Amore
è una parola grossa. Mica tanto, sono
cinque lettere
Matteo
aveva sonno.
Aveva
provato con tutto: due tazze di camomilla, un pacco di Gocciole, una
puntata in
lingua originale di Naruto
– ma aveva
dimenticato che guardare qualcosa che lo disgustava non gli metteva
noia, bensì
lo teneva ancora più sveglio, facendogli perdere le staffe.
Non era servito
niente, continuava a tenere lo sguardo fisso al soffitto bianco della
sua
camera, gli occhi arrossati per la stanchezza. Controllò
l’ora sul cellulare.
Le
due e mezza.
Le
due e mezza e lui si ostinava a non prendere sonno! Matteo era sempre
stata una
persona mattiniera e amava andare a dormire presto – non
oltrepassava quasi mai
il primo giro d’orologio dopo la mezzanotte e quando lo
faceva crollava sul
tavolo della cucina, con Torchwood
inserito nel lettore DVD. Quando si risvegliava il capitano Jack era
tornato
dalla morte, ancora.
Sapeva,
però, cosa lo tenesse ancora sveglio. Ogni volta che
abbassava le palpebre per
più di tre secondi, nella mente si formava la sua
immagine nel periodo peggiore della sua vita – quando lo
aveva
trascinato con sé nel buio; sentiva piangere nella stanza di
fronte alla sua,
ma quando riapriva gli occhi e, di malavoglia, correva a controllare,
il pianto
cessava e nella camera ormai vuota non c’era nessuno da
consolare. Tuttavia non
fingeva mai di non udire niente, preferiva accertarsi
dell’assenza di altre
persone in casa.
Aveva
chiamato, quel pomeriggio. La sua voce era agitata e sembrava
che… Già, lo sembrava
davvero, Matteo ci avrebbe
scommesso. Lui aveva avvertito più di un pugno nello
stomaco, una raffica che
nemmeno un monaco di dodicesimo livello sarebbe riuscito a
infliggergli; si era
sentito affranto per ciò che aveva immaginato fosse accaduto
e,
inaspettatamente, lo aveva colpito anche la notizia che quel
venerdì avrebbe
potuto masterizzare la nuova campagna. Faceva male, perché
dopo l’agitazione iniziale
si era abituato all’idea di passare il fine settimana
– il giorno di Pasqua –
in compagnia.
Avrebbe
potuto anche organizzare un bel pranzo pasquale, cucinando per le
persone a
cui, un tempo, aveva tenuto tanto – un tempo oscuro, da
dimenticare, un periodo
che l’aveva messo a dura prova e si era preso più
volte gioco di lui. Non aveva
voluto dirlo nel corso della telefonata, ma aveva già
comprato una colomba e un
uovo di Pasqua al cioccolato fondente; si era assicurato che potesse
contenere
una bella sorpresa e, per precauzione, sulla strada del ritorno aveva
acquistato anche un regalo.
«Non
cambierà mai,
Matteo.»
Quando
Giovanni, fissandolo con serietà, gli aveva detto quella
straziante verità che
lui tentava di tenere nascosto a se stesso, Matteo gli aveva inveito
contro,
dandogli dell’idiota, urlandogli che lui non ne poteva sapere
niente e che
doveva pensare solo alla sua perfetta vita con Caterina, invece di
rompergli le
palle. Il suo amico non aveva voluto discutere oltre, si era limitato
ad abbassare
il capo, sconfitto, e a lasciare il pub dove si erano visti; sul
momento Matteo
credeva di avere ottenuto una vittoria, ma prendersela con qualcuno lo
aveva
fatto stare bene solo fino alla mattina successiva. Per sua fortuna
Giovanni
non amava serbare rancore: lo aveva accolto in casa quando lui aveva
capito
quanto avesse ragione, aveva lasciato che si sfogasse e piangesse anche
su quel
divano bianco che era stato il primo acquisto della famiglia Nizzi. Se
ci
pensava, Matteo provava vergogna, non tanto per i singhiozzi e le
lacrime che
aveva mostrato al suo amico, quanto per essere stato tanto stupido e
fiducioso.
