Capitolo
5: La visita
Mi
faccio coraggio e spalanco la porta. La
leggera brezza che arriva dalle finestre aperte mi da un po’
di sollievo. Per
un attimo, dimentica di ciò che devo pensare, dire o fare,
sento i muscoli
allentarsi, e quasi mi sento di buon umore. Seduti composti su un
grande e
confortevole divano, ci sono i miei genitori, Rick e Fanny. Davanti a
me rappresentano
le gradazioni e le sfumature di paura.
A
sinistra, mia madre: bianca come un cencio,
se ne sta lì, immobile, incapace di parlare. Ha in mano un
fazzolettino di
stoffa, che per la rabbia, continua a stropicciare e a tirare. Gli
occhi verdi,
lucidi e sbarrati, fissano la porta. Il mio ingresso suscita in lei un
urlo
disperato: “No! Non la mia bambina!” grida, in
preda alla rabbia.
Mio
padre, al suo fianco, le stringe la mano, e
da dietro gli occhiali mi lancia uno sguardo ferito. So che questa
sarà
l’ultima volta che lo vedo. Anche lui sembra esserne
consapevole. La sua
mancanza di reazione è inquietante, ancor più di
quella della mamma: solo delle
lacrime silenziose gli rigano il viso.
Rick
non sembra molto spaventato: non perché
non mi vuole bene, ma perché sa quanto io possa star male, e
cerca di evitarmi
altri dispiaceri inutili. Si alza e mi viene ad abbracciare. Un suo
gemito mi
fa capire che anche lui, come me, sta cercando di non piangere. Il mio
ometto.
Il mio dolce Rick. Il bambino che dovrà crescere senza una
sorella, e , ancora
peggio, che probabilmente la vedrà morire con i propri occhi.
Fanny,
la più tranquilla di tutti, mi fissa con
uno sguardo dispiaciuto, pieno di rammarico, ma riesce a sorridere.
Anche lei,
come prima ha fatto Rick, si alza e mi cinge in un abbraccio. In un
tono così
basso, che solo io riesco a percepire, sussurra: “Scusami.
Avrei dovuto
offrirmi volontaria. Tu hai la tua famiglia. Tuo fratello. Io non ho
nessuno.
Nessuno sentirebbe la mia mancanza”.
“Ma
cosa dici?! Tu hai me. Hai i miei genitori,
che ti vogliono bene come a una figlia. E poi non potrei vivere con il
peso del
tuo sacrificio per salvare me”.
“Ti
voglio bene, Vi”
“Anch’io
te ne voglio. Ma non fare cretinate,
mentre sto via. Potrei anche sostituirti con un altro nella classifica
dei
migliori amici”. Le sorrido, maliziosa.
“Ah
sì? E dimmi, chi sceglieresti?”
“Beh…
il mio nuovo migliore amico potrebbe
essere Ian”. Ripenso all’espressione scocciata del
ragazzino, agli sguardi
ostili che mi ha lanciato, alla sua alterigia, e continuo
“No, meglio di no!”.
Scoppiamo in una risata. Dopo un po’ Fanny dice:
“Lo
conosco”
“Chi?
Ian?”
“Già…
anche lui è come me. È un orfano. Quando
vivevo nell’Istituto c’era anche lui.
All’inizio credevamo fosse muto. Poi
abbiamo capito che non parlava per il trauma che aveva avuto: i
genitori erano
dei ribelli. Avevano cercato di fuggire dal distretto, ma i
Pacificatori li
avevano sorpresi e arrestati. Poi ci fu il processo. Sentenza di morte.
E così
furono uccisi in piazza, davanti a tutti. Vi assistette anche
Ian.”
“O
mio dio!” esclamo io, senza altre parole per
esprimere la mia indignazione. Ma a questo punto una domanda mi sorge
spontanea. “E quel ragazzo, Henry, era…?”
“…il
migliore amico. Viveva anche lui
nell’Istituto. Lui però è zoppo.
Vittima di una mina non disinnestata al
limitare del distretto. Che, oltre tutto, fu la causa della morte del
padre di
lui. Erano diventati praticamente fratelli. Henry era l’unico
a riuscire a
calmare Ian dopo i suoi incubi ricorrenti. E l’unico che
riusciva a farlo
parlare.”
Un
Pacificatore bussa alla porta e tuona
“Ancora un minuto”.
Corro
da mia madre, le stringo con le mani il
mento e faccio in modo tale che mi guardi dritta negli occhi.
“Tesoro, non-“ la
voce le resta bloccata in gola. “Mamma, shhh” le
dico io, cercando di placare
quei penosi singhiozzi. Le do un bacio sulla guancia, e sento il salato
delle
sue lacrime sulle mie labbra.
Vado
da mio padre, che, muto, mi offre l’incavo
del suo collo, dove affondo il volto, inspirando il suo odore, e
cercando di
memorizzarlo e tenerlo a mente anche nell’Arena. Salsedine,
pino e cipresso.
Con
un cenno di mani, anche gli altri due della
compagnia mi salutano.
Il
Pacificatore fa irruzione nella stanza e ricorda:
“Il tempo delle visite è finito”.
Mi
giro verso la porta, lanciando un’ultima nostalgica
occhiata verso di loro. E all’improvviso Fanny urla:
“Vi, io credo in te!”.