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Autore: Lapam8842    03/06/2013    0 recensioni
Un gruppo di adolescenti benestanti: Sabrina, incinta senza sapere chi sia il padre; Marco amico ed affascinato dalla bellezza naturale di Sabrina; Lucia migliore amica di Sabrina, innamorata in segreto di Marco; Steve fratello gemello di Lucia, ignorato da tutti. Una storia d’amore, amicizia, gelosia ma soprattutto di segreti. Ognuno nasconde qualcosa e qualcuno li minaccia. Cosa accadrà?
Genere: Romantico, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 2.

Tredici giugno 2009

Caro diario,

Ieri compievo sedici anni ed è stato tutto un disastro. Mio padre, Federico, ci avrebbe dovuto portare a cena fuori per festeggiare il lieto evento. La scuola è finita la settimana scorsa, e tra qualche giorno mi manderanno in collegio dalle suore, per l’estate. Imparerò l’arte del ricamo, del dipingere su tela e sarò obbligata a suonare uno strumento musicale. Le Sorelle mi faranno rispettare le buone maniere e a tenere un certo tipo di comportamento: quello che si addice alle giovani ragazze del mio ceto sociale, e che si sposeranno presto. Ieri avevo deciso di fare una sorpresa a mio papà: andarlo a trovare in ufficio. Soprattutto perché il suo studio si trova vicino ad una gelateria, che serve coppe di gelato enormi ed elaborate.

Ci saranno stati 40° e l’afa era soffocante e fastidiosa. Stavo camminando lentamente e ad ogni passo, le gambe si incollavano fra loro. Avevo deciso di indossare un vestito di cotone bianco con scollo a barca e spalline di pizzo bianco, che mi coprivano le spalle e si intrecciavano lungo la schiena. Il decolté era fasciato dallo stesso pizzo delle spalline. L’abito ricadeva morbido lungo i fianchi ed arrivava fino alle ginocchia, con una greca finale di macramè. Calzavo un paio di ballerine rosse dello stesso colore della borsa, fatta ad uncinetto, e degli orecchini pendenti. Aveva deciso di raccogliere i capelli in un chignon semplice, fissandoli vicino all’orecchia destra, con un fermaglio a forma di rosa. Sembravo una bambolina di porcellana, da quanto fossi adorabile.

Lo studio di mio padre si trova all’interno di un complesso semi residenziale. Al piano terra ci sono vetrine d’abbigliamento, biancheria per la casa e un negozio di prodotti biologici. Ai piani superiori si trovano uffici privati ed appartamenti residenziali. Avevo deciso di fermarmi nella gelateria, per godere di un po’ di refrigerio dovuto all’aria condizionata, e per mangiarmi una coppa di gelato. Stracciatella, nocciola, crema e zuppa inglese, con l’aggiunta di panna montata, scaglie di cioccolato, granelle alla nocciola e bastoncini di cioccolato. Avrò esagerato un po’, ma avevo camminato molto, sotto un sole cocente e senza un filo di aria, che mi potesse far sentire meglio, e poi era il mio compleanno!!

Quando finii, mi alzai e salutai il proprietario. L’ufficio di mio padre si trovava sopra il parrucchiere, e vi si accedeva salendo la scala elicoidale, posta all’interno dell’edificio. Di fianco al suo immobile, c’era lo studio associato Sandrelli-Stuart. I Sandrelli sono dei dottori commercialisti, che si occupano della gestione contabile delle famiglie In della zona. Non sono riusciti ad avere figli. Io li chiamo “nonni”, perché mi hanno visto crescere, così come hanno visto crescere Lucia, Steve, Marco e Jessica. La signora Sandrelli, è anche il sindaco della città, nonché organizzatrice di eventi mondani. Ha un debole per Lucia, forse perché è la figlia che non ha mai potuto avere?

I genitori di Lucia sono avvocati. Non hanno mai perso una causa, e stranamente i loro casi, vengono risolti nel giro di pochi mesi.. considerando come funziona la giustizia Italiana.

