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Autore: Kisuke94    02/06/2013    1 recensioni
Ecco a voi un'altra storia originale, scritta dal sottoscritto. Alcuni argomenti trattati in essa sono un pochetto maturi, ma non mancheranno le risate, tranquilli. La storia vuole essere più reale possibile, nonostante sia fantasy, come, per esempio, in location, dialoghi e personaggi. Ora vi chiederete qual'è l'elemento fantasy, leggete e scopritelo ;)
Cosa succederebbe se a quattro ragazzi come tanti venissero dati dei poteri "Apocalittici"? Leggete e vedrete ;)
Genere: Dark, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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XII CAPITOLO

-Da quando mamma è morta… ho perso entrambi i miei genitori, e sono rimasto con una sorella che mi ama, ma cui sono costretto a mentire… come pensi che mi senta!- disse queste parole, con voce alta e lacrime a fiumi, bloccandosi nell’istante in cui vide poggiata vicino alla porta, con la testolina stanca e affaticata, la sorella Yumi, con gli occhi densi di lacrime che faticavano a scendere, un nodo in gola che quasi la soffocava. Era sopraggiunta per salutare il padre, avendolo sentito rientrare anche lei, ma alle parole del fratello era come morta dentro, senza speranza di salvezza.

Ripercorrendo quel ricordo, Aaron sentì di nuovo quel nodo in gola. Quando si sentiva in colpa, quel ricordo riemergeva prepotente nella sua mente. Il suo animo si stava a poco a poco sgretolando, e le sue forze parevano lasciarlo. In quell’istante Shin uscì dalla porta, per consolare quel compagno che in poche ore stava conoscendo, e del quale voleva capire di più.
 
Aaron aveva gli occhi persi nel vuoto, di un grigio opaco.. senza riflesso alcuno. Il suo corpo era lì ma la sua mente vagava nei ricordi più profondi, radicati nel suo cuore, sì perché, al di là del pensiero comune, quei ricordi albergavano nel suo cuore, nell’organo che, se fosse mai stato possibile, avrebbe fermato tempo orsono. L’uscita di Shin e la presenza di Juro non lo smossero. Nemmeno quando il giovane si lanciò verso l’auto nell’intento di affrontare l’avversario; in quel rapido movimento persino i capelli, perfetti, di Aaron si smossero, trasportati dalla corrente, umida, della notte; mentre Aaron veniva trasportato, al contempo, nei meandri più oscuri del suo passato.
 
-Allora dottore, cosa mi può dire?- domandò il padre di Aaron, quell’uomo che, ormai disperato, non nascondeva i suoi sentimenti, le sue preoccupazioni verso la  piccola Yumi. Il volto provato dalle settimane, seguite a quella notte, in cui non trovò pace; non dormì, e mangiò a fatica. Mentre espresse quelle parole, portò le mani tra i folti capelli brizzolati che correvano fin dietro la nuca, secchi e sfibrati. Il medico, uomo alto e ben portato, scosse leggermente la testa, indicando poi di appartarsi in un’altra stanza per non permettere ad Aaron di udire quanto doveva riferirgli. Sì, Aaron era lì, ai piedi del grande letto in cui giaceva Yumi, presente solo fisicamente, ma distrutta dentro. Non resse la dura verità, per tanto tempo taciuta da quelle persone che lei amava alla follia. Quella notte vide sgretolarsi il muro di certezze che aveva fin allora costruito; ogni ricordo che aveva si bruciò davanti agli occhi, materialmente; invano fu il tentativo della giovane di tenerli stretti a sé, di afferrarli e portarli al petto dove, tristemente, desiderava tenerli. Ogni parola, ogni promessa del fratello le pareva una bugia, un’inutile risposta data con sufficienza per il solo scopo di mentirla e nascondere la verità. Tutti i suoi sorrisi, i suoi gesti, iniziarono a macchiarsi di un nero oscuro e maligno, e il suo animo, pian piano, fu trapassato, lentamente, come da un coltello, che dalla schiena fuoriusciva dal suo grembo. La piccola, in un lampo, quella stessa notte, vide riflesso sul volto del fratello e del padre, delle maschere, dai sorrisi maligni, come se volessero solamente trascinarla nell’oscurità, per divorarle l’animo.

