Serie TV > Grey's Anatomy
Segui la storia  |       
Autore: lulubellula    11/06/2013    2 recensioni
Storia scritta a quattro mani con 2calzona3
"A volte si desidera qualcosa a tal punto da fingere che sia vero anche con se stessi, e all'interno della propria realtà si finisce per renderlo vero. Ma ciò non significa che sia reale. Il vero e il reale sono due cose diverse".
Dall'ultimo capitolo (Giallo/Lexie): "Eri semplicemente euforica e sentivi una scossa di adrenalina pervadere il tuo corpo e correre sino al cervello.
Rubare era per te persino più soddisfacente di una tavoletta di cioccolato.
E ti rendeva felice almeno il doppio.
Finchè il senso di colpa non si sarebbe ripresentato di nuovo".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Callie Torres, Cristina Yang, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione, Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nda: Le parti in corsivo sono state scritte da 2calzona3, quelle in stampatello da lulubellula

Welcome to my mind

 

CAMION...

Negli ospedali non c’è passato, non c’è futuro, sono un presente, un ‘qui ed ora’ imminente, uno scivolare veloce e incessante di azioni e reazioni che si susseguono seguendo un apparente filo logico. Ed è questo che ci rassicura, che ci permette di non impazzire: sapere che la stragrande maggioranza delle volte, alle medesime azioni, corrisponde una sola e unica reazione, controllabile, curabile, prevedibile.
Una conseguenza che ci coglie preparati, pronti, con la risposta esatta al momento giusto, permettendoci di fare bella figura con i famigliari dei pazienti, la figura di supereroi, di creature fuori dal tempo e dallo spazio, di individui scelti, eletti, onniscienti.
La verità, la pura e semplice verità è che non siamo altro che esseri umani come gli altri, che contano le perdite e collezionano sconfitte, che tra centinaia di vite salvate, non dormono la notte per quelle perse, che fanno un lavoro straordinario e sono a malapena ordinari.
E che quando si ammalano, spesso non se ne rendono nemmeno conto.


Immagina di poterti svegliare una mattina qualunque più vecchia di sei anni.
Immagina di poter vedere il tuo futuro, le foto con il viso dei tuoi figli, con le tue rughe ancora non nate.
Quello è tuo marito, quello è il bambino che ancora non hai partorito e quella è la cucina che ancora non hai costruito.
È davvero il tuo futuro, solo che non te ne accorgi, perché non sai dove ti trovi.
Perché sei nel presente e non te ne accorgi.


 
Eppure non riesci a fare due più due, a renderti conto del modo in cui tu sia riuscita ad arrivare sin lì, in mezzo al nulla, in una casa luminosa e dalle ampie vetrate dalle quali penetra un tiepido e dolce sole primaverile. Di certo non sei potuta giungere sin lì a piedi, innanzitutto perché, ad eccezione di quell’edificio, il luogo circostante sembra abitato al più da volpi e scoiattoli e, inoltre, il fatto che non ricordi il percome e il perché tu sia lì, ti fa pensare che sia stato il troppo bere e il farneticare con uno sconosciuto al bar a portarti in quel luogo, in auto.
A dimostrazione del fatto che l’equilibrio diventa superfluo dopo la quinta tequila, impedendoti di fare più di cinque passi di fila senza inciampare nei tuoi stessi piedi e che, perfino l’idiota di turno, assume le sembianze del principe azzurro.
Non  ti era mai successo di avere un vuoto di memoria così spaventoso, una voragine, un cratere, un limbo di tuoi ricordi che non ti sembra nemmeno di aver vissuto, condiviso, preso la briga di imprimere nella memoria.


Capita a tutti.
Capita a tutti di svegliarsi e non ricordarsi in che camera da letto ci si ritrova.
 A quel punto passi in rassegna tutte le case in cui hai dormito, un po' ti ci diverti e poi capisci che sei nella tua camera, con le tue coperte e il tuo profumo. Quella mattina mi svegliai, pensai ad ogni camera da letto, ad ogni divano o pavimento in cui potevo aver dormito nella mia vita. Non riconobbi nulla.
Probabilmente la sera prima avevo fatto l'amore con la tequila, di nuovo. Magari ero finita ancora a letto con quel Derek, il famigerato strutturato, era già strutturato? di neurochirurgia.
Mi alzai inciampando nelle coperte, superato quell'ostacolo cercai di ritrovare l'equilibrio che avevo perduto la sera prima nell'alcol.
In che razza di casa mi trovavo?
Stanze ampie e una vista mozzafiato che sembrava dare su un dirupo, dritto nella bocca di Seattle. Calpestai qualcosa di duro e gommoso sentendo una fitta lancinante alla pianta del piede, un giocattolo rosa e sorridente si beffava di me, stavo per offendermi.
Doveva esserci una bambina in quella casa, forse due.

