Anime & Manga > Kuroko no Basket
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Autore: Glitch_    05/06/2013    5 recensioni
Dopo la fine della scuola superiore, c'è chi ha fatto del basket il proprio stile di vita ma non una scelta per il futuro, chi ha rincorso il proprio sogno in America e chi invece è scappato dalla propria ombra; c'è chi sa che si può sempre ricominciare grazie a ciò che si è avuto e chi pensa invece che sia tutto finito e i cocci da buttare.
Il basket li ha fatti incontrare, il basket li porterà a riunirsi e a restare ancora insieme.
[Kagami/Kuroko, Kasamatsu/Kise, Midorima/Takao + Aomine(onesided)/Momoi]
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ryouta Kise, Takao Kazunari, Tetsuya Kuroko, Yukio Kasamatsu
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'A due passi e un respiro da qui'
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Capitolo 4


"Now that we're here,
it's so far away
all the struggle we thought was in vain
All in the mistakes,
one life contained
they all finally start to go away
Now that we're here it's so far away
and I feel like I can face the day, and I can forgive
and I'm not ashamed to be the person that I am today".
So far away - Staind


Il vecchio appartamento di Hyuga era pieno di gente che Kuroko non vedeva da un pezzo: dopo la fine della scuola ognuno aveva intrapreso la propria strada e gli impegni avevano avuto sempre più la meglio sui rapporti interpersonali; non per questo però si sentiva a disagio, anzi, gli faceva piacere sapere come andavano le cose per gli altri, anche se aveva un po’ l’impressione di essere fuori posto quando qualcuno scherzando, ma non troppo, lo chiamava "capitano" – per di più lo facevano però per far dispetto a Hyuga, che capitano lo era stato prima di lui, il primissimo del Seirin, tra l’altro.
Sapeva che Kiyoshi era andato a prendere Kagami all’aeroporto e sarebbe stato lui a ospitarlo durante il soggiorno; Kagami sarebbe rimasto in Giappone per una decina di giorni e al contrario di molti di loro non aveva più una casa familiare dove stare – i suoi erano ancora in America – e Kuroko era già certo che tipi come Koganei, Izuki e lo stesso Hyuga avrebbero trovato una scusa per accamparsi da Kiyoshi quella notte per il puro gusto di infastidire Kagami con un miliardo di domande sulla sua vita al college.
Non sapeva però se anche lui avrebbe voluto partecipare a quella notte in bianco.
Considerando che si erano aggregati anche Kise e Kasamatsu, Takao aveva pensato bene di imbucarsi, quantomeno per la festicciola di rientro in patria di Kagami – con tanto saluti al fatto che in fin dei conti non fossero proprio amici, ma del resto neanche Kise e Kasamatsu lo erano…
La verità era che Takao avevo solo bisogno di una scusa per impicciarsi, e comunque il giorno dopo avrebbe ripreso il treno per tornare all’università e al loro appartamento.
In attesa di Kiyoshi e Kagami, Kuroko girava per l’appartamento con Takao alle calcagna che cercava di spacciargli lattine di birra – che lui puntualmente cambiava sempre con lattine di tè – e che gli parlava a vanvera di come loro del Seirin fossero così divertenti. Gli girava la testa e non aveva davvero bevuto nulla di alcolico.
Quando sentì suonare alla porta e tutto il chiasso spostarsi all’ingresso, per un attimo si sentì spaesato e ancor di più lo fu quando udì la voce di Kagami – stava dicendo a Kiyoshi di smetterla di dargli pacche sulla testa. Takao gli rivolse un piccolo ghigno incoraggiante, gli mise un braccio intorno alle spalle e lo trascinò alla porta con lui.
«Sapete, è stranissimo sentirmi chiamare Kagami! A Los Angeles mi chiamano tutti per nome!»
«Taiga?» mormorò perplesso Hyuga.
«Sì, Taiga» annuì poco convinto: doveva essere perplesso della perplessità di Hyuga.
Kuroko non riusciva a capire bene quello che stava provando, solo che… Kagami era lì dopo anni, un po’ stupido come una volta eppure con i lineamenti più rilassati di quanto ricordasse – quando anni fa l’aveva conosciuto sembrava una bestia sempre pronta a iniziare una lotta – e nonostante il tempo passato emanava ancora quell’energia e quella forza che lo contraddistingueva. Era l’enorme, stupido ma buono Kagami che tanto gli piaceva e con cui tanto aveva condiviso, e all’improvviso qualsiasi paranoia gli sembrò inutile: aveva solo bisogno di dirgli in qualche modo che era davvero contento di vederlo.
Takao sorrise e lo spintonò in avanti; Kagami non l’aveva ancora visto, lui inspirò a fondo e lo chiamò cercando di rivolgergli un sorriso ironico e una sorta di piccolo dispetto.
«Taiga-kun?»
I ragazzi si zittirono di colpo e si fecero da parte in maniera un po’ imbarazzante – così facendo li misero proprio al centro dell’attenzione – e Kagami finalmente lo vide. Teneva in mano il berretto che Kiyoshi gli aveva tolto per arruffargli meglio i capelli, e se fino a un attimo prima era spaesato, ora sembrava spiazzato. Kuroko mantenne più che poté il sorrisetto ironico, poi quando stava per trarre un sospiro e rassegnarsi a non ricevere nulla di buona in cambio, Kagami percorse i passi che li separavano e l’abbracciò forte, uno di quegli abbracci che ci si scambia fra compagni di squadra alla fine di una partita vinta in extremis: un abbraccio forte, doloroso perché troppo stretto e carico di adrenalina ma anche pieno di sollievo.
Kuroko rise fra le sue braccia e ricambiò la stretta, perché erano davvero entrambi contenti di vedersi, le paranoie si erano infrante e voleva solo godersi quel momento.
«Il nostro magnifico duo!» esclamò soddisfatto Kiyoshi.
Izuki sospirò intenerito e compiaciuto, salvo poi ritrarre. «No, aspetta: non sono loro a sposarsi». Hyuga e Kasamatsu lo colpirono in testa all’unisono e tutti scoppiarono a ridere.
Kagami allentò la presa e gli mise una mano sulla spalla. «Sono felice di averti ritrovato qui» gli disse a voce bassa ma ferma mentre gli altri intorno a loro continuavano a sghignazzare e fare battute.
Era vero, Kuroko avrebbe anche potuto decidere di non andare a quella festa, però era lì e si erano ritrovati, e il tempo trascorso sembrava non aver arrecato loro alcun danno.
«Anch’io» replicò laconico, prima che Kiyoshi circondasse le loro spalle con le braccia e li costringesse con aria fraterna a essere più partecipi alla festa.
Ancora una volta avrebbero avuto poco tempo e poche occasioni per parlare, ma Kuroko lo promise a se stesso: sarebbero stati un po’ da soli, almeno per un po’.