Si chiuse in se stessa, non parlò più con nessuno, rifiutava le cure del fratello e del padre medesimo. Pianse giorno e notte, senza soluzione di continuità; quelle lacrime, per lei, avevano il solo colore del sangue, come se le sue ferite volessero trovare uno sfogo più grande.. o non guarire mai. Il padre, non sapendo più cosa fare, chiese aiuto a numerosi medici, nel tentativo di trovare una “cura” a quella chiusura della figlia, tentativi vani. L’ultimo medico fu il Dr. Hawk, che la visitò meticolosamente, cercando un contatto con la giovane, prima visivo; poi un dialogo. La piccola però mai aprì bocca, nonostante il dolce viso, quasi angelico, di quel medico, sulla trentina, ma già molto conosciuto. Egli si alzò, prese da terra la sua borsa di pelle nera, si voltò verso Nicholas –il padre di Aaron- lo fissò per qualche secondo, vide il rapido movimento delle mani seguito dalla domanda dovuta, rivolse poi gli occhi verso Aaron, che sedeva vicino al letto, ritornò su Nicholas scuotendo la testa e indicando l’altra camera. Entrati, notò subito la foto di famiglia sul cassettone nero ad altezza d’uomo, la sfiorò sul bordo accennando un sorriso amaro.

-È lei la madre?- domandò, cauto, girandosi verso l’uomo che lo seguiva chiudendo la porta alle sue spalle. Sapeva che la domanda poteva essere scomoda, ma voleva prima di tutto un contatto anche con lui, che era rimasto impassibile per tutta la durata della visita. Nicholas, malinconicamente, si diresse verso la foto, ignorando quasi la domanda del duo interlocutore. Rimase immobile, fissandola, poi socchiuse gli occhi, stringendoli subito dopo, lasciando cadere le lacrime senza vergogna, ripensando agli errori commessi. S’incolpava per quello che era accaduto alla figlia, per quello che accadde alla moglie, e a quello che potrebbe ancora accadere. La strinse forte, tanto da appannare il vetro con il lieve sudore del pollice destro. Pulì, quasi all’istante, l’alone creatosi; si asciugò in fretta le lacrime e si voltò a rispondere.

-Sì. È morta mesi fa. Incidente aereo, dovrebbe averne sentito parlare- rispose quasi telegraficamente, cercando, in ogni modo, di mascherare la voce strozzata dal dolore. Fissò, con gli occhi ancora lucidi, il giovane medico, che aveva l’aria perplessa; non ricordava nessun incidente aereo, anche perché non seguiva molto i notiziari.

-Giusto! Cosa voglio pretendere. Voi giovani moderni non vedete Tg, o seguite le news radiofoniche. Vivete nel vostro mondo telematico, con i vostri arnesi diabolici e le vostre ideologie..- continuò, non avendo ottenuto alcuna risposta. Era visibilmente provato e stanco, forse nemmeno si rendeva conto di cosa stesse accusando. Il Dr Hawk lo sapeva bene, era prima di tutto uno psichiatra. Si affrettò ad aprire la borsa, forse per cercare qualcosa. Nel muoversi un capello, del perfetto ciuffo che aveva, gli cadde davanti agli occhi, ma non lo smosse.

-Ma dove l’ho….- esordì, spezzando quel silenzio, imbarazzante, che seguì le parole di Nicholas. –..non sono quel tipo di persona, ad ogni modo.- continuò. –semplicemente non ricordo di nessun incidente aereo; forse in quel periodo non mi trovavo in Giappone. Sa io mi muovo sempre tra Europa e Giappone!- rispose, quasi con tono accusatorio, discolpandosi a tutti gli effetti dalle affermazioni quasi infamanti dell’uomo. Sapeva essere pungente e persuasivo quando voleva; era una delle sue doti, dopotutto. Richiuse la borsa; senza prendere nulla dal suo interno. Aveva dimenticato, nel rispondere, cosa stessa cercando.

