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Autore: lulubellula    04/06/2013    6 recensioni
Storia scritta a quattro mani con 2calzona3
"A volte si desidera qualcosa a tal punto da fingere che sia vero anche con se stessi, e all'interno della propria realtà si finisce per renderlo vero. Ma ciò non significa che sia reale. Il vero e il reale sono due cose diverse".
Dall'ultimo capitolo (Giallo/Lexie): "Eri semplicemente euforica e sentivi una scossa di adrenalina pervadere il tuo corpo e correre sino al cervello.
Rubare era per te persino più soddisfacente di una tavoletta di cioccolato.
E ti rendeva felice almeno il doppio.
Finchè il senso di colpa non si sarebbe ripresentato di nuovo".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Callie Torres, Cristina Yang, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione, Contesto generale/vago
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NdA: Le parti in corsivo sono state scritte da 2calzona3, quello in stampatello da lulubellula

Welcome to my mind

Dicono che gli ospedali siano i luoghi più sicuri del mondo, asettici, sterili, efficienti, in continua evoluzione.
Io non ne sono convinto, anzi credo proprio che siano l’esatto contrario dell’emblema della sicurezza, perché qui ho visto accadere cose orribili a persone straordinarie ed ho visto la feccia di questo mondo uscire sulle proprie gambe con solo qualche graffio.
E questa non si può definire sicurezza, ma beffa, scherzo del destino.
Se fossi sano di mente, se avessi un briciolo di buon senso, me ne andrei via, lontano.
Se fossi anche solo un po’ meno codardo o un po’ più ragionevole, sarei già a qualche centinaio di miglia di distanza da questo ‘non luogo’.
E invece sono qui, qui a combattere la mia battaglia quotidiana, fianco a fianco di tutti gli altri, quelli che mi hanno aiutato ad arrivare sino a questo punto, nonostante abbiano perso loro stessi lungo la strada.
E il minimo che io possa fare per sdebitarmi è porgere loro la mia mano e far ricordare, ogni dannatissimo giorno che Dio manda su questa Terra, che quello che sentono non è reale, che quello che vedono non esiste davvero, che la loro mente ha sbarre più solide di ogni altra squallida cella di prigione.
Io non sono che un testimone della loro (stra)ordinaria follia, dell’equilibrio precario tra insanità e normalità, del loro incessante e continuo uccidersi tra false convinzioni e irreali visioni.
Non sono che il custode della loro pazzia.
 
 
Arriviamo ad un punto della nostra vita in cui riponiamo noi stessi nella persona che chiamiamo la nostra anima gemella, qualcuno con cui dividere il peso della vita, si hanno quattro braccia con cui scavare, quattro occhi con cui esaminare, quattro gambe, a volte tre, per camminare oltre.
E se malgrado questo, senti ancora paura?

Arizona non poteva dividere con me le mie ossessioni, non capiva quanta ansia mi comportassero.
Non prendevo in braccio Sofia pensando che l'avrei infettata, perciò quando mi cercava, restavo ferma, a combattere contro il mio istinto materno.
Avevo paura di non poterla più crescere con naturalezza, portarla al collo per farla addormentare o semplicemente aiutarla a rialzarsi quando le sue due gambe non bastavano. Arizona non capiva. 


Mi svegliai con immensa tristezza.
Osservai lo spazio vuoto tra me e Arizona, era importante che non ci toccassimo ma era contemporaneamente una tortura.
Desiderare una persona profondamente e al contempo sperare di non toccarla.
Mentre mi facevo una doccia sentii mia moglie alzarsi, svegliare Sofia e trafficare con le pentole, quello era uno dei momenti più importanti della giornata, costruito per poter condividere del tempo insieme.
Ma Arizona non capiva.
Mi sedetti a tavola con Sofia, intenta a centrarsi la bocca con la forchetta, doveva essere un lavoro difficilissimo.
“Calliope mi passi il latte?” mi sorrise distraendomi, così allungai la mano verso la bottiglia e inorridii.
Come poteva essere così bianca?
Lo versò in tre bicchieri con tre stupide cannucce.
Odiavo quelle cannucce malgrado fossero dei colori più svariati.
Un momento di silenzio riempì la cucina, interrotto solo dal rumore tutt'altro che piacevole di quel liquido bianco aspirato dalle cannucce.
Potevo capire Sofia e i suoi quattro anni, ma Arizona poteva sopravvivere senza cannucce, non si sarebbe sbrodolata sporcando il vestitino per andare all'asilo.
Almeno così credevo.

