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Autore: MedusaNoir    03/06/2013    1 recensioni
A Roma Giovanni e Matteo gestiscono un negozio di fumetti, ma sono anche soci di un'associazione ludica dove spesso alcuni ragazzi dell'Eur si ritrovano per giocare di ruolo. Marta, goffa e testarda, cerca di seguire più serie tv possibili, finendo così per pensare per citazioni; Leonardo è timido, ma gli basta parlare di "Game of Thrones" per dimenticare di avere davanti un'altra persona; Stefania, ventun'anni, è la più piccola del gruppo e cerca di mascherare con un atteggiamento scostante l'insicurezza che deriva dall'avere un corpo massiccio e troppo lontano dai canoni della bellezza; Roberto è manipolatore e detesta essere battuto, che si tratti di giochi da tavola o di scommesse.
Tra feste nel negozio di fumetti, giochi e vacanze di ruolo - ma senza dimenticare la vita universitaria o domestica che scorre intorno ai protagonisti, divorzi, esami e amori inaspettati - i sei ragazzi si troveranno ad affrontare le loro paure e, chissà, forse anche a superarle.
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Amore è una parola grossa. Mica tanto, sono cinque lettere

Matteo aveva sonno.

Aveva provato con tutto: due tazze di camomilla, un pacco di Gocciole, una puntata in lingua originale di Naruto – ma aveva dimenticato che guardare qualcosa che lo disgustava non gli metteva noia, bensì lo teneva ancora più sveglio, facendogli perdere le staffe. Non era servito niente, continuava a tenere lo sguardo fisso al soffitto bianco della sua camera, gli occhi arrossati per la stanchezza. Controllò l’ora sul cellulare.

Le due e mezza.

Le due e mezza e lui si ostinava a non prendere sonno! Matteo era sempre stata una persona mattiniera e amava andare a dormire presto – non oltrepassava quasi mai il primo giro d’orologio dopo la mezzanotte e quando lo faceva crollava sul tavolo della cucina, con Torchwood inserito nel lettore DVD. Quando si risvegliava il capitano Jack era tornato dalla morte, ancora.

Sapeva, però, cosa lo tenesse ancora sveglio. Ogni volta che abbassava le palpebre per più di tre secondi, nella mente si formava la sua immagine nel periodo peggiore della sua vita – quando lo aveva trascinato con sé nel buio; sentiva piangere nella stanza di fronte alla sua, ma quando riapriva gli occhi e, di malavoglia, correva a controllare, il pianto cessava e nella camera ormai vuota non c’era nessuno da consolare. Tuttavia non fingeva mai di non udire niente, preferiva accertarsi dell’assenza di altre persone in casa.

Aveva chiamato, quel pomeriggio. La sua voce era agitata e sembrava che… Già, lo sembrava davvero, Matteo ci avrebbe scommesso. Lui aveva avvertito più di un pugno nello stomaco, una raffica che nemmeno un monaco di dodicesimo livello sarebbe riuscito a infliggergli; si era sentito affranto per ciò che aveva immaginato fosse accaduto e, inaspettatamente, lo aveva colpito anche la notizia che quel venerdì avrebbe potuto masterizzare la nuova campagna. Faceva male, perché dopo l’agitazione iniziale si era abituato all’idea di passare il fine settimana – il giorno di Pasqua – in compagnia.

Avrebbe potuto anche organizzare un bel pranzo pasquale, cucinando per le persone a cui, un tempo, aveva tenuto tanto – un tempo oscuro, da dimenticare, un periodo che l’aveva messo a dura prova e si era preso più volte gioco di lui. Non aveva voluto dirlo nel corso della telefonata, ma aveva già comprato una colomba e un uovo di Pasqua al cioccolato fondente; si era assicurato che potesse contenere una bella sorpresa e, per precauzione, sulla strada del ritorno aveva acquistato anche un regalo.

«Non cambierà mai, Matteo.»