-Voglio essere sincero con lei, signor Hohenheim.. sua figlia non ha alcun difetto clinico. Non presenta nessun sintomo che possa definire… sa cosa voglio dire- fece, posando la borsa sul pavimento e incamminandosi verso la finestra che dava sul balcone; le mani intrecciate dietro alla schiena.

-Non esiste una “cura”, come lei cerca di sostenere. Semplicemente perché non c’è nulla da curare- continuò poi, prendendosi una pausa. Fissò fuori, il sole era al crepuscolo, il cielo di color arancio illuminava tutta la zona, dominata da piccole ville basse che offrivano ampia vista dell’orizzonte, ovunque ci si trovasse. Il volto del giovane medico si tinse anch’esso di arancio, e i suoi occhi castani sembrarono brillare di nuova luce. Dall’altra parte della stanza, dietro la porta, Aaron cercava di udire quanto i due uomini si stavano dicendo. Era lì da ormai diversi minuti, con orecchio attento e poggiato al legno freddo della porta; come fredda, era il resto della casa. Comprese poche parole, ma furono fatali. Lentamente, mentre dall’altra parte le pronunciarono, la sua mano si avvicinò al pomello dell’imponente porta, facendo tremare anch’esso. Si vide, da sotto l’uscio, il movimento di ombre e si udirono chiaramente le parole del giovane medico.

-Sua figlia.. ha come perso la volontà di vivere, signor Hohenheim- disse Hawk, lentamente, cercando di restare impassibile, fissando il padre dalla piccola dal solo lieve riflesso che di lui dominava l’anta destra della finestra. Socchiuse gli occhi, cercando di trattenere le proprie emozioni. In quel momento Aaron, furioso, spalancò la porta, ancora tremante dalla rabbia. Digrignò i denti ma non riuscì a formulare alcun ché. Scrutò la stanza, trovò la figura del padre ancora poggiata al cassettone, ma senza riuscir a vederlo, come se la vista le fosse preclusa; seguì poi l’ombra sul pavimento e arrivò ai piedi del medico, risalì frettolosamente il suo corpo con gli occhi, e strinse il pugno.

-Papà perché rimani lì impassibile- disse poi a denti stretti. In testa gli risuonavano ancora quelle parole, che non avevano senso per lui. Come la sorella anche lui ha sofferto per la morte della madre, quindi non trovava possibile una simile situazione. Aveva cercato in tutti i modi di dare fiducia a quel medico, così giovane ma allo stesso tempo sicuro di sé; gentile e disponibile.

-Ma hai sentito quello che ha detto??- continuò, non trovando la risposta, alla sua precedente affermazione, da parte dei due uomini. Hawk sapeva cosa stesse provando il ragazzino, per questo taceva, mentre il padre, inspiegabilmente  era come in una sorta di trans, ancora colpito da quelle dure parole, ma ‘sì cariche di verità. Aveva, infatti, pensato più volte anche lui di farla finita, eliminando poi quel brutale pensiero rivolgendo le sue attenzioni ai due piccoli che non avrebbe mai più voluto lasciare. E capiva anche cosa potesse provare la povera Yumi, vedendo allontanarsi due solidi pilastri della sua vita, le due figure che più di tutti dovevano restarle accanto in quel suo dolore che la stava logorando.

-Dovresti cacciarlo. Non sa quel che dice, e tu non fai nulla per- - non terminò la frase che il padre lo colpì in viso facendolo cadere all’indietro. La guancia gli diventò presto rossa, e le lacrime gli colarono in viso. Occhi fiammanti e volto provato; si rialzò sprezzante del padre e del giovane medico.