 
 
 
La cucina brillava di una luce troppo intensa, fastidiosa, accecante e a te questo dava fastidio, ti mandava in bestia, faceva uscire il peggio di te, quel peggio che, a fatica, cercavi di tenere a bada per mantenere una parvenza di normalità.
Quella normalità che non ricordavi nemmeno di avere provato nel corso della tua vita.
La presenza di Arizona ti rassicurava e infastidiva al tempo stesso, vederla lì, seduta su uno sgabello in cucina, ti confortava e ti faceva impazzire e non in senso buono.
Se ne stava seduta, con i piedi appoggiati sul bancone e le pantofole contro il portafrutta, ignara del fatto di essere una portatrice sana di microbi e virus di ogni tipo, che avrebbero raggiunto la tua persona sino a contagiarti ed entrarti nel midollo.
Stava facendo colazione, bevendo qualcosa da una tazza color blu, appena comprata, continuando a giocherellare nervosamente con una cannuccia di plastica, di quelle che utilizzava Sofia per il succo di frutta.
Era fastidioso vederla bere con la cannuccia, incredibilmente frustrante, ti faceva saltare i nervi, non che ci volesse un gran sforzo per mandarti in paranoia, ma la sua presenza, lì, con quegli occhi grandi e azzurri e quell’aria di noncurante sfida, ti tediava.
E come se non bastasse, il liquido che Arizona stava bevendo era del caldo, disgustoso, bianco latte.
Lo stesso liquido che Sofia si ostinava a continuare a sorseggiare durante tutto l’arco della giornata, a colazione, a merenda, dopo il pasto serale.
Era troppo, troppo da sopportare.
Cannuccia, latte, bianco, cannuccia, latte, bianco, piedi sul bancone, cannuccia, latte, bianco, piedi sul bancone, microbi.
“Troppo! Troppo! Troppo!” cominciasti a ripeterti, prima lo pensasti soltanto, poi lo sussurrasti, lo gridasti, la sgridasti.
“E’ solo latte!” ti ripetè con aria di sfida, pulendosi con la manica le labbra.
Bianche, latte, bianco.
“Smettila! Smettila, Arizona! Piantala!”.

 
Non sapevo cosa stesse succedendo, non riuscivo a concepire perché mia moglie giocasse con un mio problema, perché mi schernisse e umiliasse in quel modo.

Odiavo con tutta me stessa il suo modo di fare e al contempo non potevo evitare di starle vicina, una vicinanza che mi uccideva. Doveva smetterla. 

 
Lei ti si avvicinò e ridacchiò, pronta a sferrare un colpo basso.
“Latte, latte, bianco!” gridò quasi, prima di rovesciare il liquido rimasto nella tazza della colazione sul pavimento.
Sofia vi osservò con gli occhi sgranati, sin troppo consapevole della tua imminente e disastrosa reazione, l’ultima di una lunga serie.
Tu osservasti quella macchia di liquido allargarsi vicino ai tuoi piedi contro la tua volontà, come se fossi stata una spettatrice impotente di quella sciagura che è appena avvenuta.
Troppo bianco, troppo, persino per una donna ragionevole come te.
Cominciasti a camminare avanti e indietro per la stanza, apristi  tutte le porte e le finestre, accendesti tutte le luci, apristi i cassetti, le ante degli armadi, la cassapanca con i giocattoli di Sofia, il frigorifero, il forno, la lavastoviglie.
Non riuscisti a respirare, i polmoni erano troppo pieni d’aria, facevano male, le gambe erano molli, fiacche, non ti sorreggevano.
“Idiota! Idiota! Idiota!” le gridasti, ascoltandoti sussurrare quelle parole, perché l’angoscia ti mozzava il fiato, le faceva morire nella tua gola.
“Esagerata!” ti rispose lei, prendendoti in giro, ridendo dei tuoi disturbi, facendoti sentire pazza, spostata, svitata, sbagliata.
“Devo eliminarlo, devo eliminare quella macchia!” pensasti, mentre osservavi l’armadietto del bagno, che conteneva una dose preoccupante di detersivi, disinfettanti, smacchianti.
Tutti bianchi, purtroppo.
“Il bianco si può eliminare solo con il bianco stesso” ripetesti a voce bassa, indossando un paio di guanti sterili, una mascherina, una cuffietta per i capelli.
Tutto perfettamente sterile, a prova di microbo.
 