 
Inorridisti al pensiero di un lattante o peggio di due, che sembravano abitare in quella casa e sperasti di non essere finita a letto con qualche quarantenne divorziato, o peggio vedovo, con tanto di prole a carico. Ti guardasti attorno alla ricerca dei tuoi abiti, di biancheria sparsa per le lenzuola o sulla testata del letto, ma senza successo.
Il vero colpo fu constatare che indossavi un pigiama di cotone, con tanto di stampa floreale all’altezza del seno e polsini ricamati.
“Non ci si risveglia con un pigiama indosso quando si passa la notte con uno sconosciuto” pensasti.
“Speriamo almeno che non sia della sua defunta moglie o di qualche altra donna da tequila che mi ha preceduto in questo letto” riflettesti poi, alzandoti e inciampando in quelle che dovevano essere le tue pantofole, con l’iniziale ricamata in un colore più scuro, una ‘M’, proprio l’iniziale del tuo nome.
E sperasti con tutta te stessa di non aver diviso il letto con un vedovo nostalgico che rivedesse in te la sua defunta e amatissima moglie.
 
 
 
 Controllai l'ora sentendomi tremendamente in ritardo, non potevo tardare i primi giorni di tirocinio, eppure sembrava ci stessi riuscendo.
 Ritornai nella camera da letto, raccolsi qualche vestito e me lo infilai.
 Buttai un occhio su un post-it incorniciato, chi è così matto da incorniciare un post-it?
Cercai di decifrarne la scrittura, sembrava scritto da un dottore, era completamente incomprensibile ad una prima occhiata.
Sembrava...sembrava il mio nome. Sembrava il nome di quel maledetto neurochirurgo.
Era sposato? Era sposato con una donna con il mio nome? 
Qualcosa mi travolse la mente, come un mezzo ricordo.
Come quando qualcosa ti sfugge per un pelo, sai come si chiama, sai come si pronuncia, sai che forma ha o che gusto ha, ma non riesci a dirlo.
Ero confusa, impaurita e tremendamente paralizzata, non riuscivo a funzionare. 
Feci un passo falso, inciampando nei miei stessi piedi, come se non mi stessi prendendo in giro abbastanza. Vidi come al rallentatore la punta di quel comodino tanto familiare avvicinarsi ai miei occhi, sempre più grande, sempre meno a fuoco fino a quando fu così vicina da colpirmi. 


La caduta fu rovinosa e per quanto annunciata, ti colse impreparata.
Cadesti a terra, stesa sul pavimento, nell’attimo che precedette l’impatto con il pavimento ti apparvero dei flash, dei frammenti incomprensibili e sconnessi tra di loro.
Vedesti dell’acqua, una donna che stava per annegare, poi un cane, il neurochirurgo che baciava una donna dai capelli rossi e incredibilmente bella, un funerale e delle persone che ridevano lontane dalla cerimonia, una bambina africana dolcissima.
Come poteva la tua mente giocarti dei simili tiri, quando non ricordavi nemmeno il più piccolo particolare delle tue ultime ventiquattrore?


Ero confusa. Potete scommetterci se lo ero.
“Meredith, si può sapere cosa hai fatto? Stai bene? Sei svenuta in camera da letto”
Derek mi riempiva di domande, non mi ricordavo neanche come avevo fatto ad arrivare in ospedale.
“Lo spigolo...ho sbattuto...”
“La testa. Lo so, non toccarti” giusto, la testa. Avevo sbattuto la testa. Dove? Avevo sbattuto la testa.
“Sto bene, sto bene! Smettila di farmi domande, capita a tutti” mi guardò, come se stesse vedendo in me qualcosa di grande, invasivo e sconosciuto.

Non c'era bisogno di portarmi in ospedale, capita a tutti di inciampare nelle coperte.
Cercai di alzarmi sfruttando il mio diritto civile di lavorare, ma nessuno me lo permise.
Passai ore a fissare il soffitto, avevamo uno dei soffitti più noiosi di Seattle probabilmente.
Decisi di alzarmi, stavo sprecando il mio tempo.