Andò come previsto: i ragazzi tempestarono Kagami di domande curiose e imbarazzanti e poi lo schiavizzarono ai fornelli. L’atmosfera però non era troppo nostalgica: tutti parlavano fra di loro ricordando episodi passati, ma lo facevano con abbastanza energia e piacere da non rendere tutto triste; chiacchieravano delle cose che li avevano resi ciò che erano, dopotutto, non c’era da essere amari.
Per Kuroko fu quasi un’impresa riuscire a scambiare un paio di parole con Kagami senza che qualcuno fosse accanto a loro: non riusciva a capire se gli altri non comprendessero di essere invadenti o se fosse lui a essere diventato possessivo. Di nuovo e più di due anni prima. Sentiva l’urgenza di controllare per bene se la lontananza fisica ed emotiva avesse scavato fra di loro dei buchi incolmabili: quanto poteva essere stato stupido restare inerti pur di non correre il rischio di rovinare il loro rapporto? Aveva evitato di seminare brutti ricordi, ma aveva lasciato talmente tanti vuoti fra sé e Kagami che alla fine piuttosto di distruggere il loro legame aveva rischiato più semplicemente di perderlo, o forse già l’aveva perso.
Aspettò paziente che gli altri annunciassero a un non molto sorpreso Kiyoshi di volersi accampare alla meglio a casa sua e si accodò al gruppo, seguito da un entusiasta Takao che a sproposito gli circondò le spalle con un braccio.
«Spero di non disturbare e svegliarvi presto» aggiunse Takao, «perché domani mattina dovrò alzarmi all’alba per prendere il primo treno, ma non mi perderei per nulla al mondo questa promettente nottata in bianco
Si preoccuparono davvero ben poco di svegliare tutto il vicinato di Kiyoshi, e prima di riuscire a sistemarsi tutti per bene a terra nei futon come se fossero in gita scolastica trascorsero ben altre due ore di urla, calci, insulti e giochi di parole poco brillanti di Izuki.
Kuroko aspettò zitto e quieto che Kagami si alzasse per bere un po’ acqua o prendere una boccata d’aria, perché lo conosceva: dopo tutta quella confusione avrebbe desiderato un momento per stare da solo e ripensare per bene a ogni dettaglio della serata – faceva così anche con le partite o quando mangiavano tutti insieme durante i tornei o i ritiri per allenarsi.
Quando lo vide finalmente alzarsi, silenzioso e attento, lo seguì cercando di non farsi notare; Kagami andò al balcone e una volta appoggiate le mani alla ringhiera inspirò a fondo guardando il cielo notturno.
«È stata una bella serata» commentò andando al suo fianco.
Kagami si portò una mano sul cuore e riuscì a stento a reprimere un grido abbastanza acuto da svegliare tutto il quartiere. «Da quanto tempo sei qui?!»
«Qualche secondo» confessò, tuttavia divertito.
Lui sospirò e si grattò la testa, abbozzando un sorriso malinconico. «Era da tanto che non mi sorprendevi così».
«Già, davvero da tanto» ripeté ricambiando il sorriso. «E il basket americano riesce ancora a sorprenderti, invece?»
«Ho fatto i miei progressi» si vantò con un piccolo ghigno, «all’inizio non è stato semplice riabituarsi a un gioco meno tattico e più potente a livello fisico, ma ho cercato e sto cercando di prendere tutto quello che posso anche da questo basket, perché ora mi tocca diventare anche il numero uno al mondo, no?» sorrise fiero.
«Kagami-kun, sei sempre molto divertente quando fai questi discorsi importanti» lo prese in giro.
«Sono serio» s’infervorò, «siamo diventati i numeri uno in Giappone, ora devo seguire la mia strada e diventare anche il numero uno al mondo!»
«Al momento penso che questo sia impossibile» lo smontò, «che io sappia Aomine-kun ti ha battuto ancora una volta».
Le spalle di Kagami si afflosciarono subito. «Già» brontolò; poi sembrò esitare, «e a proposito… ti manda i suoi saluti». Kuroko lo fissò perplesso. «Abbiamo chiacchierato un po’ dopo la nostra ultima partita…» aggiunse vago.
«Capisco» assentì, sperando che Aomine non ne avesse approfittato per mettere delle strane idee in testa a Kagami, come se non avesse già fatto abbastanza danni mandandogli tutte quelle foto – era molto meschino da parte sua dare la colpa alle cheerleader quando in realtà era stato lui a istigarle. «Gli riferirò che ti sei ricordato di dirmelo, la prossima volta che ci sentiremo su Skype» aggiunse.
Kagami annuì e tornò a guardare la volta celeste. «È bello che voi due abbiate ripreso così il vostro rapporto».
«Aomine-kun è molto maturato. Sotto alcuni aspetti». Lui in risposta sbuffò una risata. «Ma anche tu mi sembri maturato, Kagami-kun: mi sembri più posato».
«Alex dice che è perché sono invecchiato» borbottò.
«Alex-san sa fare un ottimo uso del dizionario dei sinonimi giapponesi» concordò atono, «invecchiato ti si addice meglio di maturato, ha ragione».
«Non vorrei mai chiudere te e Alex in una stanza a parlare di me» si lamentò, «chissà cosa ne verrebbe fuori! Tu e lei siete fra le persone che mi conoscono meglio al mondo…»
«C’è anche Himuro-san» gli fece notare.
«Tatsuya è diverso» aggrottò la fronte come alla ricerca delle parole giuste da usare, «lui è famiglia, è come un fratello, mentre certe cose e certe mazzate» sorrise nostalgico, «possono dartele solo gli estranei alla famiglia».
«In effetti ti ho sempre picchiato abbastanza, Kagami-kun».
Sogghignò appena. «Mi è mancata la tua polsiera elastica!»
Kuroko lo ricambiò con un sorriso, ma non si guardarono in faccia e poco dopo scese su di loro il silenzio.
Kagami poggiò i gomiti sulla ringhiera e si chinò mollemente in avanti. «Kuroko, io…» espirò a fondo e si mise entrambe le mani fra i capelli, «mi dispiace, ok? Siamo qui a parlare come se il tempo non fosse mai passato e…»
«Perché è così» l’interruppe, «non è mai passato» ed era importante sottolineare ciò.
«No, non è così! Cioè… è…» era confuso e impacciato, «è bello riuscire a intendersi come una volta, mi fa sentire di averti ritrovato, ma se ti ho ritrovato, vuol dire che prima ti avevo perso, no?» gli rivolse un’occhiata di sottecchi piena d’imbarazzo. «Non è una cosa che possiamo ignorare, non stavolta… magari… magari…» esitò ancora, «magari questa volta facciamo che siamo abbastanza cresciuti da non girare a vuoto intorno alle cose che vorremmo dirci: non voglio raggiare la situazione ed evitare di dirti quello che penso come ho fatto prima che tornassi in America, perché… c’erano delle cose che avrei tanto voluto dirti, ma non l’ho fatto».
«Anch’io non ti ho detto delle cose» ribatté Kuroko, asciutto.
«Perché?» chiese quasi flebile, continuando a fissare solo il cielo.
«Stavi per andare via e ho avuto paura fossero inutili».
«Però poi hanno avuto un peso» rimarcò Kagami. «Senti» mosse le mani con una gestualità che a Kuroko sembrò molto da giovane americano, «comincerò da quello che vorrei dirti ora e che non voglio nascondere dietro la sorpresa di riuscire a parlarti come prima: mi sei mancato» trattenne per qualche secondo il fiato e poi continuò. «Mi sei mancato, ok? L’avevo previsto e messo in conto, te l’ho pure detto che mi saresti mancato, ma non sapere come stavi e cosa stavi facendo ha dato…» si fermò ancora una volta a cercare le parole adatte, gesticolò, «ha dato alla cosa un peso maggiore».
«Mi dispiace, Kagami-kun» parlò a testa china, fissando le luci della città.
«Dispiace anche a me, forse avrei dovuto essere più insistente».
«E io più invadente».
«C’è qualcosa che vorresti dirmi ora?... Non qualcosa del passato, qualcosa di… ora, come ho fatto io».
Kuroko ci rifletté su poco, prima di rispondergli. «Prima, quando sei arrivato con Kiyoshi senpai, sono stato davvero felice di rivederti, come se finalmente non ci fosse più qualcosa fuori posto o qualche pezzo mancante».
Kagami si perplesse. «Fuori posto o mancante… da dove
Scosse la testa. «Non lo so, forse nel nostro rapporto». "O in me" continuò col pensiero.
Restarono ancora una volta in silenzio per qualche istante, poi Kagami tornò a parlare. «Va bene se parliamo così, no?» domandò confuso. «Cioè, stiamo andando bene, parliamo».
Kuroko assentì accennando un sorriso. «Sì, stiamo parlando di nuovo, a fatica, però lo stiamo finalmente facendo». Ed era bellissimo come ci fosse tanto imbarazzo ma anche così tanta tenerezza.
«E… i tuoi studi vanno bene?» divagò Kagami.
«Sì» annuì sorridendo compiaciuto, «mi piace molto quello che studio e sono riuscito ad ambientarmi piuttosto bene all’università» l’informò. «Sai, mi fa piacere che tu sia tornato proprio per il matrimonio di Hyuga senpai e Riko-san, per un’occasione simile».
«Perché è un’occasione speciale» rimarcò lui, «non potevo mancare, voglio dire…» si grattò la nuca, «parliamoci chiaro: devo moltissimo a tutta la squadra del Seirin, perché quando qualche anno fa sono tornato qui in Giappone avevo solo il basket e me stesso, non avevo amici e perfino la mia grammatica giapponese era peggiorata! Grazie a voi già pochi mesi dopo avevo un basket migliore e degli amici: conosco le vostre storie e voi conoscete la mia, ci siamo sempre aiutati a vicenda e sostenuti quindi quale stupida ragione avrebbe potuto trattenermi dall’assistere a questo matrimonio?» smorzò la fine con un piccolo ghigno ironico.
«Nessuna» sospirò soddisfatto Kuroko, «perché sei Kagami-kun, e Kagami-kun è sempre stato fatto così: è generoso e non lascia indietro i compagni».
«E quando lo fa ci pensa Kuroko a farlo riprendere con un pugno» aggiunse lui ridendo; risero insieme.
«Davvero» aggiunse Kuroko, «sono stato felice di notare da questa tua scelta che eri ancora il Kagami-kun che ricordavo».
«E tu sei ancora il Kuroko Tetsuya che ricordo?» ribatté Kagami con un velo di malinconia.
«Non lo so» rispose onesto, «ho ventun anni, adesso, tutti ci siamo lasciati l’adolescenza alle spalle» concluse poggiando anche lui come Kagami le braccia sulla ringhiera sporgendosi in avanti.
«Ho però l’impressione che lo zoccolo duro dei tuoi difetti sia rimasto invariato» commentò Kagami con ironia, «perché hai ancora la tendenza a scomparire per poi riapparire dal nulla».
Lui sbuffò un sorriso. «Kagami-kun, non dovresti prendermi in giro quando anche tu hai ancora sostanzialmente gli stessi difetti».
«Dici sul serio? Come fai a dirlo?»
Le loro braccia si sfioravano, i loro visi erano vicini e lo sguardo dell’uno era fisso sull’altro: era un momento perfetto, perfino migliore di qualsiasi attimo in cui in passato avevano avuto su un campo da basket un contatto visivo veloce ma intenso per un passaggio perfetto.
«Perché ti ho sempre osservato molto» quasi mormorò in risposta.
«Davvero?»
«Sì, ti ho osservato anche oggi».
«Anche ora?»
«Anche ora».
E Kuroko sperò davvero di potersi fidare di quello che stava osservando ora sul volto di Kagami, sperò davvero di poter addirittura annegare nella convinzione che tutto fosse vero e non un’illusione, che potesse finalmente permettersi di rischiare anche di perderlo e di perdersi – perdere Kagami, se stesso e qualunque cosa loro due fossero insieme – perché, sul serio, non ce la faceva più e non poteva mica nascondersi ancora dietro la scusa di essere un ragazzino immaturo e inesperto.
Si avvicinarono l’uno verso l’altro a scatti, esitanti perché curiosi e un po’ imbarazzati e impacciati – pensò che dovevano essere entrambi davvero consapevoli di cosa stesse per accadere – poi col cuore in gola si tuffò nell’attimo decisivo in cui chiuse gli occhi e inclinò appena la testa di lato: quando sentì le loro labbra incontrarsi, non riuscì a trattenere un piccolo sorriso sbuffato di sollievo e felicità, ma poi Kagami premette più forte la bocca contro la sua e gli mise la mano dietro la nuca; il bacio diventò uno di quelli veri in modo brusco e repentino, ma non del tutto inaspettato, e Kuroko capì che finalmente ce l’avevano fatta. Si erano parlati – in qualche modo – erano insieme.
Kuroko sentì le gambe diventargli molli man mano che il baciò continuò, e lo stare piegato in quella scomoda posizione non lo stava aiutando affatto, ma era fuori discussione separarsi da Kagami: gli artigliò le mani sulla maglia, sul petto, tirandolo giù con lui; Kagami lo seguì docile inginocchiandosi a terra con lui. Riparati dall’ombra scura della ringhiera, continuarono a baciarsi a lungo muovendosi in modo istintivo, incastrando i loro corpi alla meglio per stare più vicini e toccarsi di più.
C’era stato un tempo, quando Kuroko aveva ancora sedici anni e tanto, troppo tempo per perdersi dietro le proprie fantasie, in cui aveva fantasticato spesso di lui e Kagami seduti a terra in un angolo della palestra vuota, intenti a baciarsi. Adesso invece erano lì ed era tutto reale, erano seduti a terra e lui se ne stava inginocchiato fra le gambe di Kagami, che gli teneva le mani sui fianchi – sotto la maglia – ed erano al riparo dalla luce lunare e da occhi indiscreti.
Kagami interruppe la sequenza di baci intensi solo per stringerlo di più a sé e posare la fronte contro la sua spalla. «I missed you» gli parlò in inglese, forse senza neanche rendersene conto. «I missed you so much… so bad».
Kuroko avrebbe voluto dirgli quanto avesse sofferto anche lui la sua mancanza, ma non trovava le parole adatte e la loro vicinanza fisica lo stava solo portando a intossicarsi con l’idea di toccarlo ancora: gli allargò il colletto della maglia, scostò appena la catenella che portava ancora al collo e lo morse, un piccolo ma intenso morso che scaricò lui dell’ansia e caricò Kagami d’aspettativa, perché lo sentì rabbrividire sotto le sue mani e poi sospirare forte prima che cercasse la sua bocca per baciarlo di nuovo, con più impeto.
«Mi dispiace» mormorò Kuroko, mentre Kagami rifugiava di nuovo la testa contro l’incavo del suo collo e distendeva i palmi delle mani sulla pelle nuda della sua schiena; Kuroko lo strinse forte a sé. «Mi dispiace» ripeté, «se nella mia vita c’è stato qualcosa a cui per la prima volta ho davvero rinunciato è stato dirti questo, quello che sentivo, ma pensavo che poi avrei rovinato tutto perché magari mi stavo illudendo e non volevo che tu partissi per l’America con questo ricordo e…» Kagami lo fermò con un altro bacio.
«Stai parlando troppo» gli disse col fiato corto, «e non mi sembra questo il momento adatto per porre fine alla tua laconicità» riprese a baciarlo.
Kuroko represse a stento una risata contro la sua bocca, gli allacciò le braccia al collo. «Però dovremmo parlare» gli fece notare, «ci sono delle cose di cui dobbiamo discutere» precisò.
«Lo so» gli mise una mano sulla nuca, «dopo» lo spinse di nuovo a baciarlo.
Era bello però scoprire che Kagami baciava con la stessa intensità e passione con cui giocava. S’impegnò ad approfondire per bene quella scoperta per tutta la notte.


