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Autore: KittyPryde    13/09/2004    10 recensioni
ritratto ritoccato di una famiglia purosangue [Pansy Parkinson]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Pansy Parkinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho sempre avuto un ricordo sommario e scadente della mia infanzia, la consapevolezza di far parte di una famiglia ricca, ma non importante… potente, ma non indispensabile.
La prima moglie di mio padre considerava il compagno né più ne meno di un perdente, e forse ho imparato da lei a misurarmi con il prossimo: con disprezzo e sfrontatezza, sempre sulla difensiva eppure in grado di attaccare.
Il signor Randolph Parkinson, mio padre, sua eccellenza nullità, che parlava poco e a bassa voce, era inorridito… spaventato dal mostro che gli dormiva a fianco, la donna ossuta che teneva la schiena dritta e le dita tese alle cene di famiglia; mia madre, come spesso accade in questi ambienti, si era sposata portando all’altare il profumo dei soldi, ma in seguito non ha avuto che qualche spicciolo rispetto a quello che si aspettava.
Non fu questo a fermarla, organizzava feste falsamente sontuose, invitava le amiche per il tè del pomeriggio, tutto senza il parere o l’approvazione di nessuno, mentre lo sperpero dell’eredità di famiglia si affacciava, ogni giorno con maggiore preoccupazione, ai pensieri di papà che vedeva, come unica soluzione, quella di liberarsi di una moglie che non lo amava e nemmeno riusciva ad apprezzarlo.
Ma l’inconveniente che riuscì a placare la fame di denaro e di lusso di mia madre, arrivò con una cicogna e la Signora Parkinson dovette arrendersi al fatto che, un figlio, le avrebbe tolto gran parte delle libertà, le avrebbe sottratto tempo e denaro.

Crescere sotto le sue unghie di matrigna non rappresentava un problema se mi comportavo come “una brava signorina deve fare” dovevo ostentare una ricchezza fittizia, una nobiltà inventata e, con mio grande compiacimento, riuscivo in questo compito ancor meglio della mia maestra.
Avevo poco più di dieci anni, ma le valige di mia madre in attesa sul pianerottolo non mi intristirono né, tanto meno, mi intimidirono; la signora Parkinson aveva un grande cappello color vino e tremava sui tacchi troppo alti per le sue caviglie fragili.
Pensai che avesse impiegato anche troppo tempo, quella donna semi sconosciuta, con un cappello ridicolmente grande, a capire che in quella grande casa, dei soldi, vi era soltanto l’odore.
Fu allora che compresi quanto quel vivere in finzione, quel sorriso teso fino a spaccare le labbra, mi avessero resa distante; fredda anche all’addio di mia madre, ma lei, dopotutto, non si ricordò di salutarmi prima di uscire.
Quel giorno mio padre mi appoggiò una delle sue mani nodose sulla schiena e non mi mandò a dormire, per fumare da solo davanti al camino come faceva sempre; cenammo assieme, e aspettò silenzioso per tutto il pasto prima di riuscire a dirmi soltanto
“cambieranno molte cose…”
con l’ultimo boccone ancora sulla punta della forchetta mi accorsi di quanto mia madre avesse ragione, di quanto il Signor Randolph Parkinson fosse un vigliacco, un silenzioso perdente che non sapeva nemmeno trovare le parole per consolare una figlia.
Abbassai la testa accennando un “si” disinteressato, lui mi passò una delle sue mani legnose sui capelli bruni e sorrise con un cenno amaro che si intravedeva appena sotto i baffetti neri accuratamente rasati; con i suoi occhi vaghi ancora piantati nei pensieri mi accorsi che, nonostante tutti i suoi sbagli, il Signor Randolph Parkinson sarebbe stato sempre una nullità, un uomo passivo, ma ugualmente mio padre.

Con il passare del tempo potei confermare tutte le mie teorie, dalle più ciniche alle più affettuose; papà rimase nell’ombra della sua insufficienza mentre io mi davo da fare per rivendicare il buon nome e la posizione della famiglia. Nel mio piccolo, ogni sorriso teso e ogni esemplare dimostrazione di una buona educazione, erano fondamentali per restituire al cognome “Parkinson” il giusto peso e la giusta importanza. Temprai il mio carattere rendendolo acido, brusco, mi spinsi sempre di più a esibire la fierezza di essere una purosangue, di avere una famiglia di un certo livello, senza accorgermi quanto, tutto questo, fosse completamente indifferente al resto della mia famiglia…
Nell’ultima estate che passai alla villa, papà rimase sempre più tempo chiuso nel suo studio, pregandomi gentilmente di non disturbarlo e promettendomi che avrebbe cenato, la sera, assieme alla sua bambina.
Nonostante le mie scarse aspettative, non mancò mai ad un appuntamento ed ogni sera, intorno all’ora di cena, passava dalla mia camera solitaria e bussava due volte come un principe azzurro
“è pronto a tavola”

Nell’ultima estate cominciò ad aprirsi e parlare di più, ma sempre a bassa voce, mi spiegava di Hogwarts, di come aveva trascorso gli anni della scuola, di come sarebbe stato fiero di me in ogni caso…
pensai candidamente che i padri dei miei amici, famiglie tanto più importanti della mia, non avrebbero rivolto ai figli le stesse parole.
Non ho capii mai se mio padre fosse davvero orgoglioso di me, del mio sorteggio a Serpeverde, delle mie bravate da ragazzina antipatica e altezzosa
Un giorno lo disse “ti comporti come tua madre” era la cosa di cui ero più consapevole, e allo stesso tempo quella che più temevo.
Studiai perfettamente la mia ripicca da bimbetta viziata, smisi di rispondere alle lettere e non tornai a casa per le vacanze di Natale, fin che mio padre non mi chiese scusa, ma solo io seppi quanto dolore mi portò quel comportamento infantile…
Quando arrivò l’estate tornai alla villa dopo aver superato il mio primo anno ad Hogwarts e finalmente compresi il significato di tutte le ore che mio padre aveva trascorso chiuso nel suo studio.
Ricordavo a malapena la casa, il via vai che vi regnava quando papà ancora lavorava, quando dalla mia cameretta ai piani superiori sentivo le note dei pianoforti che invadevano la casa, prima stonate, poi sempre più leggere e melodiose.
Mio padre usava le mani come mestiere, non abbastanza portato per musica da diventare un pianista virtuoso, lui aveva scoperto la sua vocazione nel meccanismo interno, nel cuore degli strumenti, nelle corde che permettono loro di cantare.
Durante il tempo in cui ero stata via, papà era riuscito a riallacciare i rapporti con i vecchi clienti e riempire di nuovo la casa di pianoforti e clavicembali stonati ai quali avrebbe reso la voce.
Fu la prima volta in cui mi sentii orgogliosa di lui.

Il suono del lavoro di mio padre riempie stanze ancora oggi, e ogni volta che torno, sento che queste musiche stonate riusciranno a mancarmi quando me ne andrò di nuovo.
Il Signor Randolph Parkinson, sua eccellenza nullità, non era mai stato il mio ispiratore, il mio modello, non era stato una figura presente e capace, ma non era mai mancato ad un una cena, quando la casa restava senza ombre non mi mandava a dormire per fumare da solo davanti al caminetto…
Parlava sempre a bassa voce, dietro l’espressione sfuggente celata dai baffetti, si nascondeva nella sua ombra per paura di tante, troppe cose; ma quell’uomo mediocre, vigliacco, perdente, non era mai mancato a nessuna cena con la sua bambina, nella sua inutilità era ugualmente mio padre.
   
 
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