Decisa a non suonare il campanello, entrai dalla porta in noce e salutai la segretaria di papà. Elena è una bellissima ragazza. Alta 1.80 cm, lunghe gambe magre ed un corpo affusolato. Ha i capelli biondi, lisci, lunghi fino a metà schiena. Porta un paio di occhiali grossi e neri, che le nascondono i meravigliosi occhi marroni con pagliette dorate. Avrà 25-26 anni. Purtroppo è diventata vedova, un mese dopo il matrimonio. Suo marito è morto in un incidente stradale. Stava rientrando dal lavoro, guidando la sua Honda Cbr 1000 nera. Una macchina sfrecciava a tutta velocità, nell’altro senso di marcia. Il conducente era ubriaco, ed ha sbandato, travolgendo il povero motociclista. La notizia venne pubblicata su tutte le testate giornalistiche. Elena, da quel giorno, si è incupita. I suoi meravigliosi occhi dorati, sono ormai velati da una patina di tristezza ed amarezza. Il suo sorriso non è più dolce e tenero, divenne finto e di plastica.. un arriso che non voleva far trasparire alcuna emozione. Quel giorno, la giovane sembrava piuttosto sorpresa di vedermi. Si, in effetti non ero mai stata nell’ufficio di mio padre. Mi disse che l’architetto Bellini era in riunione, un incontro molto importante, e che avrei dovuto aspettare in sala d’attesa, come se fossi un qualsiasi cliente. Ma io non ero un acquirente, ero sua figlia, e per giunta, era il mio compleanno! Dovevo assolutamente incontralo. Non appena Elena fu distratta dalla stampante inceppata, mi alzai dal divano di pelle nera, ed aprii la porta del suo ufficio. La scena che mi si presentò davanti mi paralizzò. Mio padre era avvinghiato ad una rossa, sul suo divano. Federico stava esplorando la bocca della signora, con la lingua, e con la mano le stava sfiorando l’abbondante seno. Le note di “Don’t cry” dei Guns n’ Roses rendevano l’atmosfera ancor più inquieta. Come avrei potuto non piangere stanotte, se sentivo il cuore andare in frantumi all’interno del petto? Il muscolo involontario, più importante del corpo umano, non produceva alcun tipo di rumore quando si spezzava in mille frammenti, sebbene il dolore fosse così grave ed acuto, sarebbe stato confortante sentire un suono che ti distrae dalla ferita interiore, che ti duole come se dell’acqua salata ci fosse finita sopra. L’unica cosa che vorresti fare è gridare, talmente forte, da attenuare il peso che ti schiaccia lo sterno, tanto da impedirti di respirare. Provai una sofferenza insopportabile. Non ero più in grado di muovermi né di pensare lucidamente. La mia mente era sterile da quanto fosse priva di idee. Ero paralizzata, con il labbro tremante e prepotenti lacrime solcavano le mie guance, e non sapevo che cosa avrei dovuto fare. Osservavo la scena mentre i due protagonisti principali, non si accorsero di una terza persona all’interno della stanza. Continuavano indifferenti a provocarsi piacere reciproco. Rimasi immobile per un tempo indefinito, mentre la voce di Axl Rose continuava a riecheggiare nello studio, incurante della mia pena. Riuscii a riprendermi ed uscii dall’ufficio sbattendo la porta. Non so se fossero stati i profondi gemiti di piacere a farmi muovere, o il fatto che la giovane stava palpeggiando in zone proibite mio papà, sta di fatto che mi misi a correre più velocemente possibile, con un’imprecisata meta. Sentii chiamare il mio nome, ma non mi fermai sebbene le lacrime, che uscivano a fiotti, mi impedivano di vedere davanti a me. Mi mancava l’aria all’interno dei polmoni, ma dovevo continuare a snodarmi fra le vie cittadine. Avevo bisogno di mietere maggior distanza fra lo studio e me. Non smisi di correre finché non mi sentii al sicuro, all’interno del parco giochi comunale. La milza mi doleva e sentivo la carne greve lungo le gambe, ma era un dolore sopportabile, non paragonabile a quello che provavo dentro di me. Appoggiai la schiena e successivamente mi sedetti vicino ad un gelso centenario in modo da ripararmi dal sole e dall’afa. Non importava quanto cercassi ristoro nelle piccole cose: guardare un merlo che andava alla ricerca di vermi, per imboccare i suoi piccoli; osservare le api che si nutrivano della linfa degli oleandri dai colori pastello; squadrare un bimbo che spingeva l’altro sull’altalena, con l’unico scopo di farlo ridere e divertire, toccando il cielo, sempre più in alto, sempre più vicino alle piccole nuvole bianche ed ovattate. Non avrei trovato consolazione né distrazione ai miei tormenti: mio padre aveva baciato un’altra donna, e molto probabilmente sarebbe stato intenzionato ad approfondire il contatto, se non l’avessi interrotto inavvertitamente.