-Lo lasci! È naturale che dica queste cose. Ho avuto io poco tatto, mi dovete perdonare. Ad ogni modo non mi avete permesso di continuare..- disse subito Hawk, avvicinandosi ad Aaron cercando di asciugargli le lacrime; inutilmente. Il ragazzo si scostò fissando con sguardo agghiacciante l’uomo, divorandolo interamente con gli occhi. –*Certo!*- pensò poi il medico, riponendo nella tasca interna della giacca blu che indossava, il fazzolettino di stoffa che aveva offerto ad Aaron. Si alzò facendo leva sulle ginocchia. Si avvicinò a Nicholas, posando una mano sulla sua spalla, per scuoterlo lievemente.

-Ha bisogno di tempo. Deve recuperare la vostra fiducia.. e trovare qualcuno su cui contare, che non siate voi due- disse poi, voltandosi, a fine frase, verso Aaron, che ancora lo tracciava a vista. I due uomini continuarono a parlare. Era quasi diventata una visita di cortesia. Nicholas cercava, in lui, un conforto che potesse aiutarlo nell’immediato futuro, trovando una persona meravigliosa a tendergli la mano per superare ogni ostacolo quella brutta situazione gli avesse posto dinanzi. Si fecero le undici e il giovane medico fece per andarsene. Prese la sua borsa e s’incamminò verso la porta; salutò prima la piccola Yumi, baciandola sulla fronte, poi Aaron, scuotendogli i d’orati capelli. Un ghigno si materializzò sul volto del ragazzo, abbassò lo sguardo e lo fissò di sottocchio. Poi si diresse a salutare Nicholas, stringendogli prima la mano, in modo alquanto freddo, concedendosi poi un caloroso abbraccio, quasi d’incoraggiamento a rimettersi in piedi e tornare a combattere.

-Tornerò, in veste di ospite. Seguite i consigli che vi ho dato, vi raccomando!- disse poi dal finestrino della sua auto, mentre Nick lo salutava ancora con la mano. E lo sguardo di Aaron che lo pedinava, ancora.
 

Passarono altre settimane, e Yumi iniziò di nuovo a mangiare, e giocare, grazie anche all’aiuto della giovane Rieko, amica d’infanzia di Aaron, che vedeva in Yumi una sorella minore, e la prese in cura. Ogni giorno, dopo scuola, andava da lei e vi rimaneva fino a sera. Vedendo il rapporto amoroso tra le due, e scorgendo un sorriso quasi rinato sul volto della sorella si sentì così inutile; pensava di aver perso per sempre l’amore della sorella, così iniziò a isolarsi da tutti e da tutto. Chiuse ogni contatto col mondo esterno e covò un certo sdegno nei confronti di quella ragazza, che gli stava rubando le attenzioni della sorella. Le vedeva sempre da lontano, con le mani strette attorno all’asse della porta, con lo sguardo attento a ogni loro movimento, scrutando meticolosamente quelli di Rieko per scorgerne intenzioni malevole; ma invano.
Un giorno, aperta la porta -all’ennesima visita della giovane- si trovò faccia a faccia con lei. Non salutò, spostò lo sguardo verso il vuoto e la invitò a entrare, senza nascondere lo sdegno nel porre quella fastidiosa richiesta. Lasciò però la ragazza nell’anticamera, proprio dove solitamente si posano le scarpe da esterno. S’incamminò verso le scale per salire al piano di sopra, ignorandola. Ignorò persino la domanda spontanea che Rieko gli rivolse, con gentilezza.

-Perché mi tratti così?- domandò, poggiando delicatamente le scarpe vicino quelle di Aaron, riconosciute tra le varie paia. Ancora chinata alzò lo sguardo; nonostante la miriade di capelli che gli caddero davanti, scorse comunque il ragazzo, incrociando –forse per la prima volta, non lo sapeva bene- il suo sguardo di ghiaccio. L’azzurro dei suoi occhi era ancora più chiaro e nitido del solito, risultando ancora più marcatamente freddo e distaccato. Aaron non volle rispondere a quella domanda, continuò, però, a fissare la ragazza; non sapeva nemmeno lui a che scopo. Poi si risolse, allontanò lentamente le labbra e, con un filo di voce, disse ciò che, più di ogni altra cosa, doveva evitare di dire.