Quando Giovanni, fissandolo con serietà, gli aveva detto quella straziante verità che lui tentava di tenere nascosto a se stesso, Matteo gli aveva inveito contro, dandogli dell’idiota, urlandogli che lui non ne poteva sapere niente e che doveva pensare solo alla sua perfetta vita con Caterina, invece di rompergli le palle. Il suo amico non aveva voluto discutere oltre, si era limitato ad abbassare il capo, sconfitto, e a lasciare il pub dove si erano visti; sul momento Matteo credeva di avere ottenuto una vittoria, ma prendersela con qualcuno lo aveva fatto stare bene solo fino alla mattina successiva. Per sua fortuna Giovanni non amava serbare rancore: lo aveva accolto in casa quando lui aveva capito quanto avesse ragione, aveva lasciato che si sfogasse e piangesse anche su quel divano bianco che era stato il primo acquisto della famiglia Nizzi. Se ci pensava, Matteo provava vergogna, non tanto per i singhiozzi e le lacrime che aveva mostrato al suo amico, quanto per essere stato tanto stupido e fiducioso.

E – si odiava per questo – a distanza di anni si era scoperto a sperare di nuovo.

«È saltato tutto, non serve che venga a Roma venerdì.»

«Perché? Hai…?»

«Devo per forza aver fatto qualcosa io?!»

«No, scusami, non intendevo…»

«Mi sembra giusto, no? Chi sbaglia una volta deve per forza sbagliare per sempre!»

«Ascolta…»

«Non pensavo che fossi così!»

«Mi faceva piacere vedervi!»

«Vaffanculo te e fanculo anche le tue cazzate! Ci hai buttati tu fuori dalla tua vita, che cazzo vuoi adesso?!»

Matteo seppellì la faccia nel cuscino, cercando di trattenere la rabbia: non doveva permettersi di spaccare ancora un’altra cornice, aveva già distrutto sette miniature e la sedia della scrivania. Doveva contenersi, non poteva lasciare che tornasse a oscurare la sua vita anche a chilometri di distanza. Serrò le palpebre e cercò di dormire, ignorando i singhiozzi provenienti dalla stanza di fronte.

Il pianto continuava, incessante, anche dopo diversi minuti; Matteo era certo di essere entrato nel dormiveglia.

Si stava facendo più basso, ma sembrava cullarlo, seguendo un ritmo. Un ritmo fin troppo simile al tema di Dead Space.

Che era anche la suoneria del suo cellulare.

Lo cercò a tentoni sul comodino, agitandosi all’idea che potesse chiamarlo di nuovo. Quando lo trovò tirò un sospiro di sollievo e allo stesso tempo sentì una stretta agguantargli lo stomaco, in un tripudio di emozioni contrastanti come quelle che avevano caratterizzato quel passato da dimenticare.

Marta.

Cosa poteva volere da lui a quell’ora? Erano quasi le tre! E si stava finalmente addormentando, maledizione.

Rispose automaticamente, senza riflettere, e subito se ne pentì.

«Mh… pronto?»

La voce che giunse dall’altra parte era gioviale e si distingueva a malapena dalle risate di sottofondo. «Matteo?»

Lui si sfregò gli occhi stanchi. «Marta? Cosa c’è?»

Marta rise, mentre una ragazza le gridava: «Dai, chiediglielo!»

«Dove sei?» domandò invece Matteo.

«Con una mia amica!»

«Dove, non con chi

«Non ti importa con chi sono?»

Sembrava urtata. E lui era stufo delle persone che si urtavano per una constatazione o una domanda del tutto normale.

«Sì, mi importa, perché se mi chiami alle tre di notte non posso che immaginarti in pericolo e preda di qualche maniaco!»

«Ti preoccupi?»

«E su, diglielo!»

Stava perdendo la pazienza. Se lo aveva chiamato per qualche sciocchezza…

«Ti va di uscire con me?»

