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Autore: Flaqui    20/05/2013    7 recensioni
Il mondo è diverso da come lo ricordate.
La società è moderna, avanzata, dotata di ogni genere di tecnologia e ha affrontato il problema Bomba Nucleare con la costruzione di alcune zone sicure in cui è ancora possibile vivere. In un ambiente post-apocalittico, li unici insediamenti umani ancora esistenti sono le quattro grandi Cupole, rette da un Governo irreprensibile e organizzate in delle rigide classi sociali dalle quali non si può scappare.
I Governanti, una classe sociale unicamente maschile, si occupa di offrire al Paese un sistema politico degno di questo nome. I Guerrieri, allenati nella grande scuola di Metallica, difendono il Paese da minacce esterne e interne. I Produttori svolgono li altri mestieri, occupandosi delle necessità loro e delle altre classi. Ma c'è gente che non ci sta.
"Il mondo di Melanie finisce lì, si esaurisce alle pareti di materiale invisibile della Cupola, dove l’aria è respirabile e dove, grazie all'aiuto delle macchine, qualcosa cresce ancora. Fuori dalla Cupola Melanie non sa cosa sia esistito, un tempo.
Ma sa cosa c’è adesso. La morte."
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Angolo Autrice.

Oh, non posso crede di averlo fatto (di nuovo).
Insomma, quando ho pubblicato il Prologo non mi aspettavo certamente tutto questo successo!
Sette recensioni già al primo capitolo mi hanno fatto toccare il cielo con un dito!
Io non posso fare altro che ringraziarvi enormemente e... beh, insomma, smetterla di blaterare e lasciarvi al capitolo.
Due avvertimenti, uno abbastanza importante e uno un po' di meno.
1) Il primo è che, la storia è in "media res" una tattica stilistica che io sinceramente adoro e che permette al lettore di venire catapultato nel bel mezzo della storia nel prologo.
Insomma, per farla breve: li eventi narrati nel prologo sono ambientati in un determinato periodo della storia. Il primo capitolo parte da circa sette mesi prima, e, piano piano, con l'evolversi della storia, giunge alla Ribellione di Asa 13 in cui abbiamo conosciuto i nostri personaggi.
Quindi, diciamo che questo primo capitolo, così come l'intera storia, ha inizio ben sette mesi prima degli eventi del prologo.
2) Mi sono accorta di aver commesso un piccolo errore nel prologo: ho detto che Melanie era con i Ribelli da circa un anno e mezzo mentre, a conti fatti, è con loro da circa quattro mesi. Non sparatemi, vado a correggere prima di fare altri danni!
Dunque, spero davvero che il capitolo vi piaccia, perchè, essendo il primo serve più che altro come introduzione e, sopratutto la parte iniziale, non è movimentata come il prologo.
Ma il finale è abbastanza a sorpresa, quindi spero che possa comunque piacervi!
Fatemi sapere che ne pensate, voi lettori fantasmi e voi spelndide persone che mi avete già commentato!
Un bacione a tutti, 
Fra

 A Bess,  a  March (autrice del MERAVIGLIOSO banner che ho postato qui sotto), a  Nipotina, a Rosie, a Marti, ad Aniva e a Zia Palla, grazie per il supporto.
E a Fede, sappi che ti voglio taaanto bene.


Parte Prima - Risveglio

Capitolo 1
Esplosione 

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30 Settembre 2198, Cupola Ovest
Peete; SottoCupola Mormont, (Messico)
Recinzione Ovest, Livello Cittadella, Ore 17.46
 
Un pallido anello di sole bruciava fra le nuvole come l’estremità di una sigaretta accesa. Melanie non ne aveva mai fumata una –suo padre glielo aveva severamente proibito- ma Ray se ne stava facendo una in quel momento, e lei si limitò ad inspirare con forza l’odore rilassante della nicotina.
Era appollaiata sulla Recinzione metallica con le gambe penzoloni e il vestitino leggero che si agitava appena per il vento. Era un Vestitino da Produttori, molto semplice e poco decorato, che la mamma di Melanie le aveva regalato qualche settimana prima, in onore del suo diciottesimo compleanno.
A Melanie era apparso sin dall’inizio fin troppo spento –il grigio le moriva addosso e le conferiva una aria spettrale che non le si addiceva- ma l’aveva messo lo stesso, perché aveva diciotto anni ormai: era tempo di crescere e i pantaloni lei non li poteva mettere.
Sophia aveva provato a chiederlo, una volta, perché le donne non potevano indossare i pantaloni come li uomini, ma suo padre aveva liquidato in fretta la domanda con un “E’ la regola: li uomini portano i pantaloni, le donne le gonne. Non c’è bisogno di perdere tempo su queste sciocchezze”. Melanie non la riteneva una sciocchezza –i pantaloni erano così comodi e carini!- ma era stata in silenzio anche lei.
«Vaffanculo, io non ci torno lì dentro!»borbottò ad un certo punto la voce bassa e roca del suo amico, dopo una aspirata particolarmente lunga e profonda.
Ray era un alternativo.
Indossava sempre magliette troppo larghe che, sul suo fisico magro e secco, sembravano ancora più enormi; ascoltava dal suo Kool Portatile musica dal ritmo cantilenante e ossessivo, una nenia senza fine che Melanie non riusciva a sopportare per più di qualche minuto; fumava sigarette che si faceva da solo, con uno strano tabacco delle Cupole del Sud che comprava sottobanco in uno squallido locale fuori Peete; faceva discorsi filosofici, disprezzava le feste che a Melanie tanto piacevano –quelle in cui dovevi semplicemente ballare, lasciarti andare e spegnere il cervello per un po’- e assolutamente, non smetteva mai, nemmeno per un secondo, di pensare.