-Hai fatto l’errore di incrociare la tua vita con la nostra. Per me sei solo un fastidio!- disse, spregevolmente. Girandosi, continuando a salire le scale. Non si rese conto di ciò che disse, non subito per lo meno. Chiuse gli occhi per un secondo, quasi come segno di pentimento, ma tornò subito sulla sua strada, senza rimpianti. La ragazza, invece, rimase ferma a riflettere sulle sue parole. E continuò a farlo anche mentre stava con Yumi, che avvertiva l’atmosfera fredda che si respirava; nonostante i sorrisi di Rieko che cercava di nascondere la ferita, non fisica ma mentale.

Col tempo, la piccola tornò come prima, parlò di nuovo, con tutti, e usciva regolarmente con le sue amichette di scuola. Riferimento era ormai Rieko, che non la lasciava mai sola. Riuscì a legare di nuovo col padre, anche grazie a quell’amore epicureo che contraddistingue le giovani ragazzine, ma fu col fratello che le cose si complicarono. Non che la piccola non volesse riavvicinarsi a lui, anzi, era lui ad aver rinnegato il mondo intero, persino la sua giovane sorellina. Negava anche i suoi stessi sentimenti, pur essendo consapevole di averli. Trascorse il resto della sua esistenza criticando gli altri, creandosi un mondo proprio. A volte alzava il volto al cielo cercando, tristemente, quello della madre, in segno di sostegno contro quel mondo che lo stava respingendo, quando in verità era lui ad allontanarlo. Nonostante la sua indifferenza, la piccola Yumi iniziò a riempire di attenzioni il fratello maggiore, passando quasi tutto il suo tempo libero al suo seguito, anche se lui la cacciava. Pian piano, però, quasi per abitudine, non fece più caso alle insistenze della sorella, cercando di accettarla nel suo nuovo mondo, e, lentamente, tornò a considerarla parte di sé. Passarono anni, e quella notte sembrò essere svanita ormai dai loro ricordi. Le giornate erano felici, sebbene Aaron continuasse a odiare il mondo intero. I suoi rapporti con Rieko però superarono quella fase di negazione; adesso le parlava, anche se con distaccato interesse. Un giorno d’estate, però, la sua vita gli giocò l’ultimo infame scherzo. Si trovava con la sorella a pochi passi dalla piazza centrale del suo distretto, una delle piazze più grandi. Il cielo era di un colore rosso acceso, il sole era quasi del tutto sparito dietro l’orizzonte e le grida dei bambini che giocavano, riempivano l’aria di allegria. Un fresco venticello spirò da ovest, spostando i capelli di Aaron e della sorella, immortalati da Rieko come un artista fa, con un paesaggio, su tela. Scattò la foto con la sua nuova Polaroid, attese qualche secondo che la macchina gli stampasse la foto, poi l’agitò in aria. Lentamente si materializzò l’opera in quel piccolo rettangolino, incorniciato di bianco. Yumi corse a vedere la foto, e Aaron la seguì quasi stizzato. Rieko si chinò verso la ragazzina per mostrarle il bellissimo scatto, vedendo una felicità smisurata nei suoi occhi, ora pieni di commozione per la foto insieme al fratello maggiore.

-È bellissima!! Guarda fratellone!- disse Yumi, agitandola con la mano cercando le sue attenzioni. Aaron le si avvicinò con le mani in tasca, dritto e vigile su tutto. Imponente e statuario si fermò davanti alla sorella, facendole ombra con tutto il corpo. La fisso in volto, serio, poi sorrise, prendendo la foto in mano.

