza riuscirci.
Era un vuoto, un nulla e non riuscì ad aggirarlo in alcun modo –non ci sono nemmeno i confini, in questo muro nero della mia memoria, non so dove inizia, non so dove finisce, non so neppure se sono ancora io- e Rebecca si sentì invadere da una rabbia ardente e selvaggia.
Fu una reazione inaspettata che le fece  pulsare il sangue nel collo, rimbombare le orecchie e stringere i pugni. Il monitor –il rumore metallico in sintonia con quello del suo cuore- registrò l’accelerazione del battito cardiaco. Rebecca lo fissò e, per la prima volta, lo sguardo le scivolò sulla zona destra del corpo, a livello della clavicola.
C’era un numero tatuato con un inchiostro nero e brillante: 306.
Sembrava quasi fatto con lo stampino, soprattutto per la precisione e le identiche dimensioni dei numeri. Rebecca lo guardò e, per la prima volta da quando si era svegliata, il suo viso si tinse di genuina sorpresa.
Ci fu un piccolo fruscio e, anche se l’effetto del Rivitalizzatore era svanito oramai completamente, percepì il corpo caldo di Pyke a qualche metro da lei. Alzò lo sguardo e lui la stava fissando, sorridendo appena.
«Benvenuta a Metallica, Rebecca»
 
Pyke si offrì di accompagnarla fuori dall’Infermeria senza che nemmeno Malina glielo chiedesse e Rebecca aspettò che fosse uscito della piccola stanza, prima di sollevare il lenzuolo e indossare i comodi abiti poggiati sulla sedia.
Non era la prima volta che indossava i pantaloni, per abituarsi e farsi una idea di come le sarebbero stati addosso ne aveva provati un paio di nascosto, ma mettere quelli della Divisa di Metallica fu diverso.
Nella stanza non c’era uno specchio dove controllarsi e Rebecca si limitò ad aggiustarseli con impacciati tocchi delle dita, in modo che le scendessero bene sulle gambe.
La canotta nera, invece, era a bretelle larghe e non molto scollata e, aggiustandosi bene la spallina, riuscì quasi del tutto a nascondere il tatuaggio del numero sulla clavicola. Non le bruciava, né le faceva male ma, passandoci le dita sopra, sentiva i segni leggermente in rilievo rispetto alla pelle e questo la turbava un po’. Per sicurezza si spostò anche i capelli sulla destra e prese un grosso respiro.
Pyke la stava aspettando fuori dalla stanza e, quando lo ebbe affiancato, nemmeno alzò lo sguardo dall’O.L.O che stava consultando. Rebecca ne approfittò per dare una occhiata intorno a lei e contare le stanze di cui l’infermeria era provvista.
Ce ne erano sette uguali alla sua, sulla parte destra del lungo corridoio in cui stavano camminando, mentre, sul lato destro il muro bianco continuava senza interruzioni.
Le prime tre erano chiuse ma, nelle altre quattro, Rebecca scorse delle sagome stese su dei lettini e si chiese chi, oltre a lei, fosse rimasto ferito nell’incidente.
I suoi pensieri corsero subito ad Anya. Lei si era allontanata con quel ragazzo biondo, prima dell’esplosione, e si era allontanata dalla carrozza. Rebecca sperò che si fosse allontanata anche dall’incidente. Poi si ricordò del ragazzo dal naso aquilino e i capelli neri con cui stava parlando e si augurò che anche lui stesse bene.
Avrebbe voluto chiedere a Pyke se li avesse visti ma, oltre al nome e al cognome di Anya e a delle descrizioni fisiche piuttosto approssimate degli altri ragazzi, sapeva di non avere abbastanza dettagli per informarsi con l’assistente dell’Infermeria.
Quando finalmente girarono a sinistra arrivarono in una stanza leggermente più grande con molti lettini, meno imponenti e meno larghi rispetto a quello in cui aveva riposato lei, con davvero poco spazio a separarli li uni dagli altri.
C’era una ragazza dai capelli rossicci che riposava a qualche metro di distanza. Era in una posizione piuttosto particolare e Rebecca non era sicura che stesse dormendo, ma i suoi occhi rimasero chiusi anche quando le passarono vicino.