E
– si odiava per questo – a distanza di anni si era
scoperto a sperare di nuovo.
«È
saltato tutto, non
serve che venga a Roma venerdì.»
«Perché?
Hai…?»
«Devo
per forza aver
fatto qualcosa io?!»
«No,
scusami, non
intendevo…»
«Mi
sembra giusto, no?
Chi sbaglia una volta deve per forza sbagliare per sempre!»
«Ascolta…»
«Non
pensavo che fossi
così!»
«Mi
faceva piacere
vedervi!»
«Vaffanculo
te e
fanculo anche le tue cazzate! Ci hai buttati tu fuori dalla tua vita,
che cazzo
vuoi adesso?!»
Matteo
seppellì la faccia nel cuscino, cercando di trattenere la
rabbia: non doveva
permettersi di spaccare ancora un’altra cornice, aveva
già distrutto sette miniature
e la sedia della scrivania. Doveva contenersi, non poteva lasciare che
tornasse
a oscurare la sua vita anche a chilometri di distanza. Serrò
le palpebre e cercò
di dormire, ignorando i singhiozzi provenienti dalla stanza di fronte.
Il
pianto continuava, incessante, anche dopo diversi minuti; Matteo era
certo di
essere entrato nel dormiveglia.
Si
stava facendo più basso, ma sembrava cullarlo, seguendo un
ritmo. Un ritmo fin
troppo simile al tema di Dead Space.
Che
era anche la suoneria del suo cellulare.
Lo
cercò a tentoni sul comodino, agitandosi all’idea
che potesse chiamarlo di
nuovo. Quando lo trovò tirò un sospiro di
sollievo e allo stesso tempo sentì
una stretta agguantargli lo stomaco, in un tripudio di emozioni
contrastanti
come quelle che avevano caratterizzato quel passato da dimenticare.
Marta.
Cosa
poteva volere da lui a quell’ora? Erano quasi le tre! E si
stava finalmente
addormentando, maledizione.
Rispose
automaticamente, senza riflettere, e subito se ne pentì.
«Mh…
pronto?»
La
voce che giunse dall’altra parte era gioviale e si
distingueva a malapena dalle
risate di sottofondo. «Matteo?»
Lui
si sfregò gli occhi stanchi. «Marta? Cosa
c’è?»
Marta
rise, mentre una ragazza le gridava: «Dai,
chiediglielo!»
«Dove
sei?» domandò invece Matteo.
«Con
una mia amica!»
«Dove,
non con chi.»
«Non
ti importa con chi sono?»
Sembrava
urtata. E lui era stufo delle persone che si urtavano per una
constatazione o
una domanda del tutto normale.
«Sì,
mi importa, perché se mi chiami alle tre di notte non posso
che immaginarti in
pericolo e preda di qualche maniaco!»
«Ti
preoccupi?»
«E
su, diglielo!»
Stava
perdendo la pazienza. Se lo aveva chiamato per qualche
sciocchezza…
«Ti
va di uscire con me?»
«No,
non mi va e non mi andrà mai, e ora lasciami in
pace!»
Chiuse
la chiamata e lanciò il cellulare, che si andò a
schiantare contro una delle
miniature miracolosamente ancora in piedi – almeno fino a un
attimo prima – e
si nascose sotto le coperte, augurandosi che nessuna pazza ubriaca o
fuori di
testa avesse ancora intenzione di guastargli il sonno.
♠
«Oh,
hai trovato la casa.»
«Pensavi
fossi così idiota da perdermi?»
Leonardo
la considerava una stupida, era evidente. O forse era lui troppo scemo
da
formulare un saluto decente come: «Benvenuta, entra
pure.»
«Non
intendevo…»
«Mi
lasci entrare?»