-Molto bella, hai ragione! Forse perché ci sono io, non pensi?- fece, sghignazzando amorevolmente, mentre scuoteva la chioma d’orata della piccola. Guardò poi Rieko, come mai aveva fatto prima d’ora; sembrava uno sguardo tra due persone che si amavano, ma non volevano ammetterlo. La giovane arrossì di colpo e distolse lo sguardo da Aaron. Yumi si accorse di quanto stava accadendo ed era felice.

-Rieko e Aaron.. insieme per sempre! Ahah!- disse la piccola avvicinando le dita a formare un cuore. Sorridente come non mai, cercò un qualche consenso nel volto del fratello, che, forse per la prima volta, si colorò di un rosa più vivo, vicino al rosso. Subito però si ricompose. Si alzò e propose un gelato fresco, prima che si facesse buio. Entrambe accettarono, senza indugio, l’offerta, e si avviarono verso il negozio che dava sulla strada; diviso solo da uno stretto marciapiede.

-Mmm signor gelataio!? Dovrei pretendere una coppetta- disse la piccola, arrivata per prima alla gelateria, seguita da Aaron e Rieko, molto vicini, che ancora non si erano rivolti la parola; essendo la richiesta precedente espressa senza contatto diretto.

-Che gusti preferisci, piccola?- chiese subito il negoziante, con fare gentile verso Yumi, la quale, alta sulle punte, fissava la moltitudine di gusti, con il labbro poggiato sul tubo di acciaio appena alla base del vetro che la divideva dai gelati. Li scelse senza pensarci troppo. Nessuno però poteva immaginare quello che sarebbe accaduto nell’immediato futuro. Mentre Aaron si voltava, chiamato dalla sorella, dopo aver pagato i tre gelati, vide quest’ultima al centro della strada agitare il braccio, indicando una panchina proprio al di là del parco.

Dall’altra parte della strada, un uomo a telefono, col piede premuto sull’acceleratore, stava correndo all’impazzata, noncurante dei limiti, rigidamente imposti nei luoghi affollati. Litigava forse col suo datore di lavoro per una commissione andata male, e non si accorse della ragazzina a centro della strada. Quando Aaron si voltò, fu più per lo stridore di pneumatici sull’asfalto, che per la voce della sorella, brutalmente stroncata l’attimo successivo. Rimase immobile, con gli occhi persi nel vuoto, tremante, ora di dolore, ora di rabbia. Perse la presa del cono che manteneva in mano. Il cuore gli si strinse in una morsa fortissima; sembrò quasi arrestarsi. Solo l’urlo di Rieko lo riportò alla realtà. Agitò la testa, bisbigliò qualcosa. Poi si diresse verso l’auto, che aveva il parafango ricoperto di sangue. Si sporse velocemente dietro l’angolo ceco, occupato dall’auto, e vide la sorella minore, la piccola Yumi, in un mare di sangue. Continuava a chiamare il fratello, nonostante lo avesse visto correre in suo soccorso, nonostante sentisse la sua voce e gli stesse stringendo le mani. Aaron non aveva voce, solo dal movimento delle sue labbra si potevano benissimo scorgere le sue parole: “sono, qui. Non ti lascio”