 
Sembrava dovessi entrare in sala operatoria e la situazione era simile in modo allarmante.
Quella macchia bianca stava per conquistarsi un posto in casa mia, non poteva, non glielo avrei permesso.
Tornai in cucina e fissai con violenza e odio il latte sul pavimento, senza degnare di uno sguardo Arizona.
Riuscivo a sentire i suoi sensi di colpa, doveva averli, dentro lei qualcosa doveva averle detto di aver sbagliato, almeno così speravo. Cominciai ad esaminarla, come se tra me e quel liquido ci fosse una battaglia in atto, come se sia io che lei aspettassimo la prima falsa mossa.
Sparsi più detersivo possibile e cominciai a fregare con due mani, la spugna mi si disintegrò tra le dita, ne presi un'altra.
Altro detersivo, disinfettante, spugna.
Mi si disintegrò ancora tra le mani.
Sentivo un calore impressionante salirmi dalle dita, al polso fino al collo.
Come se stessi perdendo sangue.
Usai circa un litro di disinfettante perché l'attrito che la spugna creava contro il pavimento mi dava una sensazione di calma incredibile, come se tutto il mondo andasse a posto, come se la cosa più importante non fosse il rischio della bomba atomica ma avere eliminato il 99,9% dei batteri.
Non riuscii più a fermarmi.
Osservai l'alone scolorito del pavimento, gli agenti chimici stavano facendo il loro effetto.
Un senso di compiacimento mi pervase. Quello era più importante della bomba atomica.



 
Naturalmente non avresti mai potuto toccare quei detersivi così candidi a mani nude, quei disinfettanti così bianchi da farti girare la testa, così bianchi da sognarteli di notte.
Ma dovevi farlo, non volevi, ma era l’unico modo, l’unica arma che avevi per tenerti alla larga dal bianco.
Rientrasti in cucina e prendesti uno straccio, lo gettasti a terra e strofinasti contro la pozza di latte, senza toccarla con le mani, chinandoti a terra e pulendo il pavimento freddo, tra te e il bianco, i tuoi guanti asettici, i tuoi migliori amici.
Arizona ti osservò con la solita aria di compatimento mista a delusione e amarezza.
Ormai le tue crisi, i tuoi momenti ‘no’ arrivano a superare quelli buoni, quelli spensierati, quelli che le facevano ricordare il motivo per cui valesse la pena continuare a vivere lì con te, a dividere il letto e il cuore, a crescere una figlia.
“Ecco, ho finito. Niente latte, niente bianco, niente microbi”.
Ti osservò prendere lo straccio con i polpastrelli delle dita coperti da guanti sterili, la stoffa stretta tra il pollice e l’indice e il volto il più lontano possibile da tutto quel candore mortale.

 
Non riuscii a fermarmi.
Probabilmente non avevo cognizione di ciò che stavo facendo, appena mi alzai vidi che la parte disinfettata era circondata dallo sporco che probabilmente non era sporco, perché pulivo in continuazione.
Ero esausta, sentivo la compulsione arrivare, conquistarmi e costringermi ad agire.
Mi chinai di nuovo per terra e cominciai a fregare, quantità inimmaginabili di detersivo finirono sul pavimento.

“Smettila. Lo stai rovinando” più mi diceva di smetterla più io dovevo pulirlo.
Cosa importava dell'effetto estetico se poteva essere così pulito?
Ci avrei mangiato sopra.
No, non l'avrei mai fatto.
Ripetei per mille volte l'azione appena compiuta, mi consumai le mani e le articolazioni.
Consumai tutto il mio odio in quel movimento ripetitivo.