Non
aspettò una risposta, ma lo superò portando in
braccio un cumulo di stoffe.
«Dove
ci mettiamo?» urlò da quella che dedusse essere la
cucina.
«Camera
mia?»
Stefania
lo fulminò con lo sguardo non appena Leonardo la raggiunse,
ma dopo qualche
attimo di riflessione decise che poteva andar bene. Annuì e
aspettò che lui le
mostrasse la strada.
«Stai
per dirmi che non è un granché, ma è
casa?» lo provocò, incapace di comportarsi
gentilmente con il ragazzo. «Ti avverto che non ti
dirò che è magnifica.»
Però
dovette ammettere che lo era, o almeno un po’. Se solo il
grigio e il nero degli
Stark non avessero dominato l’intera stanza. Il letto era
posizionato al centro
della camera e sopra di esso svettava lo stemma della casa
che-perdeva-un-membro-ogni-anno
di Westeros – Stefania ebbe un moto d’orgoglio,
come se fosse merito suo il
dominio dei Lannister e la tragedia del Nord – mentre una
delle pareti grigie a
lato era occupata da una libreria nera colma di fantasy, DVD di Harry Potter e della prima stagione di Game of Thrones e una pila in apparenza
interminabile di giochi per la Xbox, che giaceva in un angolo accanto
al
televisore.
«Dovresti
sostituire il nero con l’oro» suggerì
Stefania, abbandonando le stoffe sul
letto. E il grigio con il rosso, direi. Cambia un po’ tutto,
va’, ché è
meglio.»
«Cosa
sono?»
«Che
ti sembrano, elfo senza il Nord? L’occorrente per preparare
il costume.»
Leonardo
parve combattere tra il desiderio di chiudere la porta per evitare
eventuali
intrusioni – quell’appartamento era troppo grande
per una sola persona – e la
consapevolezza che Stefania gli avrebbe rivolto un’altra
osservazione
tagliente. Effettivamente quella osservazione era già sulla
sua lingua, pronta
a manifestarsi, ma alla fine il ragazzo scelse di lasciare la porta
spalancata.
Si avvicinò alla scrivania e aprì uno dei quattro
cassetti, estraendo un kit
per il cucito, poi si sedette sul bordo del letto.
«Hai
sempre un nuovo nomignolo per me?»
«Eh?»
In
realtà Stefania aveva capito benissimo, ma voleva far
pensare a Leonardo che
ogni modo con cui sceglieva di chiamarlo fosse inventato al momento; al
contrario si esercitava a casa, quando non aveva di meglio da fare, a
dare
soprannomi a tutti i suoi conoscenti. Quasi nessuno aveva ricevuto un
nomignolo
positivo.
Leonardo
cambiò discorso. «Dobbiamo… beh,
dobbiamo.»
«Dobbiamo
cosa?» gli chiese Stefania, confusa.
Lui
si guardò intorno, abbassò lo sguardo a terra e
concluse: «Dobbiamo prendere le
misure.»
«Pensi
davvero che mi spoglierei davanti a te?» sibilò
Stefania, fissandolo in
cagnesco.
«Non
usare il condizionale, dovrai farlo per forza. Mi dispiace, non vorrei,
ma devo
misurarti e…»
«Sei
un idiota.»
«Pensi
che mi faccia piacere vederti nuda?»
Stefania
sgranò gli occhi, mentre un’ombra le attraversava
il volto; Leonardo non
sembrava essersi reso conto di ciò che aveva appena detto e
questo confermò la
sua ipotesi: non pensava di avere fatto una gaffe, avrebbe preferito
davvero
evitare di vedere la sua pelle strabordare dalle mutande.
«Ti
fa schifo perché sono grassa?»
Fu
il turno di Leonardo di fissarla con sorpresa. «No,
ma… ecco… non ci avevo…»
«Non
ci avevi pensato, certo» soffiò lei con rabbia.
«Sei
una ragazza, non voglio vederti nuda!»