La bocca tremò convulsamente. Gli occhi sussultanti. Le mani stringevano, a scatti, il piccolo corpo della sorella, che portò forte a sé. La stringeva con tutto se stesso, cercando aiuto nelle persone a lui più vicine. Come un bambino perso nella folla, stava cercando lo sguardo di Rieko, cercava l’unica persona che poteva comprenderlo, che sarebbe rimasta con lui sempre e comunque. Lei era al suo fianco, ma non se ne accorse. Furono chiamati i soccorsi, ma arrivarono –come loro solito- troppo tardi. Aaron si muoveva avanti e indietro, tenendo a sè il corpo ormai esanime di Yumi. Fu avvertito il padre, che cercò di raggiungerli il prima possibile.. non riuscendoci. All’arrivo dei soccorsi non volle lasciare il corpicino della sorella, stava combattendo con tutto se stesso per non lasciarla andare, non avrebbe sopportato un’altra perdita, non così importate com’era la sorella minore. Un grido di disperazione vibrò nell’aria, ormai oscura, di quella notte estiva. Rieko rimase lì al suo fianco, non riuscendo però a trattenere le lacrime; esplose, infatti, in un pianto senza fine.
Anche l’uomo fu estratto dall’auto. Era ancora vivo, i medici gli misero il collare e lo caricarono sulla barella. Mormorava qualcosa circa il suo cellulare. Era importante. Doveva essere recuperato. Non diceva altro, non rispondeva alle domande dei medici, ripeteva solo la stessa identica frase: “prendete il mio cellulare, ci lavoro con quello”

Non spese neanche una parola per la piccola vita stroncata. Aaron sentì, però, le parole dell’uomo; non voleva crederci, non poteva credere che una persona potesse scendere così in basso, preoccuparsi per la sua carriera piuttosto che della vita di una povera anima, che non potrà essere più vissuta. I suoi occhi si strinsero fino a divenire unicamente due punti in un oceano di dolore e lacrime. In quella confusione generale, e nell’odio più puro che potesse provare, trovò un’ancora di salvezza nella catenina della sorella, ora immersa nel suo sangue, vicino la ruota dell’auto. Probabilmente persa dalla piccola nell’impatto. La strinse forte a sé, e maturò, allora più che mai, un fermo e solido odio verso l’intera umanità, giurando che l’avrebbe presto fatta pagare a tutti quegli esseri meschini che facevano del male al prossimo,  o che vivevano la loro vita, sprecandola nel nulla più assoluto.


Con questa promessa e con questo ricordo, tornò alla realtà; risalì il limbo nel quale era caduto, pronto a spazzare via ogni essere indegno, prendendo atto di una nuova identità, e una nuova risolutezza. Nell’attimo in cui tornò al presente, Oliver si alzò di scatto dal divano, sudando incredibilmente, e agitato più che mai. Sanguinante all’addome, e noncurante delle ferite, si diresse verso l’ingresso, cercando l’attenzione di Naoko e del suo insegnante, entrambi attenti allo scontro tra Shin e Juro. Barcollando, poggiandosi ora su un muro, ora sulla libreria, che percorreva quasi interamente il corridoio di ingresso, arrivò ansimante sull’uscio della porta. Continuava, orami da un po’, a ripetere che dovevano fermarlo, ma nessuno dei due capì le sue parole, non subito almeno. Il maestro aveva il volto perplesso; cercava di capire le parole, quasi sconnesse del ragazzo. Shin nel frattempo aveva finito lo scontro, almeno apparentemente, contro Juro. Si voltò verso di loro, domandandosi cosa stesse accadendo. Nessuno però si accorse che Aaron non era più seduto sulle scale, e non notarono neanche tutto il circondato che, brulicante di oscurità, si stava smaterializzando, diventando un nulla.. lo stesso nulla da cui era nato. Il cielo si stava riempiendo ormai di una sottile polvere nera, la luce del sole, che aveva prima illuminato il volto di Shin era quasi del tutto offuscata.

Con una pressione incredibile su di lui, Shin si girò violentemente sentendo una presa inaudita sul suo braccio sinistro. I suoi presupposti si rivelarono fondati; ma ormai era tardi. Fissò negli occhi Aaron, occhi che non avevano più una consistenza “reale”, erano completamente neri; persino la sclera non aveva più il suo tipico colore bianco.
Con quegli occhi neri fissò di rimando Shin, con un volto che emanava sdegno e incomprensione, la stessa incomprensione che provò il ragazzo, verso lo strano atteggiamento di Aaron.