Melanie non capiva nemmeno la metà dei discorsi che faceva, di solito, ma Ray aveva una bella voce ed era piacevole starlo a sentire, se ti abituavi a concentrarti solo sulla voce e lasciare perdere le sue rivoluzionarie teorie.
A lei non piacevano i suoi discorsi, in effetti. La spaventavano.
Ray parlava sempre del Mondo Di Prima e suo padre le aveva anche proibito anche solo di pensarci a quelle cose. Melanie si ricordava ancora quando, ai tempi in cui i suoi anni potevano essere contati sulle dita delle mani, sua madre la sera si stendeva sul letto accanto a lei e, per farla addormentare, le raccontava storie di un mondo fantastico: favoloso e eccitante da una parte, disgustoso e terribile dall’altro.
Le storie di sua madre erano quanto di più incredibile avesse mai sentito e raccontavano di un mondo in cui non le sarebbe dispiaciuto vivere. Donne al governo, in carriera, che indossavano i pantaloni per vanità e per moda –non solo per questioni pratiche, come i Guerrieri-. Persone dello stesso sesso che si amavano senza remore. Frutta dal sapore gustoso, cereali e tuberi che nascevano direttamente dalla terra, senza aiuto di alcuna macchina o stabilimento. Libri, strani oggetti fatti di carta e inchiostro -che la gente del Mondo Di Prima usava per leggere al posto dei loro comodi O.L.O.- che le persone potevano toccare realmente, portare in giro, infilare in una borsa, sfogliare con le proprie mani e che non si limitavano alle mere lezioni scolastiche o alle Relazioni, ma a storie inventate, create con l’unico scopo di divertire la gente. Un qualcosa chiamato “arte”, un qualcosa che aveva fatto sospirare sua madre e che a Melanie aveva fatto drizzare i peli delle braccia, perché non poteva davvero essere esistito.
E poi tante altre meraviglie su cui Melanie aveva fantasticato ad occhi aperti per intere notti.
Melanie aveva creduto che, tutte quelle cose, sua madre se le inventasse sul momento: erano davvero troppo assurde e inconcepibili, così distanti dalla realtà di tutti i giorni che le lasciavano sempre una strana sensazione alla bocca dello stomaco, come se qualcuno avesse deciso di stritolarlo in un pugno e non lasciarlo più andare.
Poi, una sera, quando le dita delle mani non bastavano più per i suoi anni, aveva sentito i suoi genitori litigare animatamente. Suo padre aveva urlato a sua madre che, continuando così, l’avrebbe resa irrecuperabile: una ragazzina persa in fantasie più grandi di lei. Sophie, di due anni più piccola di lei, si era rannicchiata nel letto accanto al suo e Melanie aveva cercato di ignorare le lacrime che premevano per fuoriuscire.
La sera dopo, fu suo padre a raccontarle una storia. Si era seduto accanto al suo letto –non sdraiato, se ne era rimasto rigido sulla sedia in ferro, con la schiena dritta e le mani chiuse a pugno- e le aveva detto “Vuoi sapere cosa succedeva davvero, nel Mondo Di Prima?”.
E allora le aveva raccontato quello che era davvero successo nel Mondo Di Prima. Le aveva raccontato della confusione, del caos, delle guerre, degli assassini. Delle morti continue, delle sofferenze, della povertà che dilagava, dell’insensibilità dei più ricchi nei confronti dei bisognosi. Del Governo frammentario e corrotto che regolava i numerosi stati del Mondo Di Prima, delle bugie e dei sotterfugi. Della assenza delle Classi Sociali a dare un destino e a regolare la vita –e qui Melanie si era sentita davvero spaventata, un po’ per il tono di voce che suo padre aveva usato, un po’ perché le Classi erano la vita di tutti loro- e delle menzogne, delle cattiverie e dell’ignavia degli abitanti del Mondo Di Prima.
Melanie ne aveva avuto paura, all’improvviso, di quel mondo tanto diverso dal loro ed era stata grata quando suo padre aveva concluso il discorso narrando della venuta di Esatther -“Flagello di Dio”, “La Grande Bomba”, “Creatrice delle Cupole”- la bomba responsabile della fine del Mondo Di Sopra: aveva permesso all’ordine di tornare sulla Terra, aveva ristabilito l’equilibrio e di questo tutti dovevano esserne grati.
Non ne avevano più riparlato.
Delle volte, però, quando Ray iniziava con quei suoi discorsi che iniziavano sempre allo stesso modo ma non avevano mai la stessa conclusione –non ne avevano proprio una conclusione-, Melanie ripensava all’arte, ai libri e alle persone libere che erano vissute su quella stessa Terra prima di lei e si sentiva rabbrividire. Erano forse le uniche parti fra i discorsi di Ray a cui prestava –involontariamente, davvero- attenzione e che la facevano riflettere.
«Mi stai ascoltando?»Ray aveva le braccia incrociate e la sigaretta di traverso nella bocca. Si era tagliato da solo i capelli, ora troppo corti e troppo simili al pelo ispido di qualche animale, e indossava la maglietta nera dei Guerrieri in Allenamento. Stava appoggiato anche lui alla Recinzione che segnava il confine di Peete con la Cittadella e  aveva il suo solito sguardo obliquo. Non sapevi mai, con Ray, se ti stesse guardando o meno.
La Cittadella, dall’altra parte del filo elettrico, era tranquilla come sempre tanto che, se Melanie non avesse saputo cosa succedeva lì dentro, l’avrebbe creduta un quartiere residenziale praticamente abbandonato.
«Ti ho sentito»Melanie fissò la punta della sigaretta bruciare e la cenere cadere piano, dispargendosi nell’aria leggera e finendo sul terreno bruciato e incolto.