Stefania
aggrottò la fronte, presa alla sprovvista da
quell’esclamazione: il ragazzo era
avvampato ancora di più e la guardava, in attesa forse che
lo scagionasse da
tutte le accuse.
«Scusa»
si ritrovò inaspettatamente a chiedere.
“Non
pensavo fossi ancora un bambino” avrebbe voluto aggiungere,
ma forse il motivo
della sua reazione era un altro e non voleva rischiare di essere lei a
fare
un’enorme gaffe. Estrasse un foglietto scarabocchiato dalla
tasca e glielo
porse.
«Sono
le misure, le avevo prese a casa. Dovrebbero esserci tutte.»
Lasciò
che Leonardo le leggesse, poi rovistò con lui nella montagna
di stoffe.
Non
passarono un pomeriggio tanto brutto come aveva temuto; Leonardo sapeva
essere passabile quando svolgeva un
lavoro,
dimenticando perfino la sua timidezza. Tagliarono e cucirono per un
paio d’ore
– possibile che avesse anche una macchina da cucire in
camera? – con il
piacevole sottofondo della colonna sonora di Game
of Thrones inserita nello stereo.
«Perché
gli Stark?» chiese Stefania di punto in bianco, mentre
Leonardo l’aiutava a
controllare la lunghezza della manica.
«Eddard»
rispose lui di getto, segnando con il gesso il punto in cui avrebbe
dovuto
tagliare la stoffa blu. «Mi piace che metta l’onore
al primo posto.»
«Mettesse» lo corresse Stefania
con un
sogghigno. «Avrebbe dovuto farlo sempre: vai contro
l’onore una volta e vedi
come rotola la tua testa.»
«La
colpa è vostra.»
Sollevò
un sopracciglio. «Nostra?»
«Solo
una Lannister parlerebbe così. È stato Joffrey a
far uccidere Ned.»
Si
strinse nelle spalle. «Qualche disgraziato può
capitare in famiglia, ma noi
abbiamo Tywin. Abbiamo Jaime. Tyrion.»
«Il
nano?» ridacchiò Leonardo.
«Meglio
nano che decapitato» ribatté Stefania, stizzita.
“Perlomeno
abbiamo qualcosa in comune” dovette ammettere.
“Peccato che tifi per gli Stark,
un motivo in più per scannarci ogni volta che ci vedremo. Mi
sa che farò fuori
il suo mago domani sera, se non riesce a creare un vestito
decente.”
«Vuoi
qualcosa?» le chiese Leonardo, alzandosi dal letto e
lisciandosi i jeans. «Una
fetta di torta?»
«Un
tè andrà bene.»
«Ma
la torta è buona, l’ha fatta uno dei miei
coinquilini…»
«Stark»
lo riprese Stefania, indicandosi. «Mi hai vista?»
Leonardo
avvampò e si passò una mano fra i capelli neri.
«Un… tè, allora. Quale vuoi?»
«Quali
hai?» Si alzò anche lei e lo precedette in cucina.
«Fammi vedere.»
«Sono
là, dietro le tazze…»
«Qui?
Ah, no, ecco. Ehi,» esclamò, sollevando una tazza
con il cervo dei Baratheon,
«e questa? È dei tuoi coinquilini?»
Inaspettatamente,
invece di risponderle balbettando o dirle che apparteneva a uno di
loro,
Leonardo le strappò la tazza dalle mani, livido in volto, e
la rimise a posto.
Poi abbassò lo sguardo, avvicinandosi mestamente al
lavandino.
«Cos’era
quello?» gli chiese Stefania, confusa.
«Una
tazza.»
«Beh,
sì, l’avevo notato. Cos’era quel gesto?»
Leonardo
riempì un bricco d’acqua e lo mise sul gas,
lasciando passare qualche secondo
prima di rispondere evasivamente: «Apparteneva a qualcuno che
l’ha dimenticata
qui.»
“Come
me” sembrava aggiungere con amarezza il suo tono piatto.