E se fosse stato solo un incubo? Un sogno giocato dalla mente, come per burlarsi di me, nel giorno del mio sedicesimo compleanno. Perché la psiche umana è contorta e quando cala la notte, ci ritroviamo a riflettere, nel silenzio della stanza, accoccolati a letto nel buoi più profondo, pensando a tutte quelle cose che abbiamo così difficilmente tentato di dimenticare e di non rivivere, o immaginiamo scenari diversi, in cui noi siamo i supereroi indistinti, risolvendo ogni situazione, ogni problema. Percepiamo il tepore delle coperte, o ricerchiamo il refrigerio delle lenzuola e del cuscino, girandolo più volte, per sentir maggior frescura, mentre Morfeo ci abbraccia, e ci fa sognare facendoci compiere viaggi mentali spettacolari e contorti. Possiamo vedere mondi che da svegli non avremo mai potuto immaginare. Possiamo essere in qualsiasi luogo con chiunque. Non avremo paura di incontrare serpenti a sonagli o insetti neri e pelosi, ma non rimarremo mai abbastanza colpiti dalla bellezza dell’aurora boreale o della cascate del Niagara. Probabilmente avevo fatto indigestione ed ero andata a letto senza digerire. Spesso è lo stomaco il responsabile dei sogni cattivi. Rincuorata da tale pensiero mi pizzicai il braccio, per verificare se fossi in una realtà parallela ed avrei ritrovato presto il sorriso, una volta ridestata. Purtroppo non ero intrappolata in un’altra dimensione. Avevo assistito al tradimento di mio padre. Mi abbraccia e piansi debolmente.
 

***


Mi ero addormentata stravolta e sfinita dalla corsa e dalle lacrime. Mi ero appisolata vicino al grosso albero, sopra il muschio umido e profumato. Mi ero svegliata infreddolita e stanca. Una musica assordante proveniva poco più lontano, peggiorando il mio nascente mal di testa. Avevo lo stomaco sottosopra e prima che riuscissi a spostare la testa, mi vomitai addosso, rovinando l’abito nuovo.

All’improvviso notai qualcosa muoversi fra gli arbusti e sentii un fruscio, seguito da un suono di passi. Il cuore mi sobbalzò all’interno del petto e cercai di trattenere il fiato, per ridurre al minimo ogni rumore. Ero attanagliata dalla paura e non pensavo lucidamente. L’unica cosa che ponderavo era di essere stata incosciente, addormentandomi in un parchetto pubblico, senza avvisare nessuno.

La luce di una pila mi arrivò dritta in faccia, abbagliandomi gli occhi. Ero stata scoperta e non avevo più speranze.

“Sabrina, che ci fai qui? Che ti è successo? Sei orribile!”

Era la voce di Bergamaschi Marco, un mio compagno di classe. Un bel ragazzo dal fisico asciutto e muscoloso, dalla carnagione pallida. Capelli biondi e penetranti occhi smeraldini.
Ero felice  di vederlo, sebbene non fossimo amici e a malapena ci rivolgevamo la parola, ma se non altro non era un malintenzionato pronto ad abusare di me.

“Marco, ti dispiacerebbe smetterla di puntarmi la luce addosso? Mi fanno male gli occhi!” lo rimproverai, alzando di poco la voce, cercando di contrastare il baccano che proveniva dietro di lui.

“Scusami. Non pensavo di trovarti qui. Cioè, veramente non credevo di trovare nessuno. Sono completamente ubriaco.” Biascicò sedendosi vicino a me, poggiando la schiena contro il gelso centenario.

L’assurdità era che avrei dovuto essere al ristorante con i miei genitori, per festeggiare il mio sedicesimo compleanno, ed invece mi trovavo in piena notte, in un parco pubblico, con un ragazzo ubriaco, che non godeva della mia simpatica.  
Marco interruppe le mie elucubrazioni mentali, domandandomi in tono dolce, sebbene fosse troppo acuto, se stessi bene. Decisi di rispondere con sincerità, molto probabilmente perché il giorno successivo non si sarebbe ricordato nulla.

“Veramente no, ma non importa. Tu sei ubriaco. Forse è meglio trovare un modo per portarti a casa.”