Erano passati centoventicinque anni, dopo Esatther, ma il mondo non sembrava volersi riprendere. La zona dove si trovava Peete, prima, si chiamava Città del Messico e un tempo era fertile e bellissima. Glielo aveva detto sua madre, che conservava persino un vecchio pezzo di carta risalente ai Vecchi Tempi, giù in cantina. Era una cartina geografica che teneva nascosta a suo padre e, una volta, a dodici anni, Melanie era andata di nascosto ad osservarla. Il Mondo Di Prima le era apparso immensamente grande, al confronto con il loro.
«Lo dici ogni anno, non importa poi tanto cosa vuoi tu»
Ray il giorno dopo sarebbe ripartito per Metallica. Era il suo secondo anno da Gamma e Melanie aveva paura di trovarlo cambiato, al rientro. Aveva sempre paura che qualcosa cambiasse, in effetti e Ray era un qualcosa di estremamente importante.
Aveva avuto una cotta per lui per circa un anno e mezzo, quando lei aveva sedici anni e lui diciannove. Si conoscevano da tanto e lui era uno dei pochi che le dava retta. Non era bellissimo, con quel suo fisico troppo magro, i capelli o troppo corti o troppo lunghi, il naso aquilino e le labbra troppo sottili; ma le piaceva il modo in cui la trattava: come se non fosse solo una ragazzina troppo stupida, piccola e superficiale per intraprendere un qualunque tipo di conversazione.
Una volta, prima che partisse di nuovo, glielo aveva detto: “Ehi, Ray. Mi piaci, lo sai?”.
Lui si era stretto nelle spalle e l’aveva fissata negli occhi.
«Sono cose che capitano»aveva detto e Melanie non aveva nemmeno avuto il tempo di restarci male prima che aggiungesse «Io non sono giusto per te, e tu non sei giusta per me. Mi sa che sai anche questo»
Melanie lo sapeva, ma aveva voluto provarci, perché sua madre le diceva sempre che, quando tieni a qualcosa, per quanto assurda e impossibile possa essere, devi almeno fare un tentativo.
La loro amicizia era continuata, senza imbarazzi inutili e parole non dette e Melanie, adesso che erano passati tanti anni, era giunta alla sua stessa conclusione.
Erano davvero troppo diversi per poter funzionare insieme. Opposti che non  si attraggano, esseri umani e non calamite. Perciò si era messa l’anima in pace e aveva tranquillizzato suo padre sul fatto che, “no, non sarebbe scappata con quel Guerriero indisponente e irritante”.
«Dico sul serio»ripeté Ray «Questo anno non parto. Non mi importa di quello che dicono li altri o di quello che potrebbe succedere»
Melanie sapeva che, volendo, sarebbe stato in grado di farlo.
Di rifiutarsi di salire su quel treno nero e di passare un altro anno ad allenarsi in cose a cui non era minimamente interessato. Una volta Ray le aveva detto che, se fossero vissuti nel Mondo Di Prima, sarebbe diventato un artista. Melanie gli aveva chiesto che genere di artista e si era domandata che cosa significasse per lui quella parola.
Lui si era stretto nelle spalle e aveva detto «Uno libero»
Non le aveva chiesto che genere di artista sarebbe stata lei, nel Mondo Di Prima, e Melanie ne era stata segretamente grata. Non sapeva che risposta avrebbe potuto dargli.
 
Ray la salutò con un cenno del capo e una pacca sulla spalla.
Melanie fissò il suo profilo secco allontanarsi piano, concentrandosi sulla sua camminata ondeggiante e sperando di rivederlo di nuovo.
Sapeva che era stupido fare di questi pensieri: per quanto orribile e dura potesse essere, Metallica era pur sempre una scuola e non un centro di tortura; ma non riusciva proprio a ricacciare indietro quella brutta sensazione che la invadeva ad ogni partenza di Ray.
Ogni anno, poi, era sempre peggio.
Di quanto era cambiato, Ray, dal primo anno? Quanti sorrisi in meno, quante occhiaie in più sul suo volto, quanti discorsi sempre più freddi, carichi di rabbia e risentimento, quanti vagheggiamenti sussurrati a fil di voce quando nessun’altro a parte lei poteva sentirli?
«Dove sei stata?» la voce di suo padre la fece trasalire mentre, dopo aver lasciato il soprabito grigio all’ingresso, faceva per andarsene in camera «Sono le sette e mezza, manchi da più di tre ore»
Melanie scorse con la coda dell’occhio la figura di sua madre, appoggiata allo stipite della porta, con una espressione stranamente preoccupata in viso.
«Sono andata a salutare Ray. Domani parte per Metallica»
«Quindi se ne va?» suo padre reggeva in mano il Kool argentato e, dopo averle fatto un cenno della mano per trattenerla, finì di comporre con le dita un messaggio. Poi rialzò il capo e la fissò appena «Meglio per noi. Ringrazio il Cielo che quello scapestrato abbia scelto una Classe così astrusa e lontana da casa: almeno non dobbiamo sorbircelo ogni giorno»
A Melanie non piaceva come suo padre apostrofava Ray ma aveva un reverenziale timore a contraddirlo, così si limitò a starsene zitta e a raggiungere camera sua.
Di Sophie non c’era traccia e suppose che fosse a casa di Katerina, la sua migliore amica dai capelli biondi e l’insana passione per la tecnologia primitiva. Sophie le aveva raccontato che i genitori di Kitty erano molto diversi dai loro: le avevano persino fatto provare dei pantaloni, una volta, e la ragazza li teneva conservati come una reliquia nell’armadio.