-Sembra che ti manca il coraggio necessario per fare la scelta più ovvia, o sbaglio?- disse, quest’ultimo, con uno sguardo impassibile e freddo. La sua mano iniziò a tingersi i contorni di viola, così come il resto del suo corpo; la sua aura fece riaccendere, scintillante, quella di Shin, che si sentì mancare subito le forze e cadde a terra, privo di sensi.

-È il momento di porre fine a questa inutile perdita di tempo!- continuò Aaron, risoluto nelle sue azioni, ponendo lo sguardo verso Juro che, ancora in ginocchio, seguiva la scena, incapace di muoversi o controbattere. Il colpo inferto da Shin, con quel guanto, lo aveva debilitato al massimo, non riusciva neanche più a rigenerarsi, ma sapeva che quello era l’ultimo dei suoi problemi. Aaron camminò lentamente verso di lui, poteva scorgere nei suoi occhi la paura di morire; persino l’egocentrico Juro stava per essere definitivamente schiacciato da un potere che ancora non si era spiegato, ma che lo spaventava.. forse più della morte stessa. Non riuscì a replicare, i suoi occhi, però, parlarono per lui, ma inutilmente. Aaron allungò la sua agonia, muovendo verso di lui con una lentezza straziante. La mano tesa verso il suo volto, con leggeri filamenti viola pendenti da ogni estremo delle singole dita; filamenti che si muovevano come serpenti verso la loro vittima, verso una nuova vita da stroncare. Juro ripensò in quegli attimi, come una persona ripassa la sua vita nell’istante in cui la morte sopraggiunge, alle parole –quasi profetiche- di Gabriel, l’uomo incappucciato che fermò, la notte prima, lo scontro tra Juro stesso e Aaron. Capì la verità che si celava dietro quell’avvertimento, ma in ritardo. Disperatamente cercò di rimettersi in piedi, ma le ossa non glielo permisero, come se anche loro avessero ormai accettato il loro destino. Delle gocce di sudore cominciarono a scendere lungo il volto, seguendo i lineamenti del naso, prima, e del labbro, poi; labbro che tremava senza controllo, come mai aveva fatto fin’ora. -*Come può accadere una cosa simile*- pensò, ansimando nel suo stesso pensiero. Ripensando ai colpi inferti dal ragazzo durante lo scontro. Al suo colpo fermato da Gabriel. A lui che, dall’alto dell’elicottero, vedeva la sagoma di Aaron rimpiccolirsi sempre più. Era sicuro della sua superiorità nei confronti del ragazzo, ma era l’unico a pensarlo. Voleva supplicare parole di perdono, ma non ci riuscì. Non aveva neanche il coraggio di pensarle, era troppo egocentrico per farlo. Così, l’agonia s’interruppe nell’istante in cui la mano toccò la sua fronte, con gli occhi, tremanti, rivolti verso quest’ultima, nella vana speranza che si fosse fermata, risparmiandolo. Allora Naoko e il Maestro si voltarono, seguendo la linea che partiva dal braccio di Oliver, che indicava appunto la posizione in cui si trovavano Aaron e Shin, spaventato, alquanto, da quello che stava accadendo. Il contatto con la fronte di Juro creò un onda d’urto dalle sembianze del ragazzo stesso, come se il suo spirito stesse lasciando quel corpo, ancora in ginocchio per terra. Lentamente, piccoli granuli del suo corpo, partendo dai capelli e proseguendo lungo la schiena, si alzarono in volo. Il suo corpo si stava disintegrando pian piano, proprio come accadde a quel ragazzo in centro, qualche giorno prima. Non si sentiva nessuno stramazzo, Juro non avvertiva dolore, ma solo la struggente consapevolezza di essere impotente contro quel nemico; deriso fino a qualche ora prima. In quel momento l’alba lasciò lo spazio al primo mattino, il sole si era già allontanato dall’orizzonte. Nel cielo si levò l’ultimo granello di polvere nera.. l’ultimo brandello dell’essenza di Juro, che lasciava definitivamente spazio alla luce del nuovo giorno.. e del nuovo inizio.

   
 
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