Takao andò in cucina mentre un sorriso pigro si distendeva sul suo volto: era dannatamente divertente osservare come gli altri, sparsi a terra, stessero dormendo in strane posizioni, roba da far loro delle foto.
Gli venne l’istinto di prendere una padella e un mestolo e sbatterli forte fra di loro per svegliare tutta la banda, ma si disse che in fondo alla sua vita ci teneva, quindi a malincuore rinunciò a quel piano. Si disse però che almeno avrebbe potuto concedersi di prendere un pochino in giro Kasamatsu, il giorno dopo: poteva sembrare strano, ma nel sonno non era Kise a stare addosso a Kasamatsu, ma Kasamatsu a stare addosso a Kise; era perfino tenero. Si tappò la bocca con una mano per non scoppiare a ridere.
Prima di entrare in cucina aveva notato come i futon di Kuroko e Kagami fossero vuoti: non se ne meravigliò, si concesse però un sorriso soddisfatto e appena velato di malinconia – quello non sembrava proprio qualcosa che a lui sarebbe successa a breve.
In silenziò cercò in dispensa qualcosa con cui fare una colazione semplice senza l’uso di fornelli, poi cercò nel proprio borsone carta e penna e si accomodò al tavolo per scrivere un paio di note di ringraziamento per l’ospitalità a Kiyoshi, mentre con l’altra mano si aiutava a mandar giù cucchiaiate di latte freddo e cereali.
Restò sorpreso quando vide Kagami entrare nella stanza; Takao si pulì con la manica della maglia un baffo di latte che sentiva sopra il labbro superiore e lo salutò a bassa voce e con un piccolo cenno del capo. «Buon giorno». Lo vide andare verso il frigo.
«Buon giorno» lo ricambiò un po’ perplesso, forse sperava di non incontrare nessuno.
«In frigo c’è ancora dell’altro latte» l’informò.
«Uhm, no… non sono qui per fare colazione, a esser sincero sono ancora un po’ sballato dal jet lag» aprì il frigo, «volevo solo un po’ d’acqua». Si chinò e allungò un po’ il collo in avanti, abbastanza da poter inconsapevolmente permettere a Takao di notare la presenza di uno strano segno sul collo.
Takao non poté esimersi dal ghignare silenzioso. "A quanto pare però il jet lag non ti ha fermato da fare certe cose, eh?" pensò. "Un succhiotto… o forse un morso, o magari entrambi: dopotutto Tetsu-chan non è per niente una persona remissiva, e sa pure essere possessivo con quello che gli appartiene…"
Osservò Kagami fissare incerto il contenuto del frigorifero, nonostante avesse una bottiglia d’acqua proprio davanti agli occhi: era palese che stesse cercando qualcosa anche per Kuroko. Takao decise che sarebbe stato divertente e soprattutto appropriato prodigarsi ad aiutarlo.
«Prendi il latte alla fragola, a Tetsu-chan piace» gli suggerì.
Kagami, tardo come lo erada sempre, protrasse una mano per prendere la bottiglia indicata da Takao e aprì perfino bocca per ringraziarlo, salvo poi ritrarsi dopo la prima sillaba e voltarsi a guardarlo sconvolto e imbarazzato.
«Io e Tetsu-chan viviamo insieme» gli spiegò Takao a bocca piena, «lo so cosa preferisce di solito a colazione, vai pure tranquillo» lo rassicurò.
«Non è questo il problema» fece l’evidente sforzo di tornare padrone di sé, «e comunque… Tetsu-chan?» chiese perplesso e anche… vagamente minaccioso?
Takao aveva sempre trovato divertente far ingelosire i ragazzi e le ragazze che ci provavano con lui e Kuroko chiamando l’altro "Tetsu-chan" a gran voce, possibilmente con tone dolce, affettuoso e melodioso, era un gioco ma anche un’abitudine priva di malizia, ma credette che non sarebbe stato proprio il massimo del divertimento se 1,90 di… di tigre gli si fosse scagliata addosso per gelosia.
E poi non gli piaceva neanche l’idea di creare per errore degli stupidi problemi fra quei due proprio ora.
«No, no!» agitò la mano. «Lo chiamo sempre così da quando viviamo insieme, ma non c’è assolutamente nulla fra di noi, né c’è mai stato!» scandì bene. «Dividiamo solo l’appartamento».
«Ah» esalò, restando tuttavia ancora pensieroso e sedendosi al tavolo, di fronte a lui. «Quindi tu hai capito che…» esitò, «… hai capito tutto» riassunse vago.
«Più che altro so tutto: Tetsu-chan è un mio amico» precisò con un pizzico di fierezza, «vivendo sotto lo stesso tetto per molto tempo si finisce col legarsi e supportarsi a vicenda, è naturale». Mandò giù in gola una cucchiaiata di cerali ed esitò appena prima di aggiungere quello che pensava sul serio. «Tetsu-chan non è stato molto bene dopo la tua partenza: era spesso giù di morale e preferiva perlopiù stare per i fatti suoi. Si era allontanato anche un po’ dal basket» si premurò di informarlo cercando il suo sguardo con il proprio. «Quindi stavolta prima di partire cerca di essere chiaro con lui, o costringilo a essere chiaro» portò alla bocca un’altra manciata di cereali.
«Mi dispiace» si corrucciò. «Sei stato tu a stargli vicino nel frattempo?» domandò in evidente disagio. O forse stava cercando in malo modo di reprimere un attacco di invidia e gelosia.
«Sì, sono stato io a fargli da balia, e lui l’ha fatto con me» pausa a effetto. «La balia, intendo». Non poteva farci niente, era troppo divertente stuzzicare gli altri in momenti simili. Kagami si schiarì la voce, nervoso.
«Comunque» continuò poi Takao, «gli sono stati vicini anche Aomine e Kise. Tetsu-chan è un bravo ragazzo, non lascia mai da sole le persone che ama, lo abbiamo solo ricambiato. Fallo anche tu» l’esortò con un piccolo sospirò finale.
Kagami gli annuì e poi mormorò un timido e roco "Grazie"; Takao gli replicò con un sorrisetto e una scrollata di spalle.
«Ci sentiamo» si congedò Kagami alzandosi con attenzione dalla sedia per fare meno rumore possibile e non svegliare gli altri, e gli rivolse la schiena.
«Ah, Kagami!» lo richiamò Takao; lui si voltò a guardarlo, sorpreso. «Occhio!» l’avvisò, facendo un cenno con due dita al lato del proprio collo, lasciandogli intendere di guardare cosa avesse lì lui.
Kagami dovette intuirlo, perché nascose la "prova" – e "segno" di Kuroko – con una mano e andò via di corsa arrossendo e stringendosi nelle spalle.
Takao si trattenne a stento dal battere i pugni sul tavolo per il troppo ridere: che mattinata fantastica!