Mentre attraversava il corridoio che portava alla sua camera sentì dietro di lei l’eco dei passi del padre e, per un attimo, ne fu vagamente sorpresa. Se non per rimproverarle o per ricordare loro le regole del ben comportarsi, suo padre non dava mai molta retta a lei e a Sophie, e quando capitava loro di intrattenere una conversazione,  non erano mai lunghe.
Quando entrò in camera sua, in un primo momento, non lo notò. Poi, quando fece per sdraiarsi sul comodo letto, si accorse del vestito bianco da Governante che era stato accuratamente disteso sulle coperte azzurre.
Il fatto che fosse un vestito da Governante, invece che un comunissimo vestitino da Produttore, saltava all’occhio da ogni dettaglio, anche da quelli meno evidenti.
Le donne, nella Cupola Ovest, disponevano di una gamma di vestiario piuttosto ridotta. Ogni Classe Sociale, di per sé, aveva una uniforme o un qualcosa di distintivo: abiti comuni e poco appariscenti per i Produttori; abiti comodi per i Guerrieri, che garantissero loro una ampia varietà di movimenti e abiti di un certo livello per i Governanti, che puntavano molto sulle apparenze, per svolgere il loro compito.
Ma per il sesso femminile, la scelta si riduceva a semplici vestitini da Produttori –dalla fattura semplice e adatti per il lavoro- alle molto meno diffuse divise per i Guerrieri –che, essendo uguali sia per li uomini che per le donne, prevedevano dei pantaloni-. Ma, le donne che sceglievano di frequentare Metallica erano ben poche, perciò l’opportunità di incontrarne qualcuna per strada era molto ridotta, soprattutto visto che, quando non erano in allenamento o in missione, erano tenute a rimettere i loro vestiti.
Ma quello era un abito da Governante, quello che le ragazze indossavano quando convolavano a nozze con un appartenente a quella Classe Sociale o frequentavano una festa di gran classe, e lei non ne aveva mai provato uno.
«Non rimanere lì impalata: mettilo»la voce di suo padre, dura e decisa, le arrivò da dietro le spalle e la fece sussultare appena. Improvvisamente si chiese se dietro quella scollatura e quelle piccole perle bianche che  intarsiavano i bordi della gonna non ci fosse un altro significato.
«Perché?» Melanie lasciò cadere la mano che stava accarezzando il vestito sul fianco e lo guardò con una punta di sospetto e una brutta sensazione «Hai sempre detto che non avremmo speso soldi per sciocchezze come un vestito»
«Trovarti un buon marito non mi sembra una sciocchezza»
 
L’appuntamento che suo padre aveva organizzato, a sua insaputa, con un Governante, le era stato fatto presente e rivelato solo poche ore prima che il giovane suonasse alla sua porta. Melanie aveva urlato, protestato, dimostrato la propria indignazione. Suo padre le aveva detto di finirla un po’, che gli faceva venire il malditesta, e sua madre aveva cercato di calmarla pettinandole con cura i lunghi capelli biondi.
Melanie non aveva pianto, perché era orgogliosa e aveva accettato il braccio dello sconosciuto alla sua porta –più grande di lei! Di almeno una decina di anni!- senza nemmeno soffermarsi troppo sulla sua figura. Aveva invece lanciato una occhiata di rammarico e indignazione a suo padre ed era avanzata lungo il giardino curato della loro villetta a schiera –uguale a tutte le altre villette di Peete, con giardino e piscina sul retro, posto per almeno quattro Machines e una buona dose di finto perbenismo che trasudava dalle vetrate lucide-.
Mentre si allontanavano lungo il viale alberato Melanie aveva scorto sua madre osservarli dalla finestra, una espressione preoccupata e soddisfatta allo stesso tempo in viso.
Colin, il Governante con cui stava per trascorrere la serata, sembrava in grado di mandare avanti la conversazione praticamente da solo, perciò Melanie aveva semplicemente abbandonato il capo contro il poggiatesta della Machine, lasciandosi cullare dal rumore continuo del motore e dal vento leggero che le scompigliava i capelli, attraverso il finestrino lasciato socchiuso.
Quando Colin le chiese se le dava fastidio –le scompigliava i capelli? Si sarebbe potuta raffreddare, con tutti quegli sbalzi di temperatura!- non gli rispose nemmeno, chiudendo gli occhi e concentrandosi sul basso ronzio della trasmissione radio.
Avevano cenato in un ristorante carino, appena fuori Peete, e avevano conversato –o meglio, Colin aveva conversato, e lei si era limitata a osservare cautamente in giro- dei grandi temi, importanti e adatti ad un primo appuntamento.
«Quindi ho ottenuto la Licenza come Avvocato dei Governanti due mesi fa, all’incirca. La cosa difficile è stata prendere le distanze da tutto quello a cui ero…»
Colin parlava, parlava, parlava. Melanie si sentiva abbastanza in colpa perché lui ci stava provando, ad essere gentile, a mostrare interesse, a cavarle qualche risposta dalla bocca. Ma Melanie riusciva solo a pensare che era così… adulto, vecchio. Troppo grande, per lei.
Troppo serio, buono, benintenzionato. Gli anni che si passavano non erano poi tantissimi, ma la facevano sentire inadeguata.
Ricordò le parole che suo padre le aveva rivolto prima di salutarla, quella sera. Aveva parlato di sistemarsi, di pensare al futuro. Melanie aveva diciotto anni, non voleva pensare al futuro, non voleva sistemarsi, non voleva morire e spegnersi in un casa dalle pareti gialle e dalle vetrate luminose come sua madre.
Colin si era rassegnato al dolce, limitandosi a pagare il conto e ad offrirle educatamente il braccio per scortarla fuori dal locale. Melanie non se la sentì di rifiutare anche quella attenzione così semplice e innocente, perciò lo prese sottobraccio e lo segui camminando stancamente sui suoi tacchi alti fino alla macchina.
