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Autore: Ivola    14/06/2013    7 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Sono tornata, un po' più motivata di prima.
Niente, la "Drama queen" (cioè  tipo "regina della recitazione") del titolo è London, chiaramente... e questo capitolo è un po' più introspettivo/sentimentale. Mostra un po' più del loro apparato psicologico, ecco.
Non ho voglia di parlare molto.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo è ispirato a "The Outsider" degli A Perfet Circle.

Il banner appartiene a pandamito ♥










 

Ciao, nonna. Ti voglio bene.







 

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Blur
∞ 
(Tied to a Railroad)




 
 
007. Seventh Chapter – Drama queen.




L’asfalto scricchiolava passivamente sotto i loro piedi.
Li avvolgeva uno strano e doloroso silenzio, carico come l’elettetricità di parole troppo pesanti anche solo da pronunciare. Il cielo cominciava a schiarire e, nonostante il Distretto fosse immerso ancora nella placida tranquillità mattutina, i primi lavoratori uscivano dalle proprie case o si apprestavano a farlo.
Era giugno; le fronde dei pochi alberi della zona mandavano il caratteristico ed estivo cicaleccio.

« Non so se resisterò a lungo » sbottò London, ancora adirata. « E’ passato solo un giorno e già non ne posso più. »
Benjamin teneva la testa bassa e camminava lentamente, guardandosi le scarpe da ginnastica.
« Credimi, Klaus è… » cominciò la ragazza, ma, prima di continuare con qualche insulto colorito, si bloccò, notando l’espressione rattristita del gemello. « Cos’hai, Ben? »
Lui, sentendosi chiamato in causa, alzò gli occhi e provò a sorridere. Invano. « Niente. »
London lo osservò preoccupata. « Andiamo, sono io. Capisco quando qualcosa non va. » E forse sapeva già che cosa non andasse, ma aveva troppa paura persino di pensarlo.
« Non ti ha costretta, vero? » chiese candidamente lui, sfiorandole una mano. Lo stomaco della ragazza si contrasse bruscamente.
« Ben, io… » sussurrò, così piano che neanche lei riuscì a sentire la propria voce. « … no. »
Ben annuì, mesto, ricominciando a studiarsi le scarpe. A quanto pareva Klaus l’aveva già messo al corrente degli avvenimenti della notte precedente. Ovviamente.
« Che cosa ti ha detto? » chiese, cauta, cercando disperatamente il suo sguardo.
« Che avete fatto sesso » rispose lui.
« E basta? »
« Basta. »
London smise di camminare e bloccò anche suo fratello. « Ben, guardami » gli disse, prendendogli il volto pallido tra le mani – che le tremavano inspiegabilmente. « Ho sbagliato, lo so. E se c’è una cosa di cui mi pentirò per sempre... è questa. Non so cosa mi sia preso, lui… mi ha baciata… ed io… oh, scusami! » disse, abbracciandolo di slancio. Affondò il viso nella sua spalla, seriamente in colpa.
Ben le carezzò piano la schiena. Era un gesto freddo, eppure sembrava sincero. Rassegnato, quasi.

« Non devi scusarti » replicò serenamente. « Tu non sei di mia proprietà, d’altronde. »
« Non dirlo neanche per scherzo! » esclamò la ragazza, stringendosi di più a lui. « Non ti meriti una cosa del genere. »
Ben ignorò la sua ultima affermazione. « C’è sempre stata attrazione fisica tra voi due, prima o poi sarebbe successo comunque… ti ho convinto io e ora siete sposati, no? »
London si staccò di botto, gli occhi spalancati. « Attrazione fisica? » sibilò inorridita. « Come fai a dire una cosa del genere? »
« Ho notato come ti guarda, Londie… » disse tristemente. « Non sono scemo. »
« Certo che non lo sei, ma… » Le parole le vennero meno. Dopotutto, aveva notato anche lei come Klaus tentasse di provocarla in qualsiasi modo.
« Non ti scusare » ripeté Ben, stavolta più sicuro.
London gli accarezzò una guancia. 
« Tu sai che amo solo te, Ben. »
« Certo » sorrise. Di un sorriso spudoratamente falso.

Quando London e Ben arrivarono al maniero dei Bridge, il sole era già sorto da un po' e la nebbiolina che ogni mattina infestava il Distretto Sei cominciava a dissolversi, lasciando spazio a un caldo umidiccio.
La ragazza, entrando nella casa in cui era cresciuta, fu colta da un istante di nostalgia. Era bello tornare tra quelle mura; era bello rivedere le rigogliose piante del giardino, i dipinti di Ben sparsi per le stanze, ritrovare ogni cosa al proprio posto, come se il giorno del matrimonio si fosse cancellato automaticamente.
Eppure sembravano mesi, anni addirittura, che non rientrava in quella casa, quando invece solo la mattina precedente si stava preparando per il grande evento nella sua stanza in compagnia di sua madre.
Al piano terra la investì un piacevolissimo odore di frittelle e d’un tratto si sentì tornare bambina, quando lei e Ben giocavano a rincorrersi per casa ridendo come matti, pur di accaparrarsi quelle al cioccolato per primi.
Il sorriso che stava per affiorarle sulle labbra morì sul nascere. Era tutto cambiato.
Adesso viveva in una nuova casa, non poteva più permettersi di comportarsi infantilmente, né poteva ridere spensierata con suo fratello. Il suo mondo si stava sgretolando di giorno in giorno, e forse non sarebbe più riuscita a metterne insieme i pezzi, come se quello fosse un puzzle troppo complicato persino per lei.
Entrò in cucina, trovando sua madre ad apparecchiare la piccola tavola quadrata al centro della stanza, quello dove ogni mattina erano soliti fare colazione tutti e quattro insieme.