Ryota nel sonno sentì qualcosa muoversi e ronzare accanto alla sua testa; infastidito, storse il naso e aprì gli occhi emettendo un flebile lamento: era il suo cellulare.
Era quasi l’una di notte, aveva trascorso la nottata precedente perlopiù in bianco con quelli del Seirin da Kiyoshi e ora stava cercando di dormire il sonno dei giusti con il suo Yukio che gli stava per metà steso addosso: chi diavolo stava cercando di rovinare quel magnifico piano? Fece una smorfia e cercò a tastoni con la mano i propri occhiali sul comodino, li indossò e lesse bene il nome che lampeggiava sul piccolo schermo.
Midorima Shintaro.
Era il colmo. Francamente, se lo stava chiamando solo per chiedergli se potesse prestargli qualcosa che aveva solo lui fra i suoi conoscenti ma che era stato disegnato come suo portafortuna del giorno, l’avrebbe pestato a sangue. Seriamente. Ryota era buono e caro, ma nessuno doveva dar fastidio a lui e il suo Yukio mentre erano a letto insieme, sia che stessero dormendo, sia che stessero facendo altro.
Aprì la linea e portò il cellulare all’orecchio. «Che succede?» esordì senza salutarlo e provando a essere il meno brusco possibile.
«Volevo chiederti delle cose. Delle informazioni» rispose con tono anche fin troppo formale.
«E non potevi aspettare domani mattina per chiedermele?» Parlava a bassa voce, fissando Yukio che dormiva ignaro con la guancia premuta contro il suo petto e una mano stretta sulla sua spalla: era sempre bello vedere come nel sonno fosse Yukio quello fra i due a essere possessivo. Yukio lo cercava sempre e voleva sempre tenerlo con sé anche inconsciamente.
E comunque beato Yukio che aveva il sonno pesante.
«Ho guardato il tuo oroscopo» gli spiegò Midorima, pragmatico e convinto, «hanno detto che stanotte i gemelli avrebbero avuto problemi a dormire, quindi ne ho approfittato».
Era basito. «E questa ti sembra una buona scusa per chiamarmi a quest’ora?»
«Sì».
«Non hai pensato che forse avrei avuto dei problemi a dormire proprio perché tu mi avresti chiamato?»
«No, ho fatto molto di più, ho agito di conseguenza: i gemelli avrebbero avuto problemi a dormire per via di un cancro».
«Io…» si passò una mano sul volto, esasperato. «Ci rinuncio» sospirò, consolandosi stringendo meglio Yukio a sé, che a sua volta emise nel sonno un piccolo grugnito compiaciuto. «Midorimacchi, insomma, cosa vuoi?»
«Che ti ha detto Takao dopo la mia partenza? Sii sincero».
Ryota si rabbonì, inspirò a fondo. «Takaocchi…» si grattò un sopracciglio, pensoso, «beh, Takaocchi subito dopo è stato abbastanza a pezzi» glielo disse perché Midorima stesso doveva esserlo altrettanto se lo stava chiamando; lo sentì tacere. «Vederti per lui è stato un brutto colpo, ok? Perché gli ha ricordato sia quello che provava per te, sia come si è sentito quando l’hai rifiutato in quel modo… e comunque tu fai abbastanza schifo a scusarti!»
«Le cose non sarebbero dovute andare così» ritorse, «ne abbiamo già parlato! Solo che…» sembrò calmarsi per poi esitare.
«Solo che?» incalzò.
«Anche per me vederlo è stato un brutto colpo: mi ha sbattuto in faccia i miei errori» ammise senza troppi giri di parole, ma con voce ferma. «Hai presente quando perdi una partita e poi passi la notte sveglio, con gli occhi fissi al soffitto, a ripensare a ogni tua mossa fin nel più piccolo dettaglio, per provare a capire perché hai perso? E nel farlo stai male, ti senti sempre più frustrato, però lo fai lo stesso».
«Sì, ho presente» mormorò, abbassando appena la testa per sfiorare i capelli di Yukio col naso – ancora un piccolo gesto per consolarsi da solo.
«Ecco, sto passando notti simili, alterno volte in cui ripenso alla confessione di Takao e il pugno che gli ho dato a volte in cui ripenso alla nostra ultima discussione».
«E hai trovato dove hai sbagliato?»
«Forse. Cioè, credo di sì» si corresse. Ryota sorrise, perché sentì nella voce di Midorima tutta la tipica incertezza ed esitazione di chi sente l’impellente bisogno di avere qualcuno al proprio fianco per potersi dire certo. Aveva ben presente anche quella di situazione. «Ho bisogno di rivedere Takao» ammise sconsolato. Appunto.
Ryota sbuffò un sorriso malinconico e intenerito. «Midorimacchi, ascolta…» iniziò a dire paziente.
«No, voglio sapere dove posso trovare Takao, perché…»
«No, ascolta» ripeté piano e ostinato. «Credo che tu in questo momento sia confuso dai tuoi stessi bisogni e sia anche un po’ disorientato, ma quello che più conta è che tu non sia anche spaventato perché sappiamo entrambi che le prime due volte sei fuggito per questo, per la paura, no?»
«… sì».
«Ecco» sospirò, «quindi… rifletti» l’invitò. «Tu con Takao ai tempi della scuola hai fatto un tuo percorso, no? Penso che sia inutile nascondere che i passi da gigante che hai fatto nella vita e nei rapporti umani è anche merito di Takao, soprattutto merito di Takao, solo che… purtroppo poi hai avuto bisogno di respirare aria nuova e lontana da lui per capire la vera importanza di questi passi. In questo preciso momento ti trovi a un paio di passi e un bel respiro profondo da quello che vuoi di più, forse anche dal tipo di persona che più ti piace essere» si azzardò a dire, «quindi fai ancora un altro bel respiro profondo» inspirò a lungo per spronarlo metaforicamente, «e poi rispondi: stavolta pensi di poter riuscire a fronteggiare le tue debolezze e accettarle?»
«Sì» replicò cauto ma sereno.
«Ok, allora prendi carta e penna: ti detto l’indirizzo di Takaocchi e Kurokocchi e i posti in cui potresti in caso trovarlo».
Gli disse dove abitava Takao e gli ricordò anche come raggiungere il campetto dei ciliegi.
«Grazie» gli disse Midorima, asciutto.
Ryota sorrise. «Cerca solo di non mandare tutto all’aria anche stavolta» l’ammonì con finto tono lamentoso. «Buonanotte» tagliò subito corto per terminare la chiamata.
«Ah, Kise!» lo richiamò.
«Sì?» chiese perplesso.
«Comunque stanotte non avresti avuto problemi a dormire solo per colpa di un cancro».
«Ah no?» era sempre più confuso.
«Anche per colpa di un leone. Buonanotte» e riattaccò secco.
Ryota restò interdetto per un attimo, poi sentì il suo leone muoversi di più addosso a lui e capì; scoppiò a ridere.
«Hai finito di fare la comare pettegola con quell’idiota dell’oroscopo?» si lamentò Yukio con voce roca.
«Come fai a dire che era lui?»
«L’accento inconfondibile» bofonchiò contro il suo petto. «Talmente forte che mi è arrivato fino a qui» s’indicò l’orecchio con fare quasi delirante.
«Sei sveglio da molto?» gli chiese un po’ preoccupato.
«Da abbastanza tempo da sentire bene come mi palpavi» l’informò, inspirando a fondo e sollevandosi appena da lui puntellando i gomiti contro il materasso.
«Non ti stavo palpando» obiettò alzando un dito con fare sentenzioso.
«Mi stavi perfino annusando» rincarò; Yukio era ancora mezzo addormentato e aveva una buffa espressione seria quanto scocciata in volto, ma le sue intenzioni sembravano molto chiare: con un ginocchio lo spinse ad allargare le gambe e si accomodò meglio sopra di lui.
Ryota deglutì a stento. «Ti stavo… coccolando» precisò con poca convinzione.
Yukio si sfilò la maglia, poi gli tolse gli occhiali, gli prese il viso fra le mani e con l’aria seccata di chi parla con un bambino capriccioso gli baciò la fronte. «È notte fonda, mi sono svegliato per colpa tua e sempre per colpa tua sono eccitato, quindi adesso sta’ buono e lasciati punire, che sono troppo stanco per picchiarti come al solito» e si prodigò a togliergli la maglietta.
Ryota ostentò stupore. «Yukicchi, non conoscevo ancora questo tuo lato da aggressore sonnambulo, devo dire che lo trovo interessante!»
«Taci» mormorò abbassandosi a baciargli il petto.
«Penso che potrei chiedere a Midorimacchi di chiamarmi anche domani notte!»
«Ho detto taci» gli tappò la bocca con la sua, baciandolo a lungo.
Ryota piegò le ginocchia per premergliele contro i fianchi e decise che sì, tutto sommato poteva permettere al suo leone di non farlo dormire per quella notte.