Questa volta rimasero entrambi in silenzio e Melanie si concentrò sul lampeggiare convulso e indistinto dei lampioni che scorrevano veloci, lo sguardo fisso sulle linee che costeggiavano il ciglio della strada. Fu quando arrivarono nei pressi del Gran Viale, a qualche isolato da casa di Melanie, che Colin fermò la macchina e parlò di nuovo.
«So che non è stata una serata particolarmente divertente»asserì, e quella non sembrava affatto una domanda, più una constatazione.
Melanie si sentì stranamente in colpa per il modo terribile in cui si era comportata con lui. D’accordo, non le piaceva, era molto più grande di lei e il tutto era stato organizzato a sua insaputa da suo padre, ma questo non toglieva che Colin si fosse dimostrato gentilissimo con lei. Era stato cortese, educato, aveva cercato di fare conversazione e di interessarsi a lei, ricevendo in cambio solo uno ostinato silenzio.
Improvvisamente si chiese come doveva apparirgli. Una bambina piccola, stupida e viziata, testarda come non pochi ed estremamente maleducata, al punto da rifiutarsi persino di ringraziarlo per la cena –che era stata abbastanza costosa, ora se ne rendeva conto-.
«So anche di non essere propriamente il tuo tipo, troppo grande e troppo barboso, forse. E mi dispiace di averti infastidito con questo invito» le mani grandi di Colin erano chiuse attorno al volante della Machine e Melanie si concentrò sulle invisibile piegoline sulle giuntura delle dita «Probabilmente, quando tuo padre ti ha proposto questa uscita ti aspettavi qualcuno di più… diverso, ecco»
Quando Melanie alzò gli occhi su di lui, scoprì che lui la stava già guardando. Non poté impedirsi di arrossire leggermente, mentre si agitava impercettibilmente sul sedile in pelle.
«Sono io a dovermi scusare per il mio comportamento»aggiunse poi, e il viso di Colin si tinse di una espressione così sorpresa che Melanie ne fu stupita lei stessa, la voce fioca udibile appena in quel silenzio denso «Mio padre non aveva fatto parola di questo appuntamento, almeno non fino a qualche ora fa. Immagino di essermela presa anche troppo»
Colin non disse nulla, Melanie lo vide fissare assorto fuori dal finestrino, e lei si sentì incoraggiata a continuare.
«Scusami, se mi sono mostrata scortese nei tuoi confronti. Non era mia intenzione. Ok, forse all’inizio un po’ si, ma era maggiormente per la situazione, non per te» Melanie lanciò anche lei uno sguardo fuori dal finestrino, ma, a parte qualche Generatore di Luce non trovò nulla degno di attenzione «Magari potremmo essere amici»
Colin staccò gli occhi dal marciapiede e li riportò su di lei «Io e te, essere amici?-
«Ti va?»chiese Melanie, con una strana sensazione, come un qualcosa bloccato in gola.
Colin rimase per un attimo in silenzio, soppesando la risposta, prima di dirle con una semplicità disarmante «No, in realtà non mi va affatto»
Melanie boccheggiò, in uno stato confusionario, gli occhi spalancati e le mani che si intrecciavano in un movimento continuo. Non osò alzare il capo, dicendosi che, in effetti se lo meritava. Colin era stato gentilissimo per tutta la durata del loro appuntamento, lei a mala pena ricordava il suo cognome. La vergogna e la sorpresa presero il sopravvento e, anche con le guance in fiamme, lanciò una occhiatina di sbieco al suo accompagnatore.
Lo trovò che stava ridendo, trattenendo a stento un sorriso «Stavo scherzando, andiamo! Non credevi che ne fossi in grado? Ho ventotto anni, non quaranta!»
«I Governanti di solito non scherzano- tentò di giustificarsi lei, ma stava ridacchiando.
«Sappi che questo tuo pregiudizio mi offende oltremodo, cara amica» Colin aveva sorriso, rassicurante «Mi dispiace, Melanie. Per la faccenda dell’appuntamento, del sistemarsi. Perciò ti propongo una cosa, d’accordo? Tuo padre mi ha chiesto di sposarti»
Melanie si sentì il cuore in gola e gli occhi lucidi, così, all’improvviso.
«Lo so che questa è una brutta storia ma… Insomma… Io.. Mi credi, se ti dico che non ti costringerò a fare nulla che non vuoi?»Colin prese un gran respiro, prima di continuare «Io vorrei avere al mio fianco una donna che, se proprio non riesce ad amarmi, perlomeno non mi disprezzasse»
Si girò a guardarla e per la prima volta in tutta la sera Melanie si accorse che aveva li occhi azzurri, come quelli di Ray.
«Quindi… possiamo mirare a questo, per il momento. A non disprezzarci»
 

***

 
31 Settembre 2198, Cupola Ovest
Asa 13; SottoCupola di Danderrion, (Messico)
Vecchia Stazione, Ore 15:27, Espresso per Metallica atteso al Binario 2.
 
Rebecca Anderson non aveva mai baciato un ragazzo.
Aveva sedici anni e se ne vergognava enormemente. Si riteneva una ragazza carina –sua madre glielo diceva sempre, che era un po’ vanitosetta- ma con i ragazzi non ci sapeva proprio fare. Magari riusciva a catturare il loro interesse, all’inizio, ma poi era come se, più le importasse di loro, più fosse incapace di concludere e sfociare in una vera relazione.
A dire il vero c’era stato quell’episodio con Jeremy Johnson, a tredici anni, ma quel casto sfioramento di labbra –durato appena qualche secondo e che venne ricordato da entrambi per i successivi tre anni come un mero incidente di percorso- le appariva un qualcosa di sfocato e privo di importanza, soprattutto se confrontato con i duraturi fidanzamenti e le appassionanti storielle che intrattenevano tutte le sue amiche.
Perciò, quando quella mattina dal cielo plumbeo e nel mezzo della confusione della Vecchia Stazione di Asa 13, Podrick Payne poggiò le labbra sulle sue, rimase impietrita al suo posto.
Fu un contatto viscido e non troppo approfondito che le lasciò una strana sensazione nella bocca e nelle gambe, che le diventarono molli e tremanti in un attimo. Non durò nemmeno molto -anzi a Rebecca non sembrarono essere passati nemmeno dieci secondi prima che lui si ritirasse- e quando finalmente riaprì li occhi il viso di Podrick era così rosso da fare concorrenza al colore del suo maglioncino nuovo.
I capelli neri gli scivolavano sulla fronte ma lui non se li spinse indietro nel solito gesto che sapeva di normalità, di giornate passate al mare e di quella spensierata amicizia che non sarebbe più potuta rimanere tale.
Podrick forse si aspettava che lei dicesse qualcosa ma, per la prima volta da che si conoscevano, Rebecca non trovò nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi. Lui, probabilmente, lo intese come un silenzioso rifiuto e le sue labbra piene –troppo piene e morbide per appartenere ad un ragazzo- si rovesciarono verso il basso, mentre si stringeva nelle spalle e cercava di darsi un tono.
Rebecca lo conosceva da quasi due anni, da quando lui si era trasferito con la sua famiglia di Governanti dalla Cupola Est, ma non si erano mai frequentati molto, se non nell’ultimo anno. Questo non toglieva che non si fosse mai sentito tanto a disagio e fuori posto con lui come in quel momento, nemmeno quando lei e Cathy –che invece lo conosceva da molto più tempo- erano entrate in camera sua senza bussare, una volta, e lo avevano trovato in procinto di farsi una doccia.
Rimasero in silenzio, Rebecca spostando il peso del corpo da un piede all’altro e lui a fissare l’insegna del Caffè dove si erano incontrati qualche minuto prima, fino a che il fischio acuto del treno non si disperse nell’aria colma di voci e odori della Stazione.
Il suono fece risvegliare Rebecca dalla trance temporanea in cui era caduta e cercò di trovare qualcosa da dire. Podrick era stato suo amico per un sacco di tempo e, nonostante il loro impacciato primo bacio e tutto ciò che ne era conseguito, meritava di essere salutato per bene.
«Io…» provò e con sorpresa scoprì che la sua voce traballava appena, rotta da un qualcosa che nemmeno lei sapeva cosa fosse «Io ti scriverò. Si, ti scriverò. E ci vedremo via kool, anche ogni settimana»
Era una bugia: Rebecca lo sapeva e sospettava che anche Podrick ne fosse a conoscenza. Podrick non le piaceva –non in quel senso, almeno- e anche se le fosse piaciuto non avrebbe mai passato tanto tempo via kool con lui, soprattutto con la certezza di non poterlo più rivedere. Però le dispiaceva lasciarlo, questo si. Era stato un buon amico. E le aveva dato il suo primo bacio: questo non se lo sarebbe scordato mai.
Lui sembrava sul punto di vomitare dal nervoso e Rebecca decise che sarebbe stato meglio lasciarlo andare, prima che rimettesse sulle scarpe nuove.
Si lanciò una occhiata veloce alle spalle, dove, a qualche metro di distanza, la attendevano i suoi genitori. Erano arrivati alla Stazione due ore buone prima della partenza: Rebecca aveva sentito che non sarebbe riuscita a rimanere a casa, perciò si era caricato sulla spalla lo zaino azzurro e aveva fatto trascinare a suo padre le due grandi valigie lungo il selciato: alla Machine e poi alla Vecchia Stazione di Asa 13.
Si erano fermati ad un bar e, mentre bevevano del caffè caldo dalle tazzine AutoRiempienti, Podrick era arrivato rosso in volto come non mai e le aveva chiesto di parlare, perché c’era una cosa che doveva dirle -assolutamente, per favore, ti prego.
Ora sua madre era uscita dal bar e la fissava preoccupata; suo padre, invece, si stava accertando che le sue valige fossero smistate con cura sull’Espresso per Metallica, ma, ogni tanto, le rivolgeva una occhiata veloce e ansiosa.
«Allora… beh, ci vediamo, Pod»gli mise una mano sulla spalla e, dal modo in cui il ragazzo sussultò sorpreso al suo tocco, comprese di non essere stata l’unica a risentire dell’inaspettata dichiarazione. Il suo colorito era verdognolo e li occhi bassi, ma Rebecca poteva ancora ricostruire nella sua mente l’immagine del ragazzino esuberante e pieno di allegria che era stato, sempre così gentile con lei e pronto a confortarla, dimostrandole il suo affetto.
Il ricordo di tutti i momenti passati insieme, i pochi in cui erano rimasti da soli e i molti in cui apparivano anche Cathy e i ragazzi della loro compagnia, le fecero venire un groppo alla gola e salire su una gran bella voglia di piangere.
«Si, ci vediamo»ripeté di nuovo, questa volta cercando di metterci maggiore convinzione.
Si sporse ad abbracciarlo velocemente e, per un attimo, mentre affondava il viso nel suo maglioncino rosso, avrebbe quasi voluto poterlo ricambiare: giusto per non farlo sentire ancora peggio riguardo alla sua partenza. Inspirò appena contro il colletto della camicia che portava sotto il maglione e un forte odore di bucato –di sole, pulito, estate, risate, essere amici e tenersi per mano, di quindici anni passati con i piedi immersi nell’acqua del mare a pochi passi da casa, della musica a tutto volume, del rock n’roll che ascoltava Cathy- le entrò nelle narici.
«Ci vediamo davvero, forse»lo ripeté una terza volta e contò mentalmente fino a cinque, prima di staccarsi da lui con un grosso respiro.
Podrick la stava ancora fissando, muto. Era come se, baciandola, avesse preso ogni facoltà di comunicazione. Rebecca lo guardò un’ultima volta prima di girarsi e andare incontro ai suoi genitori. Non si voltò indietro, mentre camminava lungo la banchina affollata, e di Podrick Payne rimase solo un sapore amarognolo e estraneo –non spiacevole, solo diverso- contro le sue labbra sottili.
 
Poco prima di partire una donna dai lineamenti asiatici e dai lunghi capelli corvini si era fatta largo fra la strepitante folla di sedicenni diretti per la prima volta a Metallica, e, dopo essere balzata su una delle vecchie panchine in legno –ignorando il piccolo palchetto di metallo che dei giovani in divisa le stavano sistemando a pochi metri di distanza- si era schiarita la voce.
«Sono Erica Summer»si era presentata con una voce sicura e squillante, premendo con le dita lunghe l’Amplificatore Vocale sulla sua gola «E sarò la vostra responsabile fino a quando non sarete tutti arrivati a Metallica»
Rebecca, che aveva appena salutato i suoi genitori e aveva una gran voglia di piangere, si limitò a guardare all’insù, ignorando il brusio che i ragazzi intorno a lei avevano iniziato di colpo a produrre. La donna non era eccessivamente alta o magra, ma i muscoli delle sue braccia apparivano evidenti sotto la canotta nera che indossava. Non aveva la Divisa Ufficiale, ma un pantalone di uno strano tessuto che Rebecca non seppe riconoscere, sempre nero.
«Ora, prima di salire su questo treno, fatevi dire una cosa. Metallica non è uno scherzo. Ci saranno delle volte in cui tutto vi apparirà così difficile, ingiusto, doloroso e vorreste potervi tirare indietro. Siete davvero pronti a lasciarvi tutto alle spalle e iniziare questa vita?»Erica passò in rassegna i volti dei ragazzi presenti con una espressione dura e piuttosto ostile –Rebecca sentì chiaramente una ragazzina squittire spaventata a qualche metro da lei-, e nessuno sembrò essere in grado di sostenere a lungo il suo sguardo. «Il mestiere del Guerriero, qualunque sia la tua specializzazione, non è facile. Non lo è mai, e se credete di non essere in grado di affrontarlo, allora questo è il momento di prendere le vostre valigie ed andarvene. Perché, una volta saliti su quel treno, non potrete più farlo»
Rebecca nemmeno ci pensò sopra e nessun altro fece cenno di volersene andare.
Erica li fissò appena, un sorrisetto sghembo in viso e le braccia incrociate all’altezza del petto.
«Vedremo quanto resisterete, allora»commentò.
Poi fece loro segno di salire sul treno e Rebecca venne trascinata fra una fiumana di gente, senza nemmeno riuscire a lanciare un’ultima occhiata ai suoi genitori.
Quello sguardo mancato le mise lo stomaco in subbuglio e, nemmeno quando si accomodò nello scompartimento con Anya, una ragazza che abitava a qualche isolato da casa sua e frequentava la sua stessa scuola, riuscì a mettere a tacere le urla e le proteste della sua mente.
 
Rebecca aveva pianto un po’, durante la traversata in treno, con il capo sulla spalla ossuta di Anya e le mani abbandonate in grembo, a stringere il maglione azzurro che sua madre le aveva dato alla stazione. Aveva anche cercato di dormire, ma il continuo sibilare del vento oltre i vetri semiaperti del finestrino e lo sferragliare delle rotaie non le avevano fatto chiudere occhio.
C’erano altri due ragazzi nello scompartimento oltre lei e Anya. Aveva passato con loro ben otto ore ma, non appena uscita dallo scompartimento, non ricordava più i loro volti.
Ora stavano camminando nel lungo corridoio del treno che dava su tutti li scompartimenti e, mano a mano che superavano i vagoni, sempre più ragazzi si univano alla loro processione silenziosa. Rebecca avrebbe voluto rimanere nel loro scompartimento ma Anya e quel ragazzo con i capelli biondi –Mick? Rick?-avevano insistito per andare a comprare qualcosa da mangiare alla carrozza 4 e non aveva voluto rimanere da sola. Quando avevano raggiunto la carrozza 3 si era avvicinato loro un ragazzo dai capelli scuri e un pronunciato naso aquilino che aveva fatto un discreto cenno con il capo nella loro direzione e si era accodato al lor gruppetto.
Più avanti Rebecca era riuscita a distinguere altri piccoli campanelli di ragazzi che camminavano nella loro stessa direzione. A Rebecca sembravano tutti uguali, chi camminava a testa alta e chi con gli occhi in basso, tutti senza volto e senza nome.
Si chiese se anche loro la vedessero e considerassero allo stesso modo.
Quando avevano raggiunto la loro meta finale, la carrozza per i pasti che era stata debitamente provvista di piccoli tavolini, Rebecca cercò di fare una stima di tutta la gente diretta a Metallica. Almeno una cinquantina gironzolavano nel Vagone 4, attardandosi vicino agli stand colmi di cibo, più quelli che non erano ancora arrivati e quelli che erano rimasti nei loro scompartimenti.
Ci rimasero poco: Anya aveva preso una Choclat calda e stringeva la tazza fumante fra le dita sottili mentre il ragazzo biondo –Nicko? Si, si chiama così, forse- aveva le tasche piene delle Caramelle al Gusto Pranzo. Rebecca quelle le odiava, la facevano sentire piena senza aver mai davvero mangiato qualcosa e le gonfiavano lo stomaco, ma l’apaticità in cui era caduta le impedì di confessarlo al compagno.
La strada del ritorno le sembrò più lunga. Anya e Nicko avevano preso a parlare e a ridacchiare appena, e il ragazzo dal naso aquilino aveva deciso di unirsi a loro nello scompartimento.
Quando si chiusero la porta del vagone alle spalle passarono appena dieci minuti prima che Anya mostrasse nuovamente segni di insofferenza. Rebecca non la conosceva molto bene, anche se avevano parlato molte volte, e la ricordava  come una ragazzina piena di vita, mai capace di starsene al suo posto per più di qualche secondo.
«Andiamo a farci un giro!»la voce lamentosa di Anya le arrivò all’orecchio «Sul serio, questo viaggio sembra non finire mai! Non ce la faccio a stare ancora seduta!-
Nicko si disse d’accordo con lei e, dopo aver gentilmente chiesto a Naso Aquilino e a Rebecca se avessero voluto unirsi a loro nella allegra scampagnata, se la filarono sbattendo appena la porta scorrevole.
Rebecca, rimasta sola con il ragazzo dai capelli neri, si limitò a fissare il paesaggio scorrere veloce fuori dal finestrino. La campagna brulla e dai colori spenti si confondeva all’orizzonte con un tetro cielo e, dopo un po’, le parve quasi che l’intero mondo avesse abbandonato ogni colore in favore di quel grigio morto.
«Hem, hem»Naso Aquilino si schiarì la voce e Rebecca, con il capo appoggiato al vetro e li occhi che stavano quasi per chiudersi, sussultò appena.
Lo guardò con un misto di sorpresa mentre si agitava sul sedile imbottito del treno.
«Sono Sean, piacere»disse, allungando la mano verso di lei.
Aveva una mano lunga e dalle unghie ben curate e Rebecca fece passare qualche attimo prima di stringerla con la sua. Si sentiva così intontita e stanca all’improvviso.
«Piacere» disse alla fine, sorridendo appena «Io sono Rebec…»
BOOOOM.
Rebecca sentì il fischio acuto del vento, una sferzata di terrore e adrenalina, mentre una forza invisibile la trascinava per terra e la carrozza, semplicemente,esplodeva. Si accucciò per terra, riparandosi sotto il traballante tavolino che avevano usato per pranzare e ci mise una decina di secondi, lì sotto, per capire che doveva scappare fuori dal vagone.
L’aria era piena di urla, la polvere vorticava freneticamente e l’odore di fumo si faceva prepotentemente largo nelle sue narici. Li occhi presero a lacrimarle –non sapeva se per lo spavento o per altro- e cercò di trascinarsi carponi lungo la parete inclinata e pericolante dello scompartimento. L’intero vagone era a soqquadro. Le poltroncine in pelle erano come saltate in aria e, fra sedili completamente rivoltati, l’imbottitura era fuoriuscita e si era accumulata ai piedi del corpo accasciato di uno dei ragazzi –quello con il naso aquilino e i capelli neri-.
Non aveva gran forza nelle gambe che sentiva molli e tremanti, perciò si limitò a scivolare verso l’uscita. Provò ad urlare, ma il suo grido si disperse fra le altre esclamazioni e richieste di aiuto che sentiva provenire fuori dalla carrozza.
La seconda esplosione fu più forte, più vicina e Rebecca, che aveva afferrato il cardine della porta, fu nuovamente sbalzata all’indietro dal colpo. Rinculò con forza e batté il capo contro l’angolo appuntito del tavolino, cadendo a terra supina.
Questa volta fu più brutto. Non riusciva nemmeno a muovere le braccia, come se le avesse distaccate dal busto e ebbe la sensazione che qualsiasi cosa ci fosse dentro il suo corpo –sangue, acqua, sudore- l’avesse abbandonata, lasciandola completamente vuota e inerme.
Per un attimo non sentì nemmeno dolore e provò a rilassare i muscoli contratti.
Poi, come se si fosse improvvisamente acceso un interruttore, il dolore tornò -tornò tutto- e la lasciò senza fiato. La gamba era come accartocciata su sé stessa e pulsava di dolore. Sentiva qualcosa scorrere lungo le sue guance ma non fu in grado di comprendere se fosse sudore, lacrime o sangue. E la testa girava e pulsava, come se un cerchio di ferro le si fosse serrato attorno alle tempie e le stringesse forte. Nell’aria, questa volta, non c’era solo la polvere a roteare ma detriti, fumo, residui dell’imbottitura dei sedili e urla, pianti e grida di aiuto.
Rebecca non le sentiva bene, le arrivavano indistintamente, come se la sua testa fosse sommersa nell’acqua e udisse da lontano voci in superficie. Anche la sua vista era indistinta, come se una patina trasparente e torbida allo stesso tempo le fosse scesa sugli occhi.
Un attacco di tosse la scosse interamente mentre cercava di rialzarsi. La carrozza era buia - nella sera tarda che faceva da sfondo alla loro tragedia e senza la luce corrente che era scomparsa a seguito della seconda esplosione- ma procedendo a tentoni e grazie ad evanescenti tracce di luce che venivano da oltre la soglia della carrozza, riuscì a strisciare oltre il solco dove prima era la porta.
Il fumo era denso, una cortina indissolubile.
La prima volta era stato terrorizzante, la seconda volta doloroso.
La terza volta, Rebecca nemmeno ebbe il tempo di definirla, sentì solo un colpo secco alla nuca, il corpo che non rispondeva più ai comandi e si accasciava sul parquet del treno, e il buio scese su di lei.
   
 
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