 
Pian piano il quadro cominciava a farsi più chiaro, ma c’erano ancora alcuni tasselli, tasselli importanti che ti sfuggivano e che rendevano la visione d’insieme confusa, sbiadita, tutt’altro che chiara.
Cominciavi a ricordare di essere sposata e di avere un marito, Derek, il neurochirurgo.
Questo spiegava il perché del pigiama e delle pantofole, anche se non riuscivi ancora a capire il significato del post-it, probabilmente era solo una sciocchezza.
Quello che sapevi per certo era che la testa ti faceva incredibilmente male, ti doleva in più punti e avevi lividi su svariate parti del tuo corpo a cui si aggiungeva un modesta ecchimosi vicino all’occhio sinistro.
Ciò che ti inquietava di più, però, era il fatto che tu non avessi la più pallida idea di come ti fossi fatta male e che ancora non riuscissi a spiegarti in alcun modo i giocattoli sparsi per il pavimento.
Sperasti che fossero di qualche nipotino di Derek, perché altrimenti, le cose per te cominciavano a prendere una piega tutt’altro che rassicurante.
 

“Ehi! Dove credi di andare gambe molli? Ordini del capo, devi stare a riposo” Cristina entrò in stanza e io mi rassegnai sprofondando nel cuscino.
“Sono io il capo, fino a prova contraria. E non chiamarmi gambe molli, prova tu a sentire il corno di un dinosauro di gomma entrarti nel piede, sverresti per principio” ancora uno sguardo intraducibile passò negli occhi di chi mi stava davanti, mi stavo chiedendo cosa avessi mai fatto.
“Non eri inciampata nelle coperte?” 
“Certo, i dinosauri si nascondono lì, di solito. Dove non puoi vederli”. Ovvio, il dinosauro era sotto le coperte, il lenzuolo mi ha bloccato il passo e sono caduta sbattendo la testa. Il suo cercapersone suonò, la invidiai enormemente e passai di nuovo a fissare il soffitto. Doveva essere il soffitto più noioso di Seattle. 

 



Incredibile vedere quanto l’arte di dire bugie durante il liceo, affinata anche nel corso degli anni a venire, ti fosse servita in quell’istante.
Si mente per svariati motivi, per paura, per noia, per la vergogna.
Tu mentivi per riempire un vuoto, una lacuna che la tua mente era del tutto incapace di colmare, perciò facevi ricorso alla menzogna.
Anche se, a dirla tutta, proprio di menzogna non si trattava, preferivi definirla un modo creativo e alternativo per raccontare la verità, la realtà.
Per raccontare tutto quello che la tua mente non riusciva più a far venire a galla.
Per convincerti che le tue belle storie fossero accadute davvero e più era plausibile la situazione che descrivevi, più te ne compiacevi e più gli altri bevevano le tue bugie, più allontanavi da te quel pensiero che oscurava le tue giornate.
Quella consapevolezza di vivere a metà, nonostante tutto e tutti ti convincessero del contrario, che qualcosa non andasse nel modo giusto e tu non te ne accorgessi nemmeno.
Quella stramaledetta sensazione di essere rotta, diversa, al posto giusto nel momento sbagliato.
Di non ricordare nemmeno come ci fossi arrivata.
 


CAPANNA...!


Richard bussò al vetro della porta, portando un' aria sospetta ancora prima di poter appoggiare gli occhi su di me. Cosa diavolo avevano tutti?
“Meredith, non sono il capo e non sono nessuno per darti consigli, ma dovresti prenderti un periodo di riposo, sembri stressata. Comincia a diminuire il lavoro, avere i figli in casa e un lavoro a tempo pieno deve essere dura”
“Effettivamente Zola vale per due. Ma sto bene, quante volte lo dovrò ripetere oggi?”
“Meredith, come sei caduta?” lo sapeva.

Sapeva come ero caduta, al contrario di me. Probabilmente avevo sbattuto la testa troppo forte.
“Spostando il comodino della camera da letto, cercavo di rimettere a posto e un gioco di Zola è finito là dietro, maledetti dinosauri”.
“Hai detto a Cristina di essere inciampata in un dinosauro, ma stava sotto un lenzuolo che ti ha bloccato il passo sul nascere”.
“Certo! Mi ricordo cosa ho detto Richard, non c'è bisogno che tutti me lo ripetiate. Ma cosa avete oggi?”.

Dinosauro, lenzuolo, comodino.
Dovevo semplicemente ricordarmi queste tre parole.
 