Stefania non fece
ulteriori domande, capendo di poter toccare un tasto molto delicato, e
si
sedette in attesa di un tè che, alla fine, non aveva neanche
scelto.
♠
A
Roberto, dopotutto, piaceva lavorare in officina: suo padre era un
bravo datore
di lavoro che gli garantiva lo stipendio ogni mese, era divertente
armeggiare
con i motori e l’università – per grazia
divina – non aveva mai fatto parte dei
suoi piani. Certo, aveva detto a Marta che avrebbe desiderato
frequentarla, ma
c’era forse qualcosa di male nel farle provare un
po’ di pietà per lui,
costretto a lavorare quasi tutti i giorni dalla mattina alla sera
nell’officina
di famiglia?
Se
avesse dovuto scegliere un motivo per cui detestare
quell’impiego, sicuramente
sarebbe stata la sensazione del grasso sulle mani che non accennava ad
andarsene neanche dopo una doccia; sparivano i segni, spariva
l’odore per lui
nauseante, ma la consapevolezza di essersi sporcato non lo abbandonava.
Non
importava, in fondo: gran parte delle volte – e anche grazie
ai due zii che
lavoravano con loro – Roberto poteva prendere giorni di ferie
senza che suo
padre sbraitasse troppo. Aveva inoltre una scusa per non essere in
grado di
seguire le serie televisive del momento.
Già,
non avrebbe scambiato il suo lavoro per qualsiasi università
– a meno che non
fosse frequentata solo da donne libidinose in attesa di un aitante
venticinquenne pronto a soddisfare ogni loro voglia.
«Mamma
voleva sapere se tua cugina viene a cena da noi»
esordì suo padre,
affacciandosi dalla seconda stanza dell’officina con il
cellulare vicino
all’orecchio.
Roberto
si passò una mano sulla fronte sudata. «Alle otto
e mezza come al solito»
rispose. «E non chiamarla “cugina”.»
Detestava
quando i suoi definivano così Viola. D’accordo, da
un paio di anni sua madre si
era sposata con uno dei cinque fratelli di Giuseppe Trani, ma Viola
faceva parte
della sua vita da… sempre? Avevano frequentato insieme la
scuola materna, le elementari
e le medie, dividendosi solo per le superiori; erano andati quasi ogni
estate
in vacanza insieme, e questo aveva contribuito a far conoscere i due
futuri
sposi; erano perfino nati nella stessa settimana e Roberto aveva
scommesso che
le loro madri fossero nella stessa stanza d’ospedale, per
quanto Maria avesse
più volte ripetuto al figlio di non avere conosciuto la
madre di Viola prima di
diversi mesi dalla loro nascita.
Viola
sarebbe andata a cena da lui come ogni settimana anche se non fosse
diventata
la sua “cuginastra”, ma i suoi sembravano
dimenticarlo in continuazione.
“E
so bene perché” si disse Roberto, armeggiando con
una Yamaha.
Amava
il suo lavoro, ma quel giorno non vedeva l’ora di tornare a
casa: era in
officina dalle nove di mattina e si era già occupato di
altre due moto, adesso
l’unica cosa che desiderava era che arrivasse
l’orario di chiusura per
infilarsi sotto il letto con una bella scorta di hentai e Bohemian Rhapsody nelle orecchie, prima
che Viola irrompesse nella
sua stanza per conoscere le ultime novità.
Avrebbe
voluto farlo, già, se solo le “ultime
novità” non fossero improvvisamente
apparse sul marciapiede che dava sull’officina. Marta stava
controllando
l’insegna e indossava una maglietta molto più
carina di quelle che solitamente
le vedeva addosso: nessun riferimento nerd, ma solo una scollatura che
metteva
in evidenza il suo piccolo seno. Nonostante avesse un debole per la
quarta
abbondante, Roberto pensava che la seconda misura di Marta lo
stuzzicasse così
tanto perché lo rendeva ai suoi occhi ancora più
diverso di quello che lei si
sarebbe aspettata – o, in altre parole, di quello che era
realmente.