Kuroko aveva lasciato Kagami da Kiyoshi ed era tornato a stare momentaneamente dai propri genitori e la nonna – almeno fino alla partenza di Kagami e il ritorno all’università.
Molti dicevano che era sempre nostalgico tornare a casa dopo essere vissuti a lungo altrove, in una città più grande, che a guardarsi intorno tutto sembrasse poi più piccolo e scomodo, ma a Kuroko non sembrava affatto così: camminando lungo il marciapiede tutto appariva come nuovo o diverso ai suoi occhi, perché poteva coglierne sfumature che da ragazzino gli erano sfuggite ed era piacevole; era come affermare che una volta tanto il tempo passando non aveva lasciato brutti segni, ma solo la maturazione del suo senso delle cose.
Aveva dato appuntamento a Kagami al vecchio campetto da basket non molto lontano dal Maji Burger, in tarda mattina in modo che né lì né dintorni non ci fosse qualcuno – i ragazzi sarebbero stati a scuola, la gente ancora a lavoro.
Il vento fresco, frizzante, ma leggero della primavera lo investì appena facendogli sventolare la camicia slacciata su una maglia; si strinse nelle spalle e si avvicinò alla rete del campo per osservare non visto Kagami: l’aveva preceduto e stava giocando da solo.
Notò che nello stile di Kagami c’erano poche tracce di quello che era stato qualche anno prima; certo, erano tracce simboliche, degli elementi che l’avevano sempre contraddistinto e sempre avrebbero continuato a farlo, ma tutto il resto era diverso: era meno aggressivo e più forte, più agile e meno veloce – perché meno avventato, forse. Doveva essere stato influenzato dal nuovo coach e dai nuovi compagni di squadra, doveva essere quindi anche un po’ cambiato come persona, ma… non poteva biasimarlo, perché era cambiato anche lui. E non doveva essere per forza una brutta cosa.
«Kagami-kun?» lo chiamò stando attento a non spaventarlo; ebbe successo, almeno stavolta.
«Oi!» gli sorrise, lanciando il pallone verso di lui per farlo rimbalzare ai suoi piedi; Kuroko lo prese al volo, lo soppesò per qualche secondo e poi mirò al canestro.
Ovviamente la palla non entrò.
«Fai ancora schifo» constatò Kagami, ironico e divertito.
Lui riprese il pallone e ci giocherellò. «Tu invece sei migliorato molto, il tuo stile si è raffinato».
Kagami inarcò un sopracciglio, ma non sembrò molto sorpreso. «Mi hai spiato?»
«Ti ho osservato» ritorse cocciuto; strinse il pallone fra le mani. «Uno contro uno?» propose.
Kagami trattenne malamente una risata. «Ora come ora, non so quanto potresti durare contro di me».
Sospirò. «Hai ragione». Si "vendicò" tirandogli la palla addosso con forza.
Lui rise. «Con le tue peculiarità, però, potresti essere un vero campione di palla prigioniera!»
«Grazie, ma no: non rientra fra le cose che mi piacciono».
«Ti mancano le partite ufficiali?» gli chiese Kagami con un po’ di nostalgia.
Avevano parlato molto in quegli ultimi due giorni, si erano raccontati cosa avevano fatto in quegli anni e delle loro nuove abitudini, e lui gli aveva parlato anche del campetto dei ciliegi. «Alle volte» riprese il pallone e lo fece roteare in equilibrio sopra un dito, «però il basket, anche se non è stata la mia scelta per il futuro, è e sarà sempre il mio stile di vita».
«Lo so» sospirò guardandolo negli occhi con una certa fierezza.
Lui era orgoglioso di Kagami, e Kagami era orgoglioso di lui: comunque sarebbero andate le cose, niente avrebbe potuto toccarli. Come aveva fatto a dimenticarlo o a non tenerlo in conto?
«Kagami-kun, dobbiamo però parlare di alcune cose…» esordì, ma lui l’interruppe mettendo una mano davanti a lui con espressione seria e un po’ scocciata.
«Prima, però, dobbiamo cercare di superare una tua certa abitudine, Tetsuya».
Kuroko capì l’antifona, si corrucciò appena e strinse il pallone a sé. «È una forma di cortesia, Kagami-kun».
«Ci conosciamo da anni, mi sarei anche un po’ rotto di tutta questa cortesia: veniamo al dunque, Tetsuya
«È la mia natura e il mio modo di parlare, il mio stile, non voglio cambiarlo, Kagami-kun» si ostinò.
«Non mi piace che una persona con cui sono cresciuto e a cui tengo mi chiami ancora per cognome, Tetsuya».
«Questo perché hai trascorso troppo tempo in America, Kagami-kun, hai pure assorbito una strana gestualità, oltre che a uno strano accento e modo di parlare» ritorse puntiglioso.
«Non c’entra da dove vengo, stiamo parlando del nostro rapporto». Non stavano litigando, si stavano punzecchiando ed era bello: gli era mancato. «Ahhh» si lamentò, «mi arrendo, prova almeno usando il suffisso onorifico!»
Kuroko tacque.
«Andiamo, Tetsuya
Kuroko inspirò a fondo, abbassò lo sguardo e palleggiò distratto una paio di volte. «Taiga-kun» si arrese a dire a bassa voce.
Taigasorrise soddisfatto, gli rubò il pallone dalle mani e lo lanciò al canestro, centrandolo. Tetsuya sperò che Aomine non lo venisse mai a scoprire, o l’avrebbe costretto per dispetto e proprio diletto a chiamarlo Daiki-kun, magari durante una videochattata fissandolo a tutto schermo con la solita espressione da maniaco esaltato inquietante.
Taiga lo distrasse dai propri pensieri. «Dovevi dirmi?»
Cercò di sembrargli il più serio possibile. «Quando tornerai a Los Angeles…» iniziò.
Lui aggrottò la fronte e sbottò subito, interrompendolo. «Non ho intenzione di lasciarti!»
«Neanch’io» gli disse subito, «ma fra le cose che un paio di anni fa mi hanno trattenuto dal dirti quello che provavo per te c’era anche la lontananza, il fatto che avremmo intrapreso vite diverse e…» sospirò, «stiamo parlando di due continenti diversi, Taiga-kun, non è il massimo della praticità per portare avanti una relazione, soprattutto se si ha degli stili di vita l’uno diverso dall’altro».
Taiga s’impensierì e palleggiò a sguardo basso. «Non ho mai detto che sarebbe stato facile».
«E io non ho mai detto che voglio rinunciarci, voglio solo che sia chiaro a entrambi quello che ci aspetta» specificò.
«Se ci prefissiamo degli obiettivi, dei progetti comuni, magari riusciremo a sentirci lo stesso insieme anche se lontani, no?» propose Taiga con un leggero imbarazzo. «Cioè, se programmiamo di fare qualcosa insieme in un futuro e continuiamo a pensarci, anche se nel frattempo saremo lontani e su strade diverse, ci sentiremo uniti perché sappiamo che nel futuro ci aspetta qualcosa, questa cosa».
Tetsuya esitò appena, era molto tentato. «Mi piacerebbe molto fare dei progetti per il futuro con te, ma sono troppo orgoglioso di te come giocatore per far pesare sulla sua carriera una cosa banale come la mia posizione geografica» inspirò a fondo. «So quanto ami il basket e mi piace anche questo di te, sono fiero di te e di come hai portato avanti i tuoi sogni e la tua passione, non sarebbe giusto quindi chiederti di lasciare l’America e tornare qui in Giappone solo per me». Si strinse nelle spalle. «Se siamo diversi è anche perché tu sei il tipo da poter lasciare la propria patria e andare in America quando vuoi, io invece no: conosco i miei limiti e la mia natura, penso che si noti anche dal mio modo di parlare quanto io sia legato a certe tradizioni e quindi anche alla mia terra».
«Non sceglierò mai il basket rinunciando a te» obiettò Taiga, irritato.
«Non è quello che sto insinuando, e comunque non vorrei mai un Taiga-kun senza basket» smorzò appena con un sorriso, «solo che… potremmo non fare progetti per il futuro?» sospirò. «Non voglio pensare a cosa faremo una volta che entrambi finiremo gli studi, voglio pensare a quello che abbiamo ora, perché…» Gli rubò il pallone dalle mani e palleggiò frustrato fissando solo il campo ai suoi piedi. «Perché quello che mi ha fermato anni fa è stata la lontananza» ripeté il concetto, «non voglio quindi pensarci troppo e fare programmi, voglio solo prendere atto che c’è effettivamente questo problema e affrontarlo giorno dopo giorno senza progetti che possano mettere ansia» trattenne il pallone fra le mani. «Forse non vederti per così tanto tempo era la boccata d’aria nuova che mi serviva per sapere e capire che senza di te sto peggio, quindi tanto vale accettare la lontananza».
Taiga si rimpossessò del pallone. «Ok, adesso che mi hai raccontato delle tue paranoie, parlo io. Voglio diventare il numero uno al mondo, va bene? Hai idea di come si possa ottenere una cosa simile? Ti rispondo subito: giocando con la propria nazionale» concluse con tono serio, e riuscì a catturare per bene la sua attenzione e fargli alzare lo sguardo su di lui. «Doppia cittadinanza a parte, ti sembro il tipo da voler giocare con la nazionale statunitense? Avrò imparato il modo di giocare a basket negli States, ma è qui che ho imparato a essere un giocatore a tutto tondo, ad avere una personalità come giocatore; è qui che vivono la gran parte delle persone a cui tengo: posso anche andare a migliorarmi ancora in America, ma sarà sempre qui che tornerò, e la mia pretesa sarà sempre rappresentare un giorno questo paese» lanciò a canestro. «E voi» fece centro.
Tetsuya inspirò a fondo e incrociò le braccia al petto. «Questo però è un progetto».
«È il mio progetto! Abbiamo vinto una Winter Cup e un Inter-High alle superiori e siamo diventati i numero uno in Giappone, e nel farlo ho potuto sfidare giocatori forti quanto me o più di me, perché non puoi essere il migliore se non sai accettare delle sfide né ti impegni a giocartele bene. Ora sto facendo la stessa cosa all’interno della College League, mi ci vorrà del tempo, ma… cavolo, voglio raggiungere quella dannata vetta e godermi ogni singola sfida! E quando avrò finito mi resterà solo un’ultima cosa da fare per divertirmi ancora a sfidare persone che non ho ancora incontrato: entrare nella nazionale. Hai intenzione di togliermi questo piacere?» concluse ironico e sottilmente minaccioso.
«No» sbuffò.
«Certo che non vuoi, perché senza basket non mi vuoi» sottolineò con ironica fierezza, «e io non ti voglio senza le tue scelte, quindi… ok, resta qui in Giappone a costruirti il tuo futuro, io farò lo stesso in America, perché se così non fosse non saremmo noi, ma… tornerò, Tetsuya, va bene? Non so quanto tempo impiegherò, ma tornerò. Non è un programma, né tantomeno una promessa: è un dato di fatto, perché è quello che voglio per completare il mio percorso».
Tetsuya recuperò il pallone, pensoso. «Ti aspetterò» si arrese.
«Lo so».
«Continuando nel frattempo a supportarti».
«Come hai sempre fatto» sorrise Taiga, ironico. «È questo che siamo noi, no?» indicò prima se stesso e poi Tetsuya. «Ci supportiamo sempre a vicenda».
Tetsuya si sentì finalmente più rilassato, perché sì, in fondo Taiga sapeva sempre come schiarirgli le idee e supportarlo. Ricordò una frase che a volta Kise diceva a bassa voce a Kasamatsu.
«Io e te siamo storia» disse a Taiga con un sorriso fiero, guardandolo negli occhi.
Lui lo ricambiò con lo stesso sorriso. «Già, puoi dirlo forte!»
Un paio di anni prima, in quello stesso campetto ma alla luce della luna, Tetsuya non aveva intrecciato le dita alle sue, ora alla luce del sole voleva farlo: allungò una mano verso la sua e Taiga sbuffò un sorriso capendo subito le sue intenzioni.
«Tornerò» gli disse Taiga sicuro e fiero, intrecciando le dita alle sue e chinandosi per poggiare la fronte alla sua. «Nel frattempo non sarà facile stare insieme, ma presto o tardi sarò sulla strada del ritorno».
Tetsuya con l’altra mano stava sorreggendo il pallone, che se ne stava fra di loro come sempre, ma non li infastidiva, anzi in qualche modo li univa ancora: non avrebbe mai dovuto pensare che senza il basket di mezzo il loro rapporto sarebbe finito, perché era impossibile che il basket li abbandonasse del tutto.
Non c’era nessuno intorno, e comunque gli importò poco di essere visto: lasciò andare la mano di Taiga e l’afferrò per il colletto della maglia per tirarlo con forza verso di sé; lo baciò sulla bocca.
Del resto, che fossero destinati prima o poi a baciarsi su un campo di basket faceva anche parte della storia.