«No, non mi va e non mi andrà mai, e ora lasciami in pace!»

Chiuse la chiamata e lanciò il cellulare, che si andò a schiantare contro una delle miniature miracolosamente ancora in piedi – almeno fino a un attimo prima – e si nascose sotto le coperte, augurandosi che nessuna pazza ubriaca o fuori di testa avesse ancora intenzione di guastargli il sonno.

 

 

«Oh, hai trovato la casa.»

«Pensavi fossi così idiota da perdermi?»

Leonardo la considerava una stupida, era evidente. O forse era lui troppo scemo da formulare un saluto decente come: «Benvenuta, entra pure.»

«Non intendevo…»

«Mi lasci entrare?»

Non aspettò una risposta, ma lo superò portando in braccio un cumulo di stoffe.

«Dove ci mettiamo?» urlò da quella che dedusse essere la cucina.

«Camera mia?»

Stefania lo fulminò con lo sguardo non appena Leonardo la raggiunse, ma dopo qualche attimo di riflessione decise che poteva andar bene. Annuì e aspettò che lui le mostrasse la strada.

«Stai per dirmi che non è un granché, ma è casa?» lo provocò, incapace di comportarsi gentilmente con il ragazzo. «Ti avverto che non ti dirò che è magnifica.»

Però dovette ammettere che lo era, o almeno un po’. Se solo il grigio e il nero degli Stark non avessero dominato l’intera stanza. Il letto era posizionato al centro della camera e sopra di esso svettava lo stemma della casa che-perdeva-un-membro-ogni-anno di Westeros – Stefania ebbe un moto d’orgoglio, come se fosse merito suo il dominio dei Lannister e la tragedia del Nord – mentre una delle pareti grigie a lato era occupata da una libreria nera colma di fantasy, DVD di Harry Potter e della prima stagione di Game of Thrones e una pila in apparenza interminabile di giochi per la Xbox, che giaceva in un angolo accanto al televisore.

«Dovresti sostituire il nero con l’oro» suggerì Stefania, abbandonando le stoffe sul letto. E il grigio con il rosso, direi. Cambia un po’ tutto, va’, ché è meglio.»

«Cosa sono?»

«Che ti sembrano, elfo senza il Nord? L’occorrente per preparare il costume.»

Leonardo parve combattere tra il desiderio di chiudere la porta per evitare eventuali intrusioni – quell’appartamento era troppo grande per una sola persona – e la consapevolezza che Stefania gli avrebbe rivolto un’altra osservazione tagliente. Effettivamente quella osservazione era già sulla sua lingua, pronta a manifestarsi, ma alla fine il ragazzo scelse di lasciare la porta spalancata. Si avvicinò alla scrivania e aprì uno dei quattro cassetti, estraendo un kit per il cucito, poi si sedette sul bordo del letto.

«Hai sempre un nuovo nomignolo per me?»

«Eh?»

In realtà Stefania aveva capito benissimo, ma voleva far pensare a Leonardo che ogni modo con cui sceglieva di chiamarlo fosse inventato al momento; al contrario si esercitava a casa, quando non aveva di meglio da fare, a dare soprannomi a tutti i suoi conoscenti. Quasi nessuno aveva ricevuto un nomignolo positivo.

Leonardo cambiò discorso. «Dobbiamo… beh, dobbiamo.»

«Dobbiamo cosa?» gli chiese Stefania, confusa.

Lui si guardò intorno, abbassò lo sguardo a terra e concluse: «Dobbiamo prendere le misure.»

«Pensi davvero che mi spoglierei davanti a te?» sibilò Stefania, fissandolo in cagnesco.

«Non usare il condizionale, dovrai farlo per forza. Mi dispiace, non vorrei, ma devo misurarti e…»

«Sei un idiota.»

«Pensi che mi faccia piacere vederti nuda?»