«Marta!»
esclamò, passandosi l’avambraccio sulla fronte
scoperta. Grasso, sì, ma un
grasso che lo rendeva più appetibile a persone come Marta.
«Che ci fai qui?»
Lei
sorrise timidamente e, avvicinandosi, Roberto notò il solco
delle occhiaie.
«Ero all’università e ho pensato di
passare.»
“Oh,
piccola mia, devo insegnarti a dire bugie.”
Maglietta
scollata: Marta non gli sembrava il tipo di ragazza che si recava alle
lezioni
così, soprattutto in una giornata tanto fredda.
Borsa:
era troppo piccola per contenere un libro o anche solo un quaderno.
Occhiaie:
la sera prima aveva fatto baldoria.
Roberto
non leggeva Doyle, ma era piuttosto sicuro di aver fatto centro.
«Scusami,
ti saluterei con un abbraccio, ma non voglio sporcarti.»
“Meglio
enfatizzare di essere sudicio. Beh,
non proprio sudicio, un po’ sporco. Quel che basta a far
eccitare le donne.”
«Apprezzo
il pensiero» disse Marta con un sorriso.
Roberto
sorrise a sua volta e poi gridò al padre: «Vado a
fare un giro!»
«No,
non serve che ti allontani dal lavoro…»
tentennò Marta. Si portò una mano alla
bocca per torturarsi le unghie. «Volevo solo,
ecco…»
“Strana
reazione, qui c’è di mezzo qualcosa.”
«Non
fa niente, tanto sono qui dalle nove. Vado un attimo in bagno a darmi
una
pulita, tanto ho dietro il cambio, e poi andiamo a berci un aperitivo,
che ne
dici? O passiamo in libreria, così ne approfitto per cercare
un libro.»
«D’accordo.»
Mentre
si allontanava verso il bagno, Roberto si disse che doveva inventare un
titolo.
Poteva ammettere che voleva portarla in libreria per farle passare
un’oretta in
uno dei posti che, a sentire i resoconti di Stefania, Marta preferiva,
ma era
più divertente farle pensare che fosse lui a doverci andare.
“Gusti
in comune, anche se per finta.”
Afferrò
il cellulare e mandò un sms a Viola: “Potrei fare
tardi, pensa tu ai miei.
Novità in arrivo!”
Le
cose stavano andando meglio del previsto.
SESTO CAPITOLO
Il titolo è un
dialogo di Skins.
MATTEO:
- Il Capitano Jack
è il protagonista di Torchwood.
- Dead Space
è un videogioco.
STEFANIA:
- Westeros è il
continente occidentale in cui è ambientato Game
of Thrones/ASOIAF.
- Rosso e oro sono
i colori dei Lannister.
- “elfo senza il
Nord”: gli Stark, all’inizio della saga, erano
protettori del Nord. Erano, appunto.
- Baratheon:
casata di ASOIAF.
SPAZIO AUTRICE
Ho aggiornato in
mega-ritardo, (quasi) tutta colpa del POV di Stefania, che mi ha dato
diversi
problemi. Scusatemi, stasera comincio a scrivere il prossimo capitolo
così da
averlo già pronto!
Sto inserendo man
mano nuovi personaggi e creando dei
“misteri”… Forse niente di che, ma non
volevo creare una storia piatta. Nel prossimo capitolo
tornerà il gioco di
ruolo: verrà narrato, in parte, ma non prenderà
l’intero capitolo.
E qui invece ho
citato in continuazione GOT, altro che DW. Ma di che altro posso far
parlare
Stefania e Leonardo, al momento? u.u
Viola, Viola… Sì,
l’avevo già citata un paio di volte e
sì, apparirà nel corso della storia, ma
non sarà un personaggio fondamentale (perlomeno non lo
è al momento).
Grazie per aver
letto ^^
Medusa