Con Kuroko fuori casa, Takao si sentiva libero di auto commiserarsi almeno un po’.
"Tetsu-chan è a vivere la sua personale storia d’amore e di basket gay" pensò ironico, "quindi credo di avere tutto il diritto di vivere invece il mio personale disastro gay". Era deciso a passare la sua ennesima serata spaparanzato sul divano arancione a giocare ai videogames bevendo birra e mangiando patatine, da solo, perché era questo pressappoco il modo in cui provava sempre a distrarsi dalle situazioni più spiacevoli. Peccato che l'effetto durasse poco e provocasse dipendenza: più lo faceva, meno durava, meno durava, più lo faceva.
Vedere Midorima gli aveva solo dato conferma di quanto lui fosse rimasto un idiota ingrato incapace di buttar fuori quello che pensa e sente sul serio: era stato un bis poco gradito. Dopo la delusione iniziale, ora era soltanto arrabbiato, e tanto, con lui, con se stesso e anche con il mondo intero.
Sbuffò seccato, quando sentì suonare alla porta, andò ad aprire scalzo; guardò per prima chi fosse dallo spioncino e restò perplesso quanto sconvolto.
Appoggiò una mano alla porta e l’altra alla maniglia, indeciso su cosa fare, ma comunque, se non gli avesse aperto, non sarebbe stato un gesto di codardia, ma solo di stanchezza. E stava proprio pensando di farlo quando…
«So che sei in casa» lo sentì dire.
Takao inspirò a fondo, irritato quanto rassegnato, e gli aprì.
Midorima Shintaro lo guardò subito dritto in faccia, rigido ma serio, quindi a Takao sembrò un obbligo ricambiarlo col migliore dei propri sorrisi strafottenti.
«Tetsu-chan non c’è, ripassa fra un paio di giorni» provò a tagliar corto con sarcasmo, anche se sapeva benissimo che lui non era certo venuto lì per Kuroko – quei due non erano mai andati un granché d’accordo – voleva soltanto infastidirlo e pestargli la coda ancora un po’.
«Non sono qui per lui».
«Ah no?» Pestargli la coda, punzecchiargli il posteriore con un rametto.
«Non mi fai entrare?»
«Certo!» l’invitò a entrare con sarcasmo, quasi lo stesse facendo accomodare a quel paese con tanto piacere. Per mettere ancora più in evidenza quanto Midorima fosse un ospite poco gradito, Takao restò fermo all’ingresso con le braccia incrociate sul petto, come a dirgli implicitamente di spicciarsi a parlare e andare subito via, che non gli avrebbe mica offerto da bere – le birre comunque erano tutte sue a prescindere.
«Chi ti ha dato l’indirizzo mio e di Tetsu-chan? Akashi?» indagò diretto.
«No, quello da parte mia sarebbe stato barare: ovvio che lui lo sapesse e che me l’avrebbe dato a priori».
Takao sogghignò privo d’allegria. «Quindi hai avuto il benestare di Kise» ipotizzò.
«Esatto» si spinse gli occhiali indietro sul naso.
«E come l’hai convinto? Gli hai detto il suo oroscopo?»
«… Quasi».
«Senti» sbottò seccato, «smettila di giocare pulito ed elegante solo quando ti fa comodo e vieni al dunque, che non l’ho mica dimenticato che quando non sai che altro mezzo usare vai di pugni».
«È questo il punto, Takao, sei l’unica persona che io abbia mai preso a pugni».
«E non credi che già solo questo non mi faccia incazzare?!» alzò un po’ la voce. «Come pensi che possa farmi sentire meglio sapere di essere l’unica persona al mondo a ispirarti manie omicida?! E comunque questo lo sapevo già da un pezzo, più precisamente da quando un paio di anni fa mi hai guardato come se fossi la cosa più terrificante al mondo, qualcosa da cancellare dalla faccia della Terra a suon di pugni! Pensi che l’abbia dimenticato?»
«No, ed è per questo che poi me ne sono andato via subito».
«Pensavi che ti avrei ricambiato con la stessa moneta?» continuò con il sarcasmo.
«No» alzò anche lui la voce, «al contrario: perché sapevo che tu non l’avresti mai fatto, e ciò era terribile, Takao! Terrorizzante!»
Quell’ultima frase lo colpì come un pugno allo stomaco, Takao sentì il bisogno di indietreggiare di un passo e appoggiarsi di schiena alla parete, improvvisamente svuotato. «Non penso di essere…»
«Sì, che lo sei!» l’interruppe; era nervoso, arrabbiato e serio, era il solito Midorima che vedeva prima di una partita importante e alla ricerca di una rivincita, e ciò lo stava destabilizzando.
«Lascia che ti spieghi, ok?» continuò Midorima. Takao trovò quantomeno bizzarro che Midorima stesse cercando di spiegargli quello che gli passava per la testa con l’espressione seria e pratica di uno che spiega la prossima strategia di attacco e difesa da usare per vincere, ma dopotutto quello era Shin-chan, e Shin-chan era fatto così anche quando si trattava di sentimenti. Gli annuì e lo lasciò proseguire.
«Il più delle volte, quando si tratta delle cose a cui tengo di più, arrivo secondo; non importa quanto impegno io ci metta: posso essere quasi sempre il vincitore, posso riconfermare più volte le mie abilità personali e di essere il più bravo in assoluto in ciò che mi riesce meglio, ma arrivato alle battaglie che più mi interessano… perdo o arrivo secondo. È la storia della mia vita» concluse con un triste ghigno ironico.
«Quell’ultima partita contro Akashi» continuò poi, «non era solamente una partita, tu lo sai cosa intendo ed è inutile che te lo dica… o forse no» si corresse. «Diciamo che c’era davvero tanto sul campo quella volta, era qualcosa che valeva sia per me come persona che per me come giocatore perché ero contro Akashi, ma con la nostra squadra, Takao» lo guardò dritto negli occhi. «Eravamo al nostro ultimo anno, la nostra ultima partita e quella squadra l’avevamo portata fin lì proprio noi, era la nostra squadra e tu eri il mio capitano… e io mi sono perso a rincorrere le idee su come farvi vincere, ho pensato così tanto a voi da non vedere che l’intralcio ero io» ammise con una buona dose di solennità piena di colpevolezza.
Takao lo guardò stupito e ancora più spaesato di prima, perché capiva e non capiva allo stesso tempo cosa lui stesse cercando di dirgli, ma a parte ciò il significato sottinteso di una parola era più che chiaro.
«Ero il tuo capitano?» quasi mormorò.
Midorima si spinse di nuovo indietro gli occhiali sul naso e poi avvicinò una mano al petto di Takao: gli premette piano un paio di nocche contro il cuore. «Eri il mio capitano, e io ho fallito a dimostrare che eravamo nel giusto».
La mano di Midorima restò lì posata sul suo cuore, così come Takao restò svuotato con le spalle al muro.
«Io sto cercando di capire…» sussurrò Takao, sforzandosi di non prendergli la mano fra le sue.
«Mi dispiace» e c’era sincero dispiacere nel suo sguardo, «durante la partita sei stato la mia debolezza e quando dopo, alla fine, mi hai… mi hai detto quella cosa» ingoiò l’imbarazzo con nervosismo, «è stato come se tu mi avessi dato la conferma di essere la mia debolezza e la frustrazione mi ha fatto dirigere la mia rabbia contro di te. Mi dispiace, non te lo meritavi».
Takao scosse la testa, stupito. «Perché te ne sei andato via subito? Avresti potuto parlarmene, avremmo potuto chiarirci subito…» Quanto poteva essere ostinato, Shin-chan?
«Perché ho odiato il basket, in quel momento. Ho odiato me, te, noi, il basket e qualsiasi cosa mi avesse portato per errore a dare il peggio di me! Volevo provare a essere una persona migliore, a rialzarmi, ed era spaventoso il fatto che tu al posto mio non mi avresti picchiato e che se solo fossi tornato indietro mi avresti perdonato!»
«Certo che ti avrei perdonato» sbottò Takao irritato, «bastava chiarirsi!»
«Vedi, è per questo che sei la mia debolezza» obiettò irritandosi altrettanto, «perché non importa quello faccio, tu non prendi mai sul serio quello che dico e resti appiccicato a me!»
«È un mio problema se sono masochista, e comunque lo faccio perché tanto lo so che dici sempre il contrario di quello che pensi sul serio!»
«No, è un problema di entrambi perché così facendo mi spingi ad attaccarmi all’idea che non importa cosa farò, tu resterai sempre dalla mia parte!»
Takao strinse i pugni e sbottò ancora più forte. «Resto sempre dalla tua parte perché hai costante bisogno che io ti faccia da filtro con gli altri! Smettila di girare attorno a quel che pensi davvero e buttalo fuori esattamente per com’è senza trasformarlo nel suo opposto, così finalmente non avrai più bisogno che io ti faccia da interprete! Sei rimasto l’assurdo idiota di una volta, Shin-chan
L’ultima parola risuonò fra di loro come un colpo di cannone, quel nomignolo tornato sulle sue labbra li portò ad affrontare la realtà: in passato non avevano mai litigato così, ma da quello che si erano detti era come se fossero tornati a essere quelli di una volta, o forse meglio, visto che si stavano dicendo tutto in faccia.
Midorima lo stava fissando in faccia confuso, spaventato e speranzoso, lui si sentiva altrettanto perso.
«Shin-chan…» mormorò Takao di nuovo, prima che l’altro si abbassasse bruscamente per baciarlo sulla bocca.
La testa di Takao cozzò all’indietro contro il muro, e gli fece male, tuttavia gli allacciò le braccia al collo e lo spinse più giù verso di lui per poterlo baciare meglio. Poi si separò appena dalle sue labbra con un sorrisetto.
«Baci da schifo, Shin-chan».
«Sta’ zitto, lo so» gli mormorò di rimando, seccato e nervoso. Takao ricordò che Shin-chan a scuola non aveva mai avuto una ragazza, quindi non impiegò molto a intuire che tuttora non aveva avuto nessuno.
«Allora lascia che io ti insegni» sussurrò riprendendo a baciarlo.
Con quasi venti centimetri di differenza d’altezza non era facile baciarsi in piedi contro una parete, ma Takao non aveva minimamente voglia di separarsi da lui, non proprio ora che finalmente tutto era venuto a galla dopo anni, non proprio ora che il suo stupido sogno adolescenziale si stava realizzando. Ci mise tanto in quei baci lunghi e profondi, tanto delle sue speranze e tanto dei suoi desideri repressi, tanto dei suoi sogni da ragazzino e tanto del giovane uomo che voleva soltanto essere ricambiato da chi amava. Sentiva sotto il suo tocco che Shin-chan era disperato, totalmente incapace di controllarsi, ed era bellissimo.
Con il fiato corto per i baci e l’ansia d’aspettativa, Takao gli prese le mani fra le sue e gli fece cenno di seguirlo; in camera sua sarebbero stati meglio. Gli tolse la giacca e gli occhiali e lo spinse a sedersi sul letto, poi senza tanti complimenti si accomodò a cavalcioni su di lui e gli allacciò alle braccia al collo, perché questo avrebbe davvero imbarazzato tanto Shin-chan – e lui adorava punzecchiarlo – ma sarebbe stato troppo preso dai suoi baci per reagire in modo burbero. Sorrise quando baciandogli il collo lo sentì circondargli la vita con le braccia e stringerlo a sé.
«Penso ancora che tu sia speciale» gli mormorò Takao all’orecchio; ricevette in risposta solo un lieve mormorio indistinto, o forse un piccolo gemito. «Sono ancora innamorato di te, Shin-chan» ebbe cura di dirglielo a un millimetro dal suo collo, perché se lo meritava di essere stuzzicato, se lo meritava eccome di essere costretto ad ascoltarlo senza reagire male.
«L’ho capito» gli replicò stringendolo più forte a sé e provando a nascondere la testa contro la sua spalla.
«Sono sempre stato innamorato di te, Shin-chan» rincarò, ma con dolcezza.
«Lo so» stavolta rispose aggredendogli piano e con un po’ d’impaccio il collo con le labbra e con i denti; prima che Takao però potesse accarezzargli la nuca, lui raggiunse il suo orecchio e gli sussurrò pianissimo una semplice frase.
«Anch’io sono sempre stato innamorato te, Kazunari».
E Kazunari sapeva che molto probabilmente Shin-chan non gliel’avrebbe ridetto spesso, per questo sentì quasi il bisogno di piangere, ridere, urlare e baciarlo ancora.
«Avresti dovuto cercarmi prima, Shin-chan!» lo rimproverò invece, stretto a lui e con una guancia contro i suoi capelli.
«Lo so».
«Dovevamo solo chiarirci!»
«Mi dispiace».
«Ti amo».
«Anch’io».
Per fortuna almeno non era troppo tardi, e Kazunari sapeva che sarebbero stati sempre abbastanza imperfetti da poter essere perfetti se insieme.