«Qui ci vengono li studenti con ferite superficiali. Malina li riceve e li visita velocemente, quindi non c’è nemmeno bisogno di macchinari»disse Pyke, a suo beneficio «Nelle camere che abbiamo passato, invece, ci vanno quelli con ferite un po’ più gravi. Fortunatamente adesso la maggior parte delle vittime dell’incidente sono già state dimesse: tu sei una delle ultime»
Rebecca annuì e pensò alla sua commozione celebrale. Era una cosa grave? Era completamente guarita? Lei non sentiva dolore da nessuna parte ma non poteva esserne sicura. In ogni modo continuò a seguire Pyke e insieme oltrepassarono una grande scrivania di metallo scuro, dove lui lasciò l’O.L.O., e, dopo essere arrivati alla porta, fece scorrere un tesserino  al livello della serratura.
La porta si spalancò e Pyke aspettò che anche Rebecca fosse uscita, prima di parlare.
«Ti sei presa paura, prima, eh?»ridacchiò, non appena la porta si fu chiusa alle loro spalle. Prese a camminare ad una andatura più veloce, vagamente molleggiata, e affossò le grandi mani nelle tasche dei pantaloni neri «Eri tutta un: “Oddio, sto per morire! Non ricordo nemmeno come mi chiamo!”»
«Non ho avuto affatto paura»chiarì Rebecca, mentre continuava a guardarsi intorno «E Malina ha detto che sarò perfettamente in grado di ricordare tutto, grazie»
Pyke sghignazzò nuovamente e si volto appena verso di lei «Certo, certo. Vedi di non svenire in mezzo al corridoio, mentre ci provi»
Rebecca lo ignorò e i suoi occhi si fermarono sulla grande porta che riusciva a scorgere in fondo al corridoio. Questa, a differenza di quella dell’Infermeria, sembrava essere dotata di una semplice maniglia, e Rebecca si chiese cosa ci fosse dietro.
«Perché ho un tatuaggio?»chiese alla fine, quando stavano per raggiungerla.
«Ce l’abbiamo tutti»Pyke si strinse nelle spalle «Ti tatuano tre cifre il primo anno, quando inzii l’allenamento da Alpha. Mano a mano che passi di livello se ne aggiungono altre. Il mio istruttore ne ha dieci, di quei numeretti. Dicono agli altri quanto sei bravo»
«E se io non lo volessi?»
«Non puoi non volerlo, se sei un vero Guerriero. Siamo un popolo di narcisisti, ambiziosi e alla ricerca di gloria e fortuna»Pyke sfilò la mano sinistra dalla tasca dei pantaloni e se la portò al collo, spostando appena la maglietta. Rebecca ebbe una visione fugace della cicatrice che aveva notato qualche minuto prima, con la super vista da Rivitalizzatore, e che ora era quasi completamente invisibile ai suoi occhi, prima di concentrarsi sulla sequenza di numeri –sei- tatuati lungo l’osso della clavicola.
«Teoricamente, il primo anno, c’è una specie di rituale -io ricordo di averlo fatto, quando ero un Alpha- ma con questa storia dell’incidente in treno li Allenatori hanno deciso che non era proprio il caso di festeggiamenti e ve li hanno fatti direttamente, appena arrivati»
Rebecca si chiese quante cifre avrebbe collezionato sulla sua scapola e sperò vivamente che, una volta tornata a casa, sua madre non si sarebbe scandalizzata troppo.
In ogni modo, ora che Pyke aveva fatto riferimento ad una Cerimonia, a Rebecca erano tornati alla mente i racconti di suo nonno, anche lui un Guerriero. La Cerimonia di Iniziazione non era una vera e propria tradizione ufficiale.
Suo nonno le aveva raccontato di come, non appena il treno con a bordo i novellini del livello Alpha si fermava alla stazione di Metallica, tutti li studenti più grandi si riunissero a dare loro il benvenuto, vestiti con la Divisa Ufficiale. Poi i novellini venivano portati all’interno della struttura e, a turno, veniva dato loro un segno di riconoscimento che sarebbe, a Metallica, valso anche più del loro proprio nome.
Se tu scegli Metallica, le aveva detto suo nonno, poi deve essere Metallica a scegliere te.
Era il loro slogan, forse, o un qualcosa del genere.
Rebecca avrebbe voluto avere un Rivitalizzatore, in quel momento, per poter ricordare meglio.