Stefania sgranò gli occhi, mentre un’ombra le attraversava il volto; Leonardo non sembrava essersi reso conto di ciò che aveva appena detto e questo confermò la sua ipotesi: non pensava di avere fatto una gaffe, avrebbe preferito davvero evitare di vedere la sua pelle strabordare dalle mutande.

«Ti fa schifo perché sono grassa?»

Fu il turno di Leonardo di fissarla con sorpresa. «No, ma… ecco… non ci avevo…»

«Non ci avevi pensato, certo» soffiò lei con rabbia.

«Sei una ragazza, non voglio vederti nuda!»

Stefania aggrottò la fronte, presa alla sprovvista da quell’esclamazione: il ragazzo era avvampato ancora di più e la guardava, in attesa forse che lo scagionasse da tutte le accuse.

«Scusa» si ritrovò inaspettatamente a chiedere.

“Non pensavo fossi ancora un bambino” avrebbe voluto aggiungere, ma forse il motivo della sua reazione era un altro e non voleva rischiare di essere lei a fare un’enorme gaffe. Estrasse un foglietto scarabocchiato dalla tasca e glielo porse.

«Sono le misure, le avevo prese a casa. Dovrebbero esserci tutte.»

Lasciò che Leonardo le leggesse, poi rovistò con lui nella montagna di stoffe.

Non passarono un pomeriggio tanto brutto come aveva temuto; Leonardo sapeva essere passabile quando svolgeva un lavoro, dimenticando perfino la sua timidezza. Tagliarono e cucirono per un paio d’ore – possibile che avesse anche una macchina da cucire in camera? – con il piacevole sottofondo della colonna sonora di Game of Thrones inserita nello stereo.

«Perché gli Stark?» chiese Stefania di punto in bianco, mentre Leonardo l’aiutava a controllare la lunghezza della manica.

«Eddard» rispose lui di getto, segnando con il gesso il punto in cui avrebbe dovuto tagliare la stoffa blu. «Mi piace che metta l’onore al primo posto.»

«Mettesse» lo corresse Stefania con un sogghigno. «Avrebbe dovuto farlo sempre: vai contro l’onore una volta e vedi come rotola la tua testa.»

«La colpa è vostra.»

Sollevò un sopracciglio. «Nostra?»

«Solo una Lannister parlerebbe così. È stato Joffrey a far uccidere Ned.»

Si strinse nelle spalle. «Qualche disgraziato può capitare in famiglia, ma noi abbiamo Tywin. Abbiamo Jaime. Tyrion

«Il nano?» ridacchiò Leonardo.

«Meglio nano che decapitato» ribatté Stefania, stizzita.

“Perlomeno abbiamo qualcosa in comune” dovette ammettere. “Peccato che tifi per gli Stark, un motivo in più per scannarci ogni volta che ci vedremo. Mi sa che farò fuori il suo mago domani sera, se non riesce a creare un vestito decente.”

«Vuoi qualcosa?» le chiese Leonardo, alzandosi dal letto e lisciandosi i jeans. «Una fetta di torta?»

«Un tè andrà bene.»

«Ma la torta è buona, l’ha fatta uno dei miei coinquilini…»

«Stark» lo riprese Stefania, indicandosi. «Mi hai vista?»

Leonardo avvampò e si passò una mano fra i capelli neri. «Un… tè, allora. Quale vuoi?»

«Quali hai?» Si alzò anche lei e lo precedette in cucina. «Fammi vedere.»

«Sono là, dietro le tazze…»

«Qui? Ah, no, ecco. Ehi,» esclamò, sollevando una tazza con il cervo dei Baratheon, «e questa? È dei tuoi coinquilini?»

Inaspettatamente, invece di risponderle balbettando o dirle che apparteneva a uno di loro, Leonardo le strappò la tazza dalle mani, livido in volto, e la rimise a posto. Poi abbassò lo sguardo, avvicinandosi mestamente al lavandino.

«Cos’era quello?» gli chiese Stefania, confusa.

«Una tazza.»