 
 
“Callie” ti disse piano, con la bocca, con gli occhi.
“E’ tutto a posto, Arizona, non c’è alcun pericolo” le rispondesti con la voce calma e piatta, che seguiva immancabilmente le tue crisi.
“Ora prendo lo straccio, accendo il camino e lo butto nel fuoco” continuasti a dire in tono monocorde.
“Calliope” ti ripeté, quasi supplicandoti.
“Hai visto l’accendino, Arizona? Non posso lasciare che Sofia venga infettata”.
Arizona continuò ad osservarti nel tentativo di vedere te in quegli occhi vuoti e persi, di aspettare che, come le altre volte, il tuo essere ritornasse ad abitare le tue pupille.
“Trovato – le dicesti soddisfatta – ecco qui, un bel fuoco” affermasti piano, osservando la fiamma che si allargava a macchia d’olio.
Prendesti un pezzo di legno e  lanciasti lo strofinaccio intriso di latte nel camino.
“Ben fatto – ripetesti piano – niente più bianco”.
Guardasti Arizona negli occhi, tornando in te per qualche istante e riportasti i detersivi in bagno.
Chiudesti le porte, le finestre, i cassetti, la cassapanca, il frigorifero, il forno e la lavastoviglie.
Il bianco non c’era più, il bianco se n’era andato, tu l’avevi vinto un’altra volta e il tepore del fuoco ti aveva assistito, di nuovo.

 
Quando riuscii a chiudere ogni finestra, ogni cassetto e ogni porta di ogni cosa mi sentii libera.
Non ero più incatenata da azioni involontarie, non dovevo uccidere batteri per sentirmi meglio.
Finalmente potevo guardare mia moglie e con un solo sguardo, farle capire quanto mi era costato quel gioco.
La stavo spaventando, la stavo allontanando. 

Sembrò aver inteso la mia sofferenza per qualche istante, mi guardò con occhi tristi realizzando quanto aveva compromesso la mia stabilità. Ero sempre sul filo del rasoio e lei era sempre lì, pronta a spingermi.

 
“Andiamo, Sofia! E’ ora che ti porti all’asilo e che io vada in ospedale, piccina” le dicesti porgendole la tua mano perfettamente sterile.
 
 
Il corridoio era lungo, infinito, grigio.
Due medici stavano camminando fianco a fianco, tenendo tra le mani un mucchio di cartelle cliniche, esami diagnostici, referti medici.
Il corridoio era semideserto, vuoto, freddo, delle voci, dei brusii parevano udirsi da lontano, ma, un orecchio poco attento, li avrebbe potuti classificare benissimo come semplici eco, come rumori fantasma, come nulla di importante.
“Hai saputo del nuovo arrivato?”.
“Chi? Lo sconosciuto in coma, senza documenti, senza segni particolari, senza passato?” gli rispose il collega, utilizzando una buona dose d’ironia e di disinteresse.
“Proprio quello. Caso interessante, soprattutto un ottimo spunto di conversazione, non trovi? Non accade mai nulla di intrigante in questo ospedale” concluse, chiudendo alle sue spalle la porta della camera del nuovo paziente.

 
Stanza 2332


Attraversando il corridoio facevo attenzione al numero delle porte, non sapevo in che stanza fosse e di conseguenza davo uno sguardo furtivo ad ogni paziente, probabilmente risultavo inquietante.
Quando individuai la stanza giusta cercai di memorizzarne il numero.
Non feci poi così tanta fatica.
Stava in un silenzio quasi naturale, come se fosse stato lui stesso a sceglierlo.
Aveva scelto bene lui, chi poteva biasimarlo?
Avrei volentieri preso il suo posto.
Mi alzai e lo feci, mi sdraiai in fianco a lui stando attenta a non toccarlo, immedesimandomi completamente.
Potevo escludere il mondo, far finta di essere più morta che viva.
Non avevo responsabilità su quel letto, lì Sofia non piangeva e Arizona non si divertiva a rompere i miei schemi.
Avrei voluto scappare con lui e non provar più nulla, a questo punto non avrei potuto più vedere Sofia dormire, non avrei potuto dare un bacio a mia moglie. Non avrei potuto davvero vivere. Aprii gli occhi, illuminata dal desiderio di un bacio di Arizona, mi alzai velocemente sapendo quanto poteva essere effimera e fugace quella voglia di vivere, poteva volarmi via dalla mente e io avrei potuto passare il resto della mia vita sdraiata lì.

NdA2:

storia scritta a 4 mani da 2calzona3 e Lulubellula
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