Qualche settimana dopo…

Passando accanto alla porta socchiusa della stanza di Kuroko, Takao sentì il vocione assonnato di Kagami dire in video chat che Aomine doveva smetterla di rompergli le palle chiedendogli chi era adesso il migliore amico di Kuroko – Aomine aveva chiesto a Kuroko il contatto di Kagami e lui gliel’aveva ingenuamente, o forse no, dato, e ora i patetici e infantili risultati erano quelli.
«Taiga-kun, sei ingiusto, Aomine-kun era molto preoccupato per noi due».
«Lo stai difendendo solo per potermi prendere in giro con lui! Smettila, Tetsuya!»
Takao ghignò divertito e, borsone in spalla, andò oltre; si sedette a terra all’ingresso per allacciarsi le scarpe da ginnastica.
«Tetsu-chan?» chiamò a gran voce stringendosi le stringhe. «Io sono pronto, ti precedo?»
«No, sto arrivando, Takao-kun».
Sentì il proprio cellulare emettere il bip della ricezione di un messaggio; controllò chi fosse.
"La lezione che avrei dovuto avere il prossimo venerdì mattina è stata annullata, ce la fai a partire prima invece che nel pomeriggio?"
Takao sporse il labbro, pensoso, e controllò degli orari di partenza di un treno che si era appuntato sul cellulare. Rispose.
"Sì! Per te è meglio alle 10,30 o alle 11,40?"
"10,30, verrò a prenderti. Stai andando al campetto dei ciliegi?"
"Sì, vuoi che ti saluti Sakura-chan?"
"Certo, ma dille di trattare bene le sue dita e di non mangiucchiarsi più le unghie, che così facendo prende pure un sacco di germi. Buona partita, il tuo oroscopo dice solo di stare attento agli attacchi di un gemelli".
Takao sorrise scuotendo la testa. "Stasera ti chiamo! Passa una bella giornata, Shin-chan!" Non aggiunse un cuore perché l’ultima volta che l’aveva fatto Shin-chan l’aveva chiamato per urlargli di non rifarlo mai più. Era stato abbastanza divertente, però.
Fischiettò contento rimettendo a posto il cellulare; Kuroko lo raggiunse e indossò le scarpe.
«Come sta Kagami?» chiese Takao.
«Bene» gli annuì, «sto cercando però di convincerlo a dormire la notte, invece di passare il tempo con gli occhi al soffitto a calcolare la nostra differenza di fuso orario per capire quando dovrebbe chiamarmi».
Takao scoppiò a ridere e aprì la porta. «So che lui ti piace anche per questo!»
Kuroko in risposta gli sorrise felice, e fu una cosa così bella che Takao sentì l’impulso di prenderlo affettuosamente per mano e trascinarlo fuori di corsa.
«Dai, andiamo! Lo sai che Kasamatsu ci prende a calci quando arriviamo con più di cinque minuti di ritardo!»
Chiusero a chiave l’appartamento e, correndo divertiti senza un vero motivo, mano nella mano andarono ancora una volta a giocare a basket.


Sette anni dopo.