«Beh, sì, l’avevo notato. Cos’era quel gesto

Leonardo riempì un bricco d’acqua e lo mise sul gas, lasciando passare qualche secondo prima di rispondere evasivamente: «Apparteneva a qualcuno che l’ha dimenticata qui.»

“Come me” sembrava aggiungere con amarezza il suo tono piatto. Stefania non fece ulteriori domande, capendo di poter toccare un tasto molto delicato, e si sedette in attesa di un tè che, alla fine, non aveva neanche scelto.

 

 

A Roberto, dopotutto, piaceva lavorare in officina: suo padre era un bravo datore di lavoro che gli garantiva lo stipendio ogni mese, era divertente armeggiare con i motori e l’università – per grazia divina – non aveva mai fatto parte dei suoi piani. Certo, aveva detto a Marta che avrebbe desiderato frequentarla, ma c’era forse qualcosa di male nel farle provare un po’ di pietà per lui, costretto a lavorare quasi tutti i giorni dalla mattina alla sera nell’officina di famiglia?

Se avesse dovuto scegliere un motivo per cui detestare quell’impiego, sicuramente sarebbe stata la sensazione del grasso sulle mani che non accennava ad andarsene neanche dopo una doccia; sparivano i segni, spariva l’odore per lui nauseante, ma la consapevolezza di essersi sporcato non lo abbandonava. Non importava, in fondo: gran parte delle volte – e anche grazie ai due zii che lavoravano con loro – Roberto poteva prendere giorni di ferie senza che suo padre sbraitasse troppo. Aveva inoltre una scusa per non essere in grado di seguire le serie televisive del momento.

Già, non avrebbe scambiato il suo lavoro per qualsiasi università – a meno che non fosse frequentata solo da donne libidinose in attesa di un aitante venticinquenne pronto a soddisfare ogni loro voglia.

«Mamma voleva sapere se tua cugina viene a cena da noi» esordì suo padre, affacciandosi dalla seconda stanza dell’officina con il cellulare vicino all’orecchio.

Roberto si passò una mano sulla fronte sudata. «Alle otto e mezza come al solito» rispose. «E non chiamarla “cugina”.»

Detestava quando i suoi definivano così Viola. D’accordo, da un paio di anni sua madre si era sposata con uno dei cinque fratelli di Giuseppe Trani, ma Viola faceva parte della sua vita da… sempre? Avevano frequentato insieme la scuola materna, le elementari e le medie, dividendosi solo per le superiori; erano andati quasi ogni estate in vacanza insieme, e questo aveva contribuito a far conoscere i due futuri sposi; erano perfino nati nella stessa settimana e Roberto aveva scommesso che le loro madri fossero nella stessa stanza d’ospedale, per quanto Maria avesse più volte ripetuto al figlio di non avere conosciuto la madre di Viola prima di diversi mesi dalla loro nascita.

Viola sarebbe andata a cena da lui come ogni settimana anche se non fosse diventata la sua “cuginastra”, ma i suoi sembravano dimenticarlo in continuazione.

“E so bene perché” si disse Roberto, armeggiando con una Yamaha.

Amava il suo lavoro, ma quel giorno non vedeva l’ora di tornare a casa: era in officina dalle nove di mattina e si era già occupato di altre due moto, adesso l’unica cosa che desiderava era che arrivasse l’orario di chiusura per infilarsi sotto il letto con una bella scorta di hentai e Bohemian Rhapsody nelle orecchie, prima che Viola irrompesse nella sua stanza per conoscere le ultime novità.

Avrebbe voluto farlo, già, se solo le “ultime novità” non fossero improvvisamente apparse sul marciapiede che dava sull’officina. Marta stava controllando l’insegna e indossava una maglietta molto più carina di quelle che solitamente le vedeva addosso: nessun riferimento nerd, ma solo una scollatura che metteva in evidenza il suo piccolo seno. Nonostante avesse un debole per la quarta abbondante, Roberto pensava che la seconda misura di Marta lo stuzzicasse così tanto perché lo rendeva ai suoi occhi ancora più diverso di quello che lei si sarebbe aspettata – o, in altre parole, di quello che era realmente.