Fuori dalla grande porta si apriva un immenso cortile. L’aria fresca di Ottobre le scompigliava appena i capelli, ma Rebecca era troppo presa a guardarsi intorno.
Non era una struttura molto allegra, in effetti. Enormi palazzine dai colori tetri si susseguivano una dopo l’altra. Quando Pyke le spiegò che erano li alloggi dei Guerrieri di Livello Gamma, Rebecca si chiese come facessero a riconoscere quale fosse la loro.
C’erano poche persone in giro, ma tutti portavano sulla giacca nera il simbolo dei Gamma o dei Beta. Pyke salutò alcuni di loro con un breve cenno del capo o qualche gesto affrettato.
Arrivarono in un grande spiazzo centrale, una sorta di incrocio che dava in tre differenti direzioni, oltre a quella da cui erano venuti.
«Di là c’è la palestra, che è aperta a tutti. Vicino alla palestra ci sono li alloggi degli Omega. Sono solo dieci, quindi hanno solo una palazzina. Quella grigia lì in fondo, vedi?» Pyke gliela indicò con il braccio e Rebecca, che apprezzava il suo sforzo di essere gentile, evitò di fargli notare che tutte le palazzine erano grigie.
Pyke, quasi le avesse letto nel pensiero, o forse avendo letto la sua espressione vagamente confusa, sbuffò appena. Fece un mezzo giro su sé stesso e le indicò la seconda stradina «Mentre di qui ci sono i miei alloggi, quelli dei Beta. Sono quei tre palazzi lì. Più in fondo, scendendo per questa direzione, c’è l’Area Natura in cui facciamo le Esercitazioni o le Simulazioni all’aperto. Come Beta più grande e responsabile dovrei avvisarti della pericolosità di quel posto, ma immagino che sia inutile. O sei una fifona e non ti ci avvicinerai nemmeno per scherzo, o sei una con le palle, e ci andrai comunque. Tu fai conto che io te l’abbia detto»
A Rebecca vennero in mente le parole di sua madre, poco prima di salutarla: “Sii forte pensa a te, sii forte pensa agli altri”. Sua madre aveva sempre avuto un debole, per queste frasi ad effetto che sembravano dire tutto e alla fine non dicevano nulla.
Cosa sono io? Sono abbastanza forte?
«Sono forte»gli disse, non sapendo nemmeno lei per quale assurdo motivo. Pyke la guardò con una strana espressione, curiosa e un po’ sorpresa, in viso. Poi si strinse appena nelle spalle e sorrise.
«L’avrei immaginato, sai?»
Rimasero in silenzio e Pyke, senza spiegarle cosa ci fosse nella terza strada, la condusse attraverso essa. Superarono quattro palazzine grigie in riverenziale silenzio e, solo quando arrivarono alla più lontana dall’incrocio, Pyke si fermò.
«Questi sono li alloggi degli Alpha. Dovrebbe esserci un tesserino nella tasca della tua giacca, puoi accedere con quella; ti consiglio di non perderla se non vuoi dormire nell’Area Natura fino a quando non  te ne procureranno una nuova. Fidati, per esperienza personale posso confermarti che non è affatto piacevole»
Rebecca stava già armeggiando con la chiusura della sua giacca e, nel prendere il tesserino dalla tasca interna, i suoi occhi incontrarono il nuovo tatuaggio, simbolo della sua appartenenza a Metallica e suo nuovo “nome”.
Rebecca, per un  singolo attimo, ebbe paura di dimenticarsi di quello vecchio, di nome.
«Se vuoi andare a cenare, direi che è anche ora, la mensa è proprio lì» Pyke fece un cenno con il capo ad una struttura bassa e lunga che capeggiava alla fine della stradina, formando un vicolo cieco «Probabilmente tutti i tuoi compagni saranno già lì»
Rebecca trascinò il tesserino davanti alla serratura della porta e, dopo aver digitato sull’ologramma apparso in rilievo il codice che Pyke le dettava mano a mano, questa si aprì di scatto, permettendole di dare una prima occhiata all’interno.
«Il nostro giro turistico si conclude qui, signori e signore. Sono gradite mance e pagamenti in contanti per i servigi propostavi dalla vostra guida di fiducia»Pyke ridacchiò appena, allargando le braccia e indietreggiando lungo la stradina «E mi raccomando, egoista e coraggiosa ragazzina, se hai bisogno di qualcosa non cercare proprio me!»