Il biondo alzò le spalle, con fare noncurante replicando: “Non preoccuparti di me. Tu sembri davvero triste ed io so come poterti aiutare.” Tirò fuori dal borsello di pelle nera, una bottiglia di vodka Keglevic, dal colore verde, e m’incitò a berla. Io scossi la testa e per essere il più chiara possibile dissi di non volerla provare.

Marco mi regalò un mezzo sorriso e mi prese in giro, sussurrando: “Le brave ragazze esistono ancora.” Cercò di farsi più vicino a me, ma io mi allontanai per aumentare la distanza fra noi. Mi metteva a disagio questa situazione. Non potevo fingere di essere la sua nuova migliore amica e mi infastidiva che fossimo da soli.

“Ali, non ti faccio nulla. Stai tranquilla. –mi guardò dritta negli occhi, tentando di giustificarsi o di fare conversazione- Se non vuoi bere non ti obbligherò. Mi piacerebbe solo parlare con te. Domani mattina non mi ricorderò più nulla. Non devi temere. Non dirò a nessuno di averti vista qui. Anzi, a proposito.. posso chiederti che ci fai qui tutta sola? Non hai paura di stare in un posto del genere, al buio, senza nessuno?”

La sua ultima frase mi fece venire i brividi lungo la schiena. Deglutii a fatica, tentando di ritrovare il controllo di me stessa e di calmarmi. Decisi di dire una mezza verità senza entrare troppo nel personale. Non dovevo far trasparire le mie emozioni. Non dovevo mostrarmi debole. Forse Marco avrebbe approfittato di me, per via dell’alcool in circolo nel suo sistema nervoso, che gli aveva inebriato le meningi. 

“Mi sono ritrovata qui oggi pomeriggio. Mi devo essere addormentata. Ero molto stanca.” Annuii mostrandomi il più convincente possibile, senza alcuna esitazione.

Fu allora che Marco mi stupì, asserendo con tono di chi la sapeva lunga: “Oppure sconvolta.. che ti è successo?”

Mi si gelò il sangue all’interno delle vene e il mio cuore perse un battito. Come poteva sapere quel che mi era capitato? E se mi avesse tenuto d’occhio per tutto il pomeriggio, e sapesse esattamente quello che era successo, senza che me ne fossi accorta?

“Non mi è successo niente.” Negai violentemente con il capo, per dare più valore alle mie parole.

“Se vuoi parlarne, sono qui.. – si tolse la giacca e me la mise sulle spalle- Sembra che tu abbia freddo.. e sinceramente, sei veramente conciata male”.

Sbuffai risentita dalle sue parole. Probabilmente avevo la matita nera sbavata sotto gli occhi, i capelli arruffati e sicuramente puzzavo, ma non mi importava. Stavo male. Era come se qualcuno avesse giocato con il mio cuore, strattonandolo, pestandolo, strappandolo solo per capriccio. Mi sembrava di non possedere più un muscolo cardiaco integro, all’interno del petto. Credevo che qualcuno me l’avesse rubato e non me l’avesse più restituito. Stavo male. La mia bussola, posta per indicare la via da prendere, continuava a girare impazzita, senza fermarsi mai. L’ancora di una nave, attanagliata al fondale marino, si era spezzata e il galeone vagava senza meta. Io ero quella chiatta. Non avevo il mio arpione. Avevo perso ogni sicurezza. La terra si era messa a tremare, divorandomi con essa. Le labbra di mio padre si posarono su quelle di una donna diversa da mia madre. Le mani di Federico si insinuarono su un altro corpo. Il profumo di mio papà si mischiò con quello di una nuova giovane. L’uomo che mi aveva messo al mondo si fuse con un’altra signora, diventando un unico corpo. Il solo ricordo mi fece tremare e senza rendermene conto lacrime dal gusto amaro, stavano attraversando il mio volto bagnandolo. I singhiozzi, che da prima cercavo di trattenere, si fecero sempre più forti, echeggiando nella profonda notte stellata, accostandosi ai suoni della festa che si percepiva il lontananza. Singulti isterici come tuoni di un temporale estivo, scoppiato all’improvviso, bagnando distese di prati verdi, vette di montagne ancora imbiancate, granelli di sabbia fine, con gocce che cadono prepotenti come aghi di metallo pungente.

“Mi dispiace molto per qualsiasi cosa ti sia successa. Queste lacrime –mi accarezzò dolcemente il volto con la mano- stanno rovinando il tuo bel viso.”