«Marta!» esclamò, passandosi l’avambraccio sulla fronte scoperta. Grasso, sì, ma un grasso che lo rendeva più appetibile a persone come Marta. «Che ci fai qui?»

Lei sorrise timidamente e, avvicinandosi, Roberto notò il solco delle occhiaie. «Ero all’università e ho pensato di passare.»

“Oh, piccola mia, devo insegnarti a dire bugie.”

Maglietta scollata: Marta non gli sembrava il tipo di ragazza che si recava alle lezioni così, soprattutto in una giornata tanto fredda.

Borsa: era troppo piccola per contenere un libro o anche solo un quaderno.

Occhiaie: la sera prima aveva fatto baldoria.

Roberto non leggeva Doyle, ma era piuttosto sicuro di aver fatto centro.

«Scusami, ti saluterei con un abbraccio, ma non voglio sporcarti.»

“Meglio enfatizzare di essere sudicio. Beh, non proprio sudicio, un po’ sporco. Quel che basta a far eccitare le donne.”

«Apprezzo il pensiero» disse Marta con un sorriso.

Roberto sorrise a sua volta e poi gridò al padre: «Vado a fare un giro!»

«No, non serve che ti allontani dal lavoro…» tentennò Marta. Si portò una mano alla bocca per torturarsi le unghie. «Volevo solo, ecco…»

“Strana reazione, qui c’è di mezzo qualcosa.”

«Non fa niente, tanto sono qui dalle nove. Vado un attimo in bagno a darmi una pulita, tanto ho dietro il cambio, e poi andiamo a berci un aperitivo, che ne dici? O passiamo in libreria, così ne approfitto per cercare un libro.»

«D’accordo.»

Mentre si allontanava verso il bagno, Roberto si disse che doveva inventare un titolo. Poteva ammettere che voleva portarla in libreria per farle passare un’oretta in uno dei posti che, a sentire i resoconti di Stefania, Marta preferiva, ma era più divertente farle pensare che fosse lui a doverci andare.

“Gusti in comune, anche se per finta.”

Afferrò il cellulare e mandò un sms a Viola: “Potrei fare tardi, pensa tu ai miei. Novità in arrivo!”

Le cose stavano andando meglio del previsto.


SESTO CAPITOLO

 

Il titolo è un dialogo di Skins.

 

MATTEO:

- Il Capitano Jack è il protagonista di Torchwood.

- Dead Space è un videogioco.

 

STEFANIA:

- Westeros è il continente occidentale in cui è ambientato Game of Thrones/ASOIAF.

- Rosso e oro sono i colori dei Lannister.

- “elfo senza il Nord”: gli Stark, all’inizio della saga, erano protettori del Nord. Erano, appunto.

- Baratheon: casata di ASOIAF.


SPAZIO AUTRICE

 

Ho aggiornato in mega-ritardo, (quasi) tutta colpa del POV di Stefania, che mi ha dato diversi problemi. Scusatemi, stasera comincio a scrivere il prossimo capitolo così da averlo già pronto!

Sto inserendo man mano nuovi personaggi e creando dei “misteri”… Forse niente di che, ma non volevo creare una storia piatta. Nel prossimo capitolo tornerà il gioco di ruolo: verrà narrato, in parte, ma non prenderà l’intero capitolo.

E qui invece ho citato in continuazione GOT, altro che DW. Ma di che altro posso far parlare Stefania e Leonardo, al momento? u.u

Viola, Viola… Sì, l’avevo già citata un paio di volte e sì, apparirà nel corso della storia, ma non sarà un personaggio fondamentale (perlomeno non lo è al momento).

Grazie per aver letto ^^

 

Medusa

   
 
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