Rebecca ghignò appena e lo guardò correre via, risalendo la strada e prendendo la via che, se la memoria non la ingannava, portava agli alloggi dei Beta.
Aveva fame ma, prima di tutto, aveva bisogno di lavarsi un po’ e di togliersi di dosso quella sensazione di pesantezza che le aveva intorpidito tutti i sensi.
Prese un Tubo e si fermò ad ognuno dei cinque piani della palazzina, alla ricerca del suo Dormitorio. C’era un Ologramma, all’ingresso, che faceva da piantina e indicava li alloggi agli studenti. Il numero 306, quello che aveva tatuato sulla clavicola, era stato sistemato nel Dormitorio 9 e quest’ultimo risultò essere posizionato al quinto piano.
Fece scorrere la sua tessera per aprire anche quella porta e entrò per la prima volta in quella che sarebbe stata la sua Casa per un bel po’. La sua stanza era contrassegnata con il suo numero–nome, è un po’ anche il tuo nome quel numero, adesso- e quando l’aprì la trovò semplice e ordinata. I pochi vestiti che si era portata da casa erano sistemati nel piccolo armadio e, nei cassetti, erano ripiegate sei Divise da Allenamento, uguali a quella che indossava in quel momento.
Si sedette sul letto, con l’intenzione di riprendere un po’ di fiato prima di andare in bagno e poi a cenare, ma non appena il suo capo si poggiò sul materasso morbido, li occhi le si chiusero praticamente da soli.
Rebecca si era svegliata solo da qualche ora, a quanto le aveva spiegato Malina era rimasta in stato di incoscienza dall’incidente, eppure si sentiva così dannatamente stanca.
-No-si disse –Devo alzarmi, lavarmi, fare un sacco di cose e poi devo… devo…-
306 sprofondò in un sonno agitato dal quale non si svegliò che la mattina successiva.
 

***

 
3 Ottobre 2198, Cupola Ovest
Peete; SottoCupola Mormont, (Messico)
Organon Street, Zona Residenziale, Ore 11:54
 
Colin non era tanto male.
Melanie ci aveva passato un bel po’ di tempo insieme, sotto imposizione del padre e richieste supplichevoli di sua madre e, per quanto fosse più che sicura di non provare nulla per lui –e di non poterlo provare nemmeno in futuro- aveva come la sensazione che, se davvero si sarebbero dovuti sposare, le sarebbe potuto capitare di molto peggio.
Innanzitutto era sempre molto gentile ed educato. Certe volte usava del sarcasmo o faceva battute da Governante, di quelle che, anche se le capivi, non potevi ridere. Suo padre le aveva sempre detto che, con i Governanti, meno si parlava e ci si mostrava allegri, meglio era.
Il che, detto da lui che apparteneva proprio a quella Classe Sociale, risultava essere piuttosto veritiero. Era un segno di estrema maleducazione, ridere di –o con- un Governante e Melanie questo lo sapeva da tanto tempo.
In ogni modo, Colin una volta glielo aveva chiesto.
«Perché non ridi mai, alle mie battute?»aveva sorriso appena con quella strana espressione che Melanie aveva iniziato a riconoscere «Potresti almeno fare finta di trovarle divertenti, sai? Io ci metto un certo impegno!»
Melanie aveva abbassato il capo e si era mordicchiata il labbro, trattenendo un sorrisino, il massimo che si permetteva quando era con lui «Oh, mi dispiace. Non credo di essere in grado di capirle, le tue battute»
«Io credo che tu le capisca, invece. Semplicemente non hai voglia di ridere»era rimasto a guardarla per un po’, poi aveva sbattuto le palpebre velocemente, come se avesse appena compreso un qualcosa di estremamente complicato -Lo sai che puoi ridere, vero? Non ti mangio mica, se lo fai!»
Colin era gentile, si. E poi aveva uno dei Vecchi Nomi –l’unica cosa che era rimasto intatto del Mondo Di Prima- proprio come lei e una volta avevano fatto una interessante discussione. O, perlomeno, lui aveva parlato un bel po’ -aveva un bel tono di voce, Colin- e aveva cercato di includerla nel discorso.