E pian piano cominciasti a ricordarti anche di Zola, anzi non te ne eri dimenticata nemmeno per un istante, tentasti di convincerti.
Dopotutto una donna non può dimenticarsi di aver partorito sua figlia, no?
Continuare a parlare della caduta non faceva che rafforzare il tuo malumore, perché al dolore fisico e alla noia, si aggiungeva la paranoia dei tuoi colleghi, troppo impegnati a trovare problemi in ogni dove, persino dove non ve n’era nemmeno l’ombra.
Deformazione professionale.
Sperasti che nessun altro varcasse quella porta perché non eri del tutto certa che saresti riuscita a ricordare la versione esatta dei fatti.
Dovevi riuscire a ripetere, come se fosse stata una stupida poesia a memoria, che “Eri caduta dal letto, inciampando nei cuscini perché la bambola di Zola ti aveva bloccato il passaggio”.
O forse era una macchinina?



“Ehi, hai un bambino in braccio?” Derek entrò con il sorriso, fiero di quel bambino, era molto piccolo, doveva avere si e no qualche settimana.
Non capivo di chi fosse. Perché teneva in braccio un bambino?
“Cosa c'è di strano?”
“Non lo so, forse il fatto che rubi bambini alla nursery?” controllò sotto la coperta del bambino per assicurarsi di non aver sbagliato, subito dopo mi guardo con quello sguardo.

Tutti avevano avuto quello sguardo durante tutto il giorno.
“Tieni, vuole la sua mamma” non mi mossi di un millimetro, forse gli occhi furono la sola cosa a muoversi, spalancandosi.
 Mio marito stava diventando matto. 
“Derek ti senti bene? Ti ricordo che stiamo provando da mesi ad avere un bambino” sorrise in modo allarmante.
“Ma che dici?” mi diede un bacio in fronte lasciandomi tra le braccia quel bimbo sconosciuto. Perché era realmente uno sconosciuto per me.

 Si mise ad accarezzarmi i capelli guardando orgoglioso la scena della famiglia perfetta.
 Dinosauro.
 Mio marito stava impazzendo.
Lenzuolo.
 Quello era il soffitto più noioso di Seattle.
Comodino.
Quello non era il mio bambino. 






“Novità dal paziente X?” domandò una matricola ad un suo collega, dividendo con lui una barretta energetica.
“Nah, niente. Gli  strutturati mi trattano come se fossi un idiota e non mi fanno nemmeno sbirciare, come se potessi uccidere quel paziente senza nemmeno toccarlo. Scommetto che deve essere qualcuno di incredibilmente famoso oppure con una malattia estremamente interessante”.
“Magari un alieno?”.
“Nate. Tra tutte le idiozie che dici ogni santo giorno, questa le batte tutte! Ti sembra forse possibile che un alieno possa persino esistere?”.
La matricola abbassò lo sguardo e rispose: “Mai dire mai, no? E poi era solo una battuta! Tanto per smorzare l’alone di mistero che il paziente X ha attorno a sé. Comunque, sciocchezze o no, c’è sempre un viavai di strutturati in quella stanza e nemmeno un parente o qualcun altro a fargli visita. Secondo me, quel tizio ha qualcosa da nascondere, qualcosa di strano e di raccapricciante e …”.
“Non mi dire che hai intenzione di scoprire cosa”.
“No. Sono un aspirante chirurgo, non un investigatore privato!” disse prima di buttare l’incarto della barretta nel cestino.
 


stanza 2332

Già tanto che mi ricordo come ti chiami, no?
Ti conviene svegliarti prima che mi dimentichi il tuo volto, o la tua voce. Dopotutto non te ne è mai fregato molto di noi, o forse non lo davi a vedere. Siamo così simili.
Un giorno ti sveglierai e ti accorgerai di avere un buco di 5 anni incolmabile, il vuoto totale.
Non che tu abbia vissuto in quei cinque anni, ma io sì.
Io ho vissuto, ho lottato e mi sono arrampicata sui vetri più scivolosi del mondo per arrivare sino a qui.
E dopo tutta questa vita conquistata non mi ricordo di aver avuto un figlio.
Non mi ricordo chi è mio marito.
 Potrei svegliarmi domani e decidere di fare il pompiere.
 O di seguire ostetricia, l'ho fatto una volta vero? Andavo in giro con il camice rosa. 
Svegliati codardo! Stai vivendo nel mondo che io sto cercando di evitare con tutta me stessa. 
Devo andare.

Dicono che ho un figlio a cui badare.
 Dicono che ho un figlio da dimenticare. 


CUCCHIAIO?



NdA2: Eccoci qui con l’aggiornamento del martedì, siamo già alla stesura del quarto capitolo, perciò dovremmo riuscire ad aggiornare questa storia con una certa costanza.
Le recensioni sono benvenute e anche le visite alla nostra pagina facebook, il link della pagina lo trovate alla fine del primo capitolo.
A presto
Lulubellula e 2calzona3

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Grey's Anatomy / Vai alla pagina dell'autore: lulubellula