« Oh, tesoro! » esclamò sua madre, nel vederla. « Come stai? »
London, seguita da Ben, andò ad abbracciarla. « Come sto? » le fece eco, incerta della risposta. « Non bene » disse poi, cercando di evitare lo sguardo di entrambi.
« Cos’è successo? » le chiese immediatamente Erzsébet, preoccupata, scostando una sedia dal tavolo per sedersi accanto alla figlia, che nel frattempo si era accomodata e giocherellava passivamente con la sua vecchia tazza di ceramica. Anche Ben aveva preso posto di fianco a loro e aveva cominciato a mangiare la sua frittella in silenzio, fissando il piatto, rattristito.
London evitò di rispondere. Non che avesse vergogna di parlare con sua madre, ma non aveva voglia di riprendere il discorso, anche se sapeva benissimo che l’avrebbe dovuto affrontare di nuovo, prima o poi.
Erzsébet le rivolse uno sguardo indagatore. 
« London, ti prego, dimmi la verità. »
La ragazza sospirò rassegnata. « Hai presente la prima notte di nozze, mamma? »
La donna si portò una mano alla bocca. « Voi… quindi voi avete… ? »
« Ecco » rispose London bruscamente, osservando le frittelle ordinatamente impilate senza neanche sfiorarle.
« Oh mio Dio » esclamò orripilata sua madre, intendendo anche più del dovuto. « Non ti ha per caso…? »
« Ah, questo no » biascicò la ragazza. « In effetti sarebbe stato un ottimo alibi, ma, no, non mi ha stuprata o cosa. »
Ben alzò di poco gli occhi su di lei, per poi tornare a osservare il piatto.
Erzsébet cercò disperatamente un segno di comprensione da parte della figlia. 
« Allora mi spieghi com’è successo? »
« Mamma » borbottò London. « Non devo certo spiegarti come le api trasportano il polline, vero? »
La donna arrossì lievemente e fece un risolino nervoso. Probabilmente era sconcertata dal fatto che la figlia fosse decisamente meno in imbarazzo di lei. « Non intendevo quello, tesoro » si affrettò a spiegare. « Solo che tu e Klaus sembravate… ecco… »
London sospirò, ma evitò di continuare la frase.
Erzsébet spostò lo sguardo sul figlio, con aria pensierosa e interdetta.  Sapeva bene del rapporto che correva tra i due gemelli, tant’è vero che lei e suo marito non si erano mai dimostrati contrari, né si erano opposti. Tutti potevano vedere quanto London e Benjamin si amassero, non c’era motivo di nasconderlo a nessuno.
Eppure tutti e tre, in quella cucina, in quel momento, non si capacitavano a credere che London in persona si fosse concessa al suo peggior nemico proprio la notte precedente – e per quale motivo neanche lo sapevano. Un capriccio, forse?
Finirono la colazione in un silenzio pesante, mentre, nel giardino, le cicale continuavano a frinire ignare della tempesta che si stava abbattendo su quella famiglia.

London non tornò nella sua nuova casa per i restanti tre giorni. Fece alcune commissioni per sua madre, passeggiò con Ben, parlò con suo padre e giocò a scacchi con lui – anche se non era mai stata brava quanto il gemello, questo doveva ammetterlo.
Passò delle giornate tutto sommato piacevoli e per una volta i suoi genitori non le dissero nulla, lasciandola fare.
Tuttavia, il quarto giorno Erzsébet entrò nella sua stanza e, scostando delicatamente le tende della finestra, si sedette sul letto accanto a lei.
London si era già destata, ma si lasciò accarezzare un braccio dalla madre come quando era piccola e lei la svegliava per andare a scuola. 
« Buongiorno » le disse questa sorridendo.
La ragazza sbadigliò e rispose, stiracchiando le braccia: 
« ‘Giorno. »
Rimasero così per qualche istante; era da tempo che madre e figlia non condividevano momenti del genere.
London era grata a sua madre per non aver ancora accennato a Klaus in tre giorni di permanenza, ma quella mattina le era chiaro come l’acqua che ne avrebbero parlato.
Infatti Erzsébet, schiarendosi la voce, cominciò senza preamboli: 
« Credo che dovresti tornare a casa, tesoro. »
Per lei fu come ricevere uno schiaffo, o una secchiata d’acqua gelida. « Questa è casa mia » ribatté debolmente, eppure con convