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Autore: MissNothing    29/05/2013    5 recensioni
"Gerard continuò a fissare le luci dei lampioni stradali fuori dal finestrino della macchina in cui si trovava in quel momento, pensando al fatto che non aveva idea di dove si sarebbe riparato dall'alluvione che era da poco cominciata. Fissò le luci che si appannavano nelle tante piccole goccioline colorate di cui era tempestato il vetro che lo separava di qualche centimetro dalla pioggia battente, e ci poggiò una mano sopra nel tentativo di bilanciare il suo peso prima di trovarsi col volto schiacciato contro la fredda superficie trasparente. Sospirò, il calore della sua bocca che si condensava in vapore contro il finestrino e formava un piccolo cerchio."
[In cui Gerard fa il "mestiere più antico del mondo" e Frank ha una casa discografica e troppi soldi da sprecare. Oppure, volendo, "motivi per cui non avrei mai dovuto vedere Pretty Woman" o "La fiera del cliché" uwu]
!!INTERROTTA A TEMPO INDETERMINATO!!
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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When The Sun Goes Down

-II, profumo di viole-



 

E tutt'a un tratto Gerard aveva anche una specie di "appuntamento".

Niente di che, insomma; diciamo solo che il giorno dopo aveva richiamato Frank per comunicargli che era abbastanza propenso al sì, e quest'ultimo gli aveva dato l'indirizzo di una Bakery (Gerard, dopo aver attaccato il telefono, era stato cinque minuti buoni a cercare di capire che tipo di posto fosse esattamente una Bakery), dicendogli di farsi trovare lì alle sei del giorno dopo. Dopo alcuni attimi di confusione che lo avevano portato a pensare al fatto che si sarebbe dovuto svegliare alle cinq- no, anzi, che subito dopo il "lavoro" sarebbe andato a prendere la colazione con Frank e dopo varie rispostine sarcastiche di suo fratello che non avevano fatto altro che confonderlo ancora di più, Gerard era riuscito finalmente a realizzare una cosa: le Bakery, qualsiasi cosa fossero, alle sei del mattino erano -con buone probabilità- chiuse.

Quindi, piccoli imprevisti a parte, il ragazzo avea capito che si poteva trattare solo delle sei del pomeriggio.

E dopo aver compreso appieno tutti gli altri dettagli riguardanti l'appuntamento e l'orario di esso, si ritrovava a camminare in una di quelle strade principali che veramente di rado frequentava, gli occhi e le borse che perennemente c'erano sotto di essi coperti da un paio di occhiali nero pece dalla forma vagamente rotonda e la esile figura che in quel periodo non faceva che diventare sempre più ossuta avvolta e abbondantemente coperta da una logora giacca di jeans che un tempo gli stava anche stretta.

Masticava con aria angosciata una gomma alla menta, lasciando che la riproduzione casuale del suo ritrovato mp3 lo intrattenesse e coprisse gli insopportabili rumori della strada: macchine, clacson, bambini che urlano, mamme che urlano ai bambini di non urlare, padri che urlano alle mogli di non urlare ai bambini che urlano. Adolescenti che urlano giusto per.

Era tutto un urlare generale, e a Gerard piaceva astenervisi così.

Pochi passi e svariate grida dopo, scoprì anche cosa fosse una Bakery.

Avete presente, no? Quei posti con i muri color pastello, il quieto brusio delle chiacchiere di coppiette e gruppi di amici, le luci dalla tonalità calda che lo stesso calore te lo trasmettevano proprio in endovena, i dolci fatti di colorante e zucchero che sembravano tanto due pezzi di polistirolo schiacciati l'uno contro l'altro, l'odore di caffè.

Esattamente quel tipo di posto in cui Gerard sapeva perfettamente che si sarebbe sentito a disagio, anche se ormai nella categoria di "quel tipo di posto" rientrava più o meno qualsiasi luogo che non fosse casa sua.

A quel punto, se il disagio nello stare intorno a persone che più o meno erano alla sua portata era così alto, non riuscì ad evitare di pensare a come si sarebbe sentito a casa di qualche riccone -in California- insieme ai suoi genitori: di conseguenza, alla fine, si rese conto anche del fatto che forse era ancora in tempo per fare retromarcia e tornare indietro. Poi però vide Frank e probabilmente Frank vide lui, perché lo salutò con un sorrisone da uno dei tavolini vicino alla finestra che dava esattamente sul lato opposto della strada, e allora il ragazzo inspirò ed espirò.

Gettò via la gomma e dopo essersi tolto le cuffie cominciò ad arrotolarle assentemente intorno all'mp3 prima di metterlo in tasca.

Inspirò ed espirò.

Spinse con forza la maniglia della porta nonostante ci fosse un cartello che diceva chiaramente di tirare, e dopo un piccolo momento di panico precedente a quella scoperta riuscì addirittura ad entrare.

Inspirò ed espirò.

Si fece strada fra un'incredibile folla di gente e cercò con tutto ciò che era di non far cadere nessuno dei camerieri (troppo presi dai loro movimenti frenetici per curarsi di lui), arrivando sano e salvo al tavolo dove l'altro lo aspettava.

Inspirò ed espirò.

«Hey.» Disse, mettendosi a sedere con un movimento così fluido e casuale che si sentì compiaciuto con sé stesso per essere riuscito a non inciampare e rendendosi conto solo in quel momento che indossava ancora gli occhiali. Meglio così: probabilmente Frank non voleva essere visto insieme a lui, quindi tanto valeva coprirsi la faccia il più possibile. E fanculo gli sguardi straniti della gente.

«Ciao. Ti ho preso qualcosa?» Disse Frank, quasi come una domanda. Gerard notò solo in quel momento le due tazze di caffè e le due fette di torta che giacevano dimenticate sul tavolo, e non riuscì ad evitare il sorriso che si fece pian piano strada sulla sua faccia: non era abituato ad avere qualcuno che facesse qualcosa per lui in maniera così... spontanea?

(Che poi, qualche accurata e pessimistica riflessione dopo, si era reso conto che forse quel gesto non era altro che un modo per abbuonarselo. Insomma, avete capito, no? Infondo non aveva ancora detto esattamente di sì. O almeno non definitivamente.)

«Grazie.» Disse, voce distorta dalla strana espressione contenta che sembrava incapace di togliersi dal volto. Frank si strinse nelle spalle come se fosse una cosa da niente. E anche se non sapeva bene perché, Gerard in quel momento era veramente convinto che non fosse finta modestia, la voglia di fare il falso buonista o qualsiasi cosa: si vedeva dall'espressione che per lui era davvero una "cosa da niente". Che non si trattava di finto altruismo a scopi egoistici.

«Levati questi cosi.» Disse Frank, ridendo e scuotendo il capo mentre si sporgeva leggermente verso il lato del tavolo di Gerard e allungava il braccio per afferrargli gli occhiali che, apparentemente, erano stati rinominati come "quei cosi".

«Preferirei davvero di no.» Disse il ragazzo, glaciale.

Era così abituato a non far trasparire assolutamente nulla o ad essere sempre un personaggio piuttosto che una persona, che dopo il sorriso così sincero di prima si era trovato talmente spiazzato dal suo stesso comportamento e dal modo in cui l'altro era riuscito a scalfire anche solo leggermente la sua personale barriera, che aveva deciso di nascondersi di nuovo dietro l'immagine che voleva dare di sé. Se voleva proteggersi dalla tristezza doveva anche imparare a proteggersi dalla felicità, e questo perché, il ragazzo pensava di aver capito, non è necessariamente vero che la prima sia una cosa bella.

Gerard, ogni volta che stava bene, viveva nell'incubo che succedesse di nuovo qualcosa di così brutto da riportarlo al precedente stato di sbando e di nulla, e raramente -quando capitavano- riusciva a godersi quei momenti che determinavano la sua "felicità". Perché questa, in pratica, molto spesso dipendeva dagli altri. La tristezza, l'apatia, l'odio e tutto il resto invece nascevano da lui, e dopo aver capito quello, Gerard era arrivato alla conclusione che finché gli appartenevano, avrebbe lottato per tenersi almeno quelli.

Per quanto stupido suonasse.

«Scusa.» Disse l'altro, rimettendosi a posto con l'espressione di un cane che era appena stato sgridato dal padrone. Il ragazzo sentì qualcosa ribaltarglisi nello stomaco nel vedere una scena del genere e rendersi conto che era solo e unicamente colpa sua. D'altronde, felicità o tristezza, persone o personaggi, chi cazzo era lui per trattare male una persona che non gli aveva fatto assolutamente nulla di male?

«No, è che... ascolta, non vorrei che qualcuno che ti conosce ti vedesse con me. Lo dico per te, eh.» Disse, abbassando addirittura il tono di voce per non far intuire niente a nessuno. Come se stessero parlando dell'ipotetico grammo di coca che Gerard gli doveva vendere, o chissà cosa. Frank in tutta risposta si mise a ridere, scuotendo il capo come a dire che l'altro non aveva capito proprio un cazzo.

«Ci sono veramente poche possibilità che qualcuno che conosco io conosca anche te.» Replicò, e in altre circostanze il cervello di Gerard si sarebbe messo ad escogitare una qualche rispostina sarcastica per fargli rendere conto che certe frasi, in presenza di certe persone che per vivere fanno certe cose, forse avrebbe dovuto evitarle.

Era quasi come una difesa naturale: si sarebbe messo in piedi e avrebbe alzato il tono di voce, dicendo qualcosa tipo "Oh, i tuoi amichetti sono troppo dei ragazzetti per bene per andare con le put-ta-ne come me?", e avrebbe scandito al meglio tutte le sillabe di quella parola.

Così. Tanto per.

Giusto per metterlo in imbarazzo perché cazzo, okay, non riusciva a far finta di non essere anche solo un minimo offeso.

Però quello era Frank. E nonostante fosse offeso ugualmente, Frank era sincero.

Gerard non riuscì ad evitare di chiedersi come facesse a sapere tutte quelle cose (o come facesse a credere di saperle), ma era quasi convinto che fosse quel tipo di persona che certe cose non le dice perché le pensa davvero, o che semplicemente parla e non si rende conto di chi ha davanti, parla e non si rende conto e basta. E ora che ci pensava era anche la prima volta che passava del tempo al di fuori dal contesto "lavorativo" con qualcuno che conosceva... ecco... tutto.

Frank era, oltre a Kenneth ed Alicia, l'unica persona che lo sapeva.

Ad ogni modo Kenneth non era nella posizione giusta per fare commenti perché diciamo che sul piano dell'occupazione lui e Gerard non erano molto diversi, mentre Alicia non li avrebbe fatti e basta. Alicia era Alicia e per quanto ciò che faceva Gerard le facesse schifo, quest'ultimo sapeva che non era lui a farle schifo; per fare i sempliciotti, Alicia Simmons era quel tipo di persona che aveva la rara capacità di separare la persona dalle sue azioni- cosa che non sempre andava a suo favore, ma ad ogni modo qui non stiamo parlando della storia di Alicia Simmons, giusto?

Quindi, ecco, forse Gerard era paranoico.

Cominciava a pensare che fosse diventato così calcolatore e così fissato nello scindere ogni nanosecondo della sua vita e ogni sillaba delle parole che sentiva o pronunciava proprio perché ormai non poteva permettersi errori.

Quando ti vendi per quello che sembri non è che ti concentri tanto su quello che sei. E' la prima impressione che conta, mica poi la gente viene a chiederti la tua opinione sull'aborto, l'amore, la vita, l'adozione, i matrimoni gay, il maltrattamento degli animali.

Insomma, a furia di essere trattato come un oggetto aveva cominciato a vedersi allo stesso modo.

E, dopo due anni che andava avanti così, si vergognava persino di camminare per strada (nonostante fosse perfettamente consapevole del fatto che il novantanove virgola novantanove percento delle persone che gli passavano davanti non avevano la più pallida idea di chi fosse) e non riusciva più a prendere un semplice commento come quello che aveva fatto Frank poco prima alla leggera come avrebbe fatto una persona... normale?

In pratica aveva costruito un ragionamento e una possibile risposta acida ad un'affermazione che probabilmente aveva inteso male. O che l'altro interlocutore, pensandoci due volte, non avrebbe mai detto.

Ora che ci pensava, non era proprio una cosa normale.

Si sentiva proprio come un coglione.

No, peggio. Si sentiva come quel coglione stronzo che ti resta schiacciato sotto la coscia quando ti siedi, allora stai lì che pensi "merda, che ho fatto di male per meritarrmi un coglione così stupido?" e non sai che cazzo fare per far andare via il dolore. Ormai ti ci sei seduto sopra e per quanto tu ti possa muovere il dolore resterà lì per secoli e tu ne sei consapevole, cazzo, ecco, proprio così si sentiva. Era il coglione ritardato della situazione. Quello che se avesse un cervello a sé stante e fosse stato a conoscenza di tutto il dolore che provocava al suo proprietario, probabilmente si sarebbe odiato da solo. E Frank era quello che ancora rigava dritto e non si auto-mutilava.

«Quindi li tolgo?» Si accertò.

«Certo, a meno che non sia tu quello che ha vergogna di farsi vedere con me...» Disse Frank con un finto tono provocatorio.

«Oh, sarebbe una sfida?» Chiese Gerard, alzando un sopracciglio (nonostante un gesto del genere non fosse visibile con "quei cosi" che gli coprivano mezza faccia).

«Mh, può essere.» Frank fece una smorfia disinvolta, quelle di quando te ne frega talmente poco che sei completamente indifferente all'esito della situazione.

Gerard allora si tolse gli occhiali e non fu mai tanto contento di ritornare a vedere tutto a colori. Li lasciò accanto alla sua tazza di caffè ed ehi, cazzo, aveva il suo primo caffè della giornata lì vicino e non lo stava nemmeno bevendo, troppo preso dalle cazzate che il suo cervello gli diceva.

Era un continuo, davvero.

Gerard avrebbe fatto a cazzotti con chiunque glielo avesse ficcato in testa, se fosse stato meno esile e un po' più coordinato nei movimenti.

«Quindi?» Disse il ragazzo dopo aver preso il primo sorso dalla sua tazza.

«Già. Umh. Come stai?» Domandò l'altro, arrossendo. Gerard pensò a quanto fosse strano pensare che qualcuno si sentisse a disagio in sua presenza quando poi lui era il primo ad essere fottutamente spaventato dalla gente. Gli sorrise, cercando in Dio-solo-sa-che-modo di metterlo un minimo a suo agio.

«Bene. Tu?» Rispose, e in qualche secondo finì di bere il caffè nella sua tazzina prima che si raffreddasse ulteriormente. Solo in quel momento, dopo essersi ricaricato con la minima quantità di caffeina necessaria per il corretto funzionamento del suo corpo, Gerard cominciò a notare una piccola miriade di cose sulle quali prima non aveva avuto la forza di soffermarsi, e una in particolare catturò la sua attenzione: le viole sul tavolo.

Le viole, in linguaggio comune, significano "ti penso".

Una sfortunata e ridicola coincidenza, perché adesso, alla vista di un qualsiasi vaso di viole, avrebbe pensato a Frank.

«Bene, grazie.» Disse quest'ultimo, ricambiando il sorriso di prima.

«Senti, riguardo quella... quella cosa... dovrei far finta di essere qualcuno in particolare?» Chiese, cercando di buttarla già sul lato più professionale dell'incontro, non sapendo davvero cosa dire e imbarazzato all'idea di straparlare, fare quelle stupide conversazioni piene di domande e risposte di circostanza. Frank sbarrò gli occhi, concedendosi una breve risata solo dopo aver espresso tutto il suo shock tramite quell'espressione quasi comica che aveva fatto con gli occhi. Gerard pensò che avesse davvero una risata carina: in effetti gli faceva venire voglia di dire qualche altra stronzata per farlo ridere di nuovo, e di questi pensieri non sapeva davvero cosa farsene, onestamente.

«Perché dovresti? Fai quello che vuoi, quello che ti riesce più facile. Io sono sempre stato sulla difensiva, tipo "no, no, vedrete quando lo conoscerete", quindi non hanno nemmeno un nome, ti rendi conto? Oddio.» Cominciò, e Gerard si limitò a sorridergli per non interrompere il monologo. «Oh, umh, qual è il tuo vero nome? A meno che non ti chiami Gee, in quel caso complimenti a chiunque abbia coltivato l'erba che dovevano aver fumato i tuoi quella sera.» Frank gli chiese, e quella volta fu il turno di Gerard per ridere.

«Mi chiamo Gerard.» Gli tese la mano per stringerla, come se si fossero incontrati solo in quel momento, e quando Frank replicò il gesto, notò tutti i tatuaggi che aveva su mani e braccia. La semplicissima maglietta nera a maniche corte non faceva nulla per nasconderli, e forse era anche giusto, perché lì sopra dovevano esserci almeno due o tre stipendi di tatuaggi.

Gerard pensò al contrasto che una t-shirt del genere faceva con il completo perfettamente stirato con tanto di cravatta che aveva indossato l'altro giorno, e non riuscì a trattenersi dal pensare che avrebbe tanto voluto sapere se sotto ci fosse altro inchiostro che gli sporcava la pelle. Nel senso migliore del termine, comunque. Era come un quadro con le gambe.

«Allora, Gerard, io ti ho parlato di me... ora tocca a te, che dici?»

 

**

 

Gerard si guardò intorno, mentre i suoi pensieri sembravano assorbiti dal buco nero di disordine che ormai era camera sua. Fissò il materasso matrimoniale buttato a terra come se quello fosse un posto abbandonato, ma in realtà quest'ultimo gli faceva da letto. Fissò le due pile di libri ai lati di esso che aveva arrangiato come comodini e le lenzuola perennemente sfatte. Fissò la vecchia abat jour senza paralume che aveva trovato in un angolo della casa appena si erano trasferiti (e che aveva deciso di tenere perché "se qualcuno l'aveva lasciata lì evidentemente era il suo posto"), e fissò tutti i vestiti buttati qui e lì o addirittura piegati a terra in assenza di un armadio.

«Sei completamente impazzito.» Disse Mikey dall'altro lato della stanza, stesso tono piatto che ormai usava un po' per tutto. Gerard intanto metteva a soqquadro la stanza alla ricerca del suo passaporto, determinato almeno quella volta a non ridursi all'ultimo momento (ossia lunedì mattina, venti minuti prima di partire). Ad ogni modo quello scatto di motivazione durò ben poco, e immediatamente si arrese. Adesso doveva cercare di capire che cazzo voleva Mikey.

«Cosa?» Chiese, voltandosi improvvisamente. Sapeva bene cosa, ma gli serviva fargli perdere tempo per inventare una storia che facesse da alibi a questa sua partenza improvvisa. Fissò le tazze di una volta contenenti caffè sparse qui e lì e finalmente capì perché non le trovava più in cucina.

«Alicia mi ha detto che... vai via per una settimana.» Rispose il minore, passando dal suo tipico tono indifferente ad uno ben più preoccupato.

Lasciare Mikey da solo era come un terno al lotto: potevi tornare e trovarlo a prepararti la cena alle tre del mattino come se niente fosse successo oppure potevi trovarlo stretto ad una coperta, accasciato a terra in un angolino- come se avesse paura di qualcosa o, citando sue testuali parole, avesse "sentito delle voci". Gerard non sapeva esattamente cosa gli dicessero quelle voci, ma poteva giocarsi le palle sul fatto che non dovevano essere delle cose molto rassicuranti.

«Mi dispiace. Ha detto che puoi stare con lei, comunque. Così non rimarrai da solo.» Rispose, cercando di rassicurarlo mentre si sedeva a "letto" e calciava via le Vans nere che ormai cadevano a pezzi. Mikey abbassò lo sguardo a terra e cominciò a strusciarsi le mani sulle braccia, come se improvvisamente avesse freddo. Gearard fissò il muro di mattoni lasciato al naturale. «Ho... ho bisogno di staccare. Anche io ne ho. Ogni tanto.»

«Non devi per forza andartene. Possiamo fare qualcosa.» Si lamentò, esattamente come un bambino potrebbe lamentarsi quando gli viene tolto il giocattolo preferito. Era incredibile l'effetto che gli faceva vederlo così, e ogni volta era la stessa cosa. Per un secondo pensò persino di rimanere lì e lasciar stare tutto, giusto per farlo contento. Magari non era il fatto che fosse suo fratello ed era solo un debole.

«No. Devo partire.» Ma magari no. E quindi fissò Mikey.

 

**

 

HHHHHHHHEYYYYYY!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Sono viva! uwu

Allora, come volevasi dimostrare ho più o meno cambiato idea e ho deciso di mettere degli pseudo titoli ai capitoli: il primo l'ho chiamato adagio, non so perché, mi metteva un'aria rilassata e quindi okay, sono rinchiudibile (?).

Quindi non tanto titoli presi da citazioni o canzoni varie perché non mi riesce bene adattare qualcosa di completamente estraneo a qualcosa scritto da me, ma più che altro dei piccoli dettagli che altrimenti sarebbero andati persi un po' così (?)

Per esempio, ecco, il profumo di viole.

E' tipo fin da piccola che ogni volta che vedo una viola io devo odorarla -lasciamo stare il fatto che ironizzando sul mio cognome mi chiamavano "de Viola" piuttosto che "de Rosa", genitori sadici che si divertono così-, è tipo una cosa che mi ha sempre accompagnata.

Poi tipo verso il duemiladieci una mia amica mi fece sentire una canzone che si chiama "Profumo", dei Passogigante (un piccolo gruppetto di Firenze molto a random), e mi tornò in mente questo dettaglio della mia infanzia (?)

(Il testo faceva tipo "Profumo di viole, blablakbalal", lo specifico per dare un senso a tutta sta storia <3)

La scaricai, poi persi i dati sul computer e scoprii che in pratica su youtube non esisteva più perché i Passogigante l'avevano rimossa. Tuffo al cuore, non l'ho sentita per almeno tre anni e poi l'altro giono l'ho trovata su Spotify.

Insomma, breve storia lunga, questo capitolo l'ho scritto ascoltando nient'altro se non quella canzone, quindi mi sono detta che forse era un segno (?)

Più in là avrà un senso anche nel contesto, ad ogni modo, ci proverò davvero. <333

Fatemi sapere cosa ne pensate, vi giuro che sette recensioni allo scorso capitolo non me le aspettavo proprio, awww ;__;

Grassie milaah, alla prossima <333<3<<3<3<3

xo

   
 
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