Midorima staccò con un gesto secco la lastra a raggi X dallo schermo luminoso e si voltò a guardare la ragazzina seduta accanto a lui.
«La tua gamba sta bene, Hinata» le disse con affetto – e anche con un pizzico di sollievo, doveva ammetterlo. «Ma hai i muscoli e i tendini sotto stress: devi stare un po’ a riposo».
Alle spalle della ragazzina, la coach Aida Riko sospirò di sollievo. «Per quanto tempo dovrà stare in panchina?»
Lui fissò Hinata, che a propria volta lo stava guardando con occhioni supplicanti; Midorima ricordò mentalmente il tabellone del campionato, poi rispose. «Almeno due partite» fu la sentenza asciutta.
«Ma…» cominciò a protestare la ragazza.
«Niente ma!» gridò Aida dandole un sonoro pugno in testa. «Oggi hai fatto pure troppo giocando contro Yuri! E comunque nelle prossime due partite non è previsto alcun incontro con le altre
Hinata si corrucciò, ma fu costretta a rassegnarsi. «Va bene» mugugnò.
«Vai dalle tue compagne di squadre» le disse la coach ridandole la giacca della tuta del Seirin, «erano in pensiero per te. Vi raggiungo tra poco». Hinata annuì mesta e uscì dal piccolo ambulatorio del Pronto Soccorso.
Aida tornò a guardare Midorima. «Davvero è tutto a posto?» chiese preoccupata. «Cioè, va davvero bene farla giocare fra due partite? Mi sembra troppo poco come riposo…»
Lui soppesò la lastra. «Ce la può fare» ribatté sicuro, «e non lo dico solo perché so dell’accordo di loro sei e le appoggio. Anche se per noi adulti è sempre meglio non impicciarci nelle questioni delle nostre ragazze: sono cose che appartengono soltanto a loro».
«Lo so» sbuffò seccata, «ma come coach e "mamma" non posso non preoccuparmi per lei!»
«Comprensibile» si spinse gli occhiali indietro sul naso e lanciò un’occhiata ironica alla pancia di lei, per ora ancora non molto grossa. «Soffri ancora di nausee mattutine, Riko?» Era al terzo mese.
Lei incrociò le braccia al petto con aria cocciuta. «Penso di aver superato quella fase».
«Effettivamente l’avevo notato che ora sei in quella degli sbalzi d’umore».
Lei gli lanciò addosso il piccolo borsone sportivo che aveva con sé. «Voi uomini siete tutti uguali! Vai al diavolo pure tu, Shintaro, possibilmente insieme a mio marito e al resto della vostra stupida banda di maniaci del basket!» e andò via sbattendo la porta. Lui restò impassibile. Lei rientrò, riprese il borsone che aveva dimenticato e andò via come nulla fosse.
Poi rientrò ancora una volta e urlò. «E comunque ti saluta Teppei, che mi manda a dirti di rispondere presto a Nakatani!» richiuse di nuovo la porta.
Midorima sospirò e si massaggiò la fronte: non era affatto sorpreso che il suo vecchio coach delle superiori avesse contattato perfino Kiyoshi Teppei per convincerlo.
La squadra femminile della Shutoku necessitava di un nuovo coach e visto che Kiyoshi aveva imitato la strada intrapresa da Kise, Nakatani per prima aveva contattato lui, trovandosi però battuto sul tempo: Kiyoshi aveva già accettato il ruolo di coach della squadra di basket femminile della Yosen. Dopo Kise e i tre anni passati alla Teiko, era stato Kiyoshi a raccogliere il talento di Yuri per migliorarla: la ragazza era al suo primo torneo fra scuole superiori, ma la classe di Kiyoshi aveva già lasciato su di lei il suo segno.
Il Seirin era riuscito a vincere contro il Yosen solo al fischio finale; probabilmente Riko aveva trascorso tutta la partita a gridare improperi contro Teppei; Kazunari – che aveva assistito alla partita – più tardi si sarebbe divertito un sacco a riassumergli tutto.
Della proposta ricevuta da Nakatani ne aveva parlato anche con Kise.
«Midorimacchi, lo sai che stai chiedendo consigli alla persona sbagliata, vero?» l’aveva apostrofato. «Hai idea di quanto io, Riko-chan e Teppicchi vorremmo che tu portassi la tua nobile persona in panchina?»
«Morite. Tutti e tre».
Ma del resto Kise era una persona ormai del tutto scoppiata, visto che per qualche strana ragione si era messo pure ad allenare la squadra di Nana, oltre a tutto il cumulo di lavoro che aveva con la sua squadra di basket in carrozzina.
«È perché Kise-kun ama davvero moltissimo il basket» gli aveva detto Kuroko, «non può separarsene e così lo sta vivendo al meglio: nonostante tutto il basket è diventato lo stesso la sua professione».
Midorima pensava invece che fosse perché Kise era un pazzo esaltato, ma non era quello il problema, al momento.
Un paio di sere prima, in previsione dell’Inter-High femminile, aveva personalmente allenato Sakura fino a tardi, mentre Kazunari se ne stava seduto su una panca a osservarli compiaciuto.
«Sono un medico» aveva ribadito a Kazunari mentre gli passava una lattina di pocari. «Non un insegnante di educazione fisica».
«La verità è che non puoi lasciar stare il basket, lo ami troppo!» gli aveva ribadito il concetto esposto da Kise.
Quella situazione era pressappoco una congiura.
Il suo cellulare squillò, neanche a farlo apposta era Nakatani.
«Ho delle notizie» esordì il vecchio coach con tono soddisfatto.
«Cioè?» provò a tagliar corto scartabellando un paio di cartelle cliniche.
«A quanto pare tutte le scuole che sono riuscite ad accaparrarsi una delle ex protégés di Kise hanno intenzione di sfruttare il loro talento al meglio con l’aiuto di un coach che sia un veterano».
Il vecchio sembrava troppo contento: con che genere di notizia l’avrebbe tentato, stavolta? «E quindi?»
«Himuro Tatsuya ha accettato l’offerta di allenare la squadra femminile della Too» l’informò.
Midorima fece mente locale: Himuro era stato un asso ed era sempre stato persistente con gli allenamenti, come coach non doveva essere materiale su cui scherzare, ma non vedeva però come poteva attirarlo ad accettare quella sorta di sfida che era allenare una squadra.
«Interessante» commentò annoiato.
«E poi…» continuò Nakatani, e fece un nome.
Midorima sbarrò gli occhi.


Sarebbe andato lo stesso a vedere Sakura giocare – era una cosa ovvia – ma ora che aveva la certezza che anche lui sarebbe andato ad assistere alla partita non poteva ancor di più esimersi dal farlo.
C’era parecchia folla, tra l’altro sul campo accanto si stava disputando Kaijo vs Too e avviandosi verso gli spalti s’imbatté in una scena non proprio inusuale.
Ayame, pantaloncini e giacca slacciata della Too, aveva un pallone in mano e con aura assassina stava andando fuori dal palazzetto dello sport, forse a concentrarsi meglio palleggiando e borbottando ingiurie nell’attesa di tornare in campo a giocare contro Nana.
«Ciao, Shintaro onii-san» lo salutò di sfuggita, atona e mortalmente seria – Kazunari avrebbe invece detto incazzata come una bestia.
Subito dopo un ragazzo con addosso la divisa scolastica della Too e la cravatta allentata sbucò dalla folla per raggiungerla correndo. «Aya-chan! Non correre così! E non prendere freddo!» Era Ren.
Perché mai quei due dovevano sempre farlo assistere a scene simili?
Sospirò, si sistemò gli occhiali sul naso e andò al campo che gli interessava.
Shutoku vs Rakuzan.
Non impiegò molto a individuare chi cercava: se ne stava in piedi con le mani appoggiate alla ringhiera, perfino dalla postura era palese che lo stesse aspettando; Midorima ghignò e andò al suo fianco.
«Salve, Shintaro» lo salutò con un accenno di sorriso. «È commovente ritrovarci qui proprio durante questa partita, vero?»
Fu sincero e imperturbabile. «No, Akashi». A Midorima sembrò di vedere l’inizio di uno scoppio di risa sulla sua faccia, ma forse fu solo un’impressione, perché poi tornò l’Akashi di sempre.
«Immagino tu sappia della proposta che mi è stata fatta».
«Accetterai» replicò Midorima, spiccio e sicuro.
«Tu non allenerai la Shutoku?»
In quel momento le due squadre entrarono in campo, Midorima vide che Sakura lo cercò subito sugli spalti e quando lo vide agitò un braccio, festosa.
«Shintaro-nii!»
Lui si lasciò sfuggire un sorriso intenerito e la ricambiò agitando la mano in sua direzione; notò che Akashi lo stava fissando inespressivo: si ricompose subito e si sistemò meglio gli occhiali sul naso.
«Ci stavo giusto riflettendo sopra» rispose ad Akashi, «ma penso tu sappia già la mia risposta». Poi osservò Sakura correre dalla parte opposta del campo gridando festosa il nome di Tsubaki, che inespressiva come sempre si lasciò stritolare in un abbraccio; poi Sakura le strinse una mano fra le sue e dovette dirle qualcosa come "Giochiamo una bella partita, come promesso!" e lei le annuì con l’espressione di un genitore serio che annuisce a un bambino troppo vivace. Intorno alle due erano tutti più o meno sconvolti.
Sorrise.
Quelle erano le ragazze di cui lui, Kise e Kasamatsu erano fieri.
Kise le aveva allenate tutte e sei fino al loro ingresso alla Teiko, e lui e Kasamatsu ogni tanto avevano dato il loro supporto. Alle medie erano finalmente entrate in un vero club di basket e i loro incontri si erano fatti più saltuari, ma ora… beh, ora il gioco si era fatto duro.
«Tsubaki è una giocatrice molto interessante» commentò Akashi.
«Non ti somiglia per niente» mentì. In parte. «Kasamatsu ha influenzato parecchio il suo stile di gioco».
Lui annuì. «Kasamatsu è un giocatore dalle capacità accettabili».
Midorima rivolse gli occhi al soffitto: probabilmente Kasamatsu in quel momento era al ritiro della nazionale a trascinarsi dietro Kagami e Aomine tirandoli per le orecchie, ma sentendo ciò non avrebbe disdegnato venire fin lì per prendere a calci Akashi.
«Sì» osservò, preferendo restare sul vago.
«Tra l’altro credo che Tsubaki nutri ancora un certo interesse per lui» aggiunse Akashi. Stavolta Midorima fu certo di vedere un accenno di scoppio di risate sul suo volto; ghignò.
«Confermo».
«Nel caso sia il Kaijo che il Rakuzan dovessero vincere, ti andrebbe di farmi compagnia mentre assisto anche alla loro partita?»
«Pensi che Tsubaki potrebbe fare una dichiarazione di intenti verso il coach del Kaijo?»
Assentì. «La vedo molto determinata».
«Allora è andata» replicò spingendosi indietro gli occhiali sul naso.
Tsubaki che dichiarava a Kise che qualora avesse vinto avrebbe sposato Kasamatsu-sama sarebbe stato qualcosa di epico. Avrebbe dovuto chiamare Kazunari per dirgli di raggiungerlo alla partita.
«Quindi» sospirò Akashi, soddisfatto, «al prossimo torneo saremo di nuovo dei nemici».
Midorima capì che non poteva e non voleva lasciare il basket. «Ti batterò con la mia compassione» ribatté con leggera ironia.
«Non farmi aspettare troppo, Shintaro».
Le squadre erano pronte, ancora una volta risuonò nell’aria il fischio d’inizio.


Tip off
Fine
 

PS: se volete, potete trovare dei missing moment di questa storia qui :)

   
 
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