Ma Melanie continuava a sentire la voce di suo padre nella testa -stai zitta, rimani al tuo posto, non sembrare più intelligente di quanto dovresti, profilo basso, devi sposarlo, non importa, zitta, zitta, non ridere, non chiedere, zitta, non importa- e quindi si era limitata ad annuire.
Alla fine, dopo tre quarti d’ora di monologo, nel mentre del quale la loro passeggiata si era conclusa e lei era arrivata sul portico di casa, lui le aveva afferrato la mano e se l’era portata alle labbra. Non aveva toccato la sua pelle, come prevedeva la regola, ma l’aveva fissata dal basso e a Melanie era venuto da ridere–non ridere, non ridere, non ridere, con i Governanti non devi ridere, loro sono sempre così seri e penserebbero che sei stupida e allora Colin non ti sposerebbe più! E se non ti spossasse, papà organizzerebbe nuovi appuntamenti e allora…-. Lui aveva sorriso e aveva detto «Un giorno riuscirò a farti ridere, Melanie Wood»
Le loro erano passeggiate tranquille: camminavano a piedi, percorrevano qualche chilometro con la Machines rossa di lui, si fermavano a chiacchierare con i colleghi di lui e qualche volta con le amiche di lei. Andavano d’accordo e, per due che si conoscevano da appena una settimana e si sarebbero dovuti sposare era già tanto. Non era spiacevole passare del tempo insieme ma delle volte Melanie si sentiva quasi soffocare.
Era come star vivendo la vita di qualcun altro, come un sogno particolarmente strano in cui la sua anima si era separata dal corpo e lo vedeva compiere azioni come un automa.
Kitty, la migliore amica di sua sorella, aveva ipotizzato un disturbo della personalità e Sophie aveva ridacchiato –ridacchiava sempre e troppo, quando era con Kitty e Melanie pensava che lei non poteva farlo, e non avrebbe potuto farlo mai più, perché Colin diceva di volerla far ridere, ma era un Governante e i Governanti erano sempre così seri-.
Una sera, mentre camminavano, lui aveva provato a indicarle una stella nel cielo, in uno dei suoi attacchi di erudito sapere ed era miseramente inciampato. Melanie non ce l’aveva fatta, a non sorridere e, anzi, gli era proprio scoppiata a ridere in faccia, incurante delle convenienze.
Colin aveva sorriso e le aveva porto il braccio.
Melanie, intimidita e spaventata dalle conseguenze del momento di ilarità a cui si era abbandonata, era stata parecchio titubante all’inizio. Poi però l’aveva preso sottobraccio e lui le aveva detto che, finalmente, iniziava a somigliare ad una persona vera e non ad un automa.
Melanie aveva riso di nuovo, aveva riso tutta la sera, per ogni minima stupidaggine e Colin faceva battute idiote per farla continuare. Quando era tornata a casa e si era chiusa la porta della sua camera alle spalle, quella notte, si era sentita il cuore più leggero.
Colin non le piaceva, in quel senso. Ma, se proprio era costretta, non le sarebbe dispiaciuto più di tanto rimanere con lui.
-Non dovrò smettere di ridere-aveva pensato –Anche se è un Governante. Non si è offeso, quando ho riso di lui. Ho riso tutto il tempo, non dovrò rinunciare a ridere mai più. Papà si sbagliava-
Si era gettata sul letto sfatto e aveva riso un altro po’, da sola e al buio.
Il pomeriggio dopo, però, Colin non si presentò al loro solito appuntamento delle cinque.
E nemmeno il giorno dopo e quello dopo ancora.
Suo padre non le rivolgeva nemmeno la parola, se non per urlarle addosso, e Melanie smise di ridere per ben due settimane.
Non riderò mai più. Mai, mai, mai più.
Poi, una settimana dopo, Colin si era ripresentato alla sua porta, come se non fossero passati giorni intere dalla sua ultima visita e l’aveva presa sottobraccio senza dirle niente.
Melanie aveva percepito il suo corpo muoversi più rigidamente e l’espressione indurirsi ogni secondo che passava. Ad un certo punto, quando erano ormai lontani da casa sua, si fermarono di colpo e lei quasi fu sbalzata in avanti.
Colin sciolse con delicatezza la presa sul suo braccio e le si portò difronte. Non sembrava arrabbiato ma non sorrideva nemmeno.
«Dobbiamo parlare, Melanie»
   
 
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