Riuscì a strapparmi un sorriso e mi sentii rincuorata dalla sua voce suadente. Solo per un attimo, mi sentii meno sola e meno vuota.  

“Sicura che non vuoi bere un goccino?” Marco mi offrì la bottiglia di liquore, incoraggiandomi con i suoi piccoli occhi verdi.

“Non mi aiuterà a dimenticare.” Risposi mesta e più decisa di quanto sembrassi.

Il biondo scrollò le spalle, con indifferenza: “No, ma ti sembrerà di stare meglio. Solo per un po’.”

Ero astemia. Non avevo mai bevuto alcolici e non sapevo che sapore potessero avere. Non conoscevo gli effetti dell’alcol sul sistema nervoso, quindi chiesi dubbiosa ed esitante se fosse stato possibile star meglio.

Marco rispose aggrottando le sopraciglia: “Si. Ti farà ridere per ogni cosa. Ti sentirai leggera e i problemi saranno dissolti nella tua mente. Non penserai più alla tua matrigna a letto con il giardiniere. Dimenticherai le urla isteriche dei tuoi genitori, che riecheggiano in tutta la casa.” 

Confortata dalla sua storia, mi stupii confidandomi con lui: “Oggi è il mio compleanno. Mio papà ha organizzato una cena al mio ristorante preferito per festeggiare. Ero estasiata dal suo gesto. Ho deciso di farli una sorpresa andandolo a trovare nel suo studio, ma purtroppo lui era avvinghiato ad una rossa. Ha rovinato tutto tradendo mia madre. Il loro amore era la cosa che più contava per me. Credevo che fosse eterno. Infinito. Evidentemente mi sbagliavo. Niente è per sempre.” sbottai inacidita, torturandomi i capelli. Trattenevo a stento le lacrime e mi mordevo le labbra per evitare di piangere, cercando di deglutire il più possibile e di concentrarmi sulla respirazione.

Marco sospirò rumorosamente: “L’adolescenza fa schifo.” Bisbigliò in tono vacuo.

Annuii decisa alla sua affermazione. Mi sarebbe piaciuto tornare bambina, spensierata ed ingenua. Avrei voluto liberarmi da questo problema, che mi era crollato addosso, pugnalandomi con decisione alle spalle.
E con questi pensieri nella testa, mi feci coraggio e chiesi di poter dimenticare. Chiesi di poter star bene, anche solo per cinque minuti. Domandai la felicità a piccole gocce.    

Marco mi allungò la bottiglia, non prima di darmi un avvertimento: “Vacci piano. Non voglio che ti rovini anche l’altra parte del vestito.”

Scoppiai in una risata liberatoria. Leggera. Accattivante. Fragorosa. Tanto contagiosa che anche il giovane, seduto accanto a me, non riuscì a trattenersi.

 

***


Quando aprii gli occhi, non riuscii a ricordare cosa fosse successo la sera precedente. Mi guardai intorno, senza capire dove fossi. Le tempie mi pulsavano, segno di un nascente mal di testa. Rammentai di essere scappata dallo studio di papà e di essere finita in uno stupido parco giochi per bambini. Evidentemente stremata dalla corsa e affranta dal dispiacere, ero crollata. Mi ero addormentata su uno scivolo di acciaio, freddo e consunto dal tempo, senza una coperta o un lenzuolo, ma indossavo una giacca di pelle color zaffiro. Di chi poteva essere? Cosa era successo al parco? Presi dalla borsetta il mio cellulare, che purtroppo era scarico. Se i miei genitori mi avessero telefonato? Ero stata fuori tutta la notte e probabilmente erano preoccupati. E se avessero pensato che mi avessero rapito o avessero abusato di me, per poi farmi in piccoli pezzi? Il mio stomaco cominciava a brontolare e mi stava scoppiando la testa dal dolore. Cosa avevo combinato qui, tutta sola? Cosa avrei dovuto fare adesso? Mi guardai l’abito bianco, ingiallito ed incrostato da qualcosa dall’odore spiacevole. Non era il caso di tornare a casa in quelle condizione. Decisi di andare dalla mia migliore amica Lucia. Lei avrebbe fatto miracoli con il mio aspetto fisico, ma purtroppo non sarebbe riuscita a cucire la ferita, lacerante, all’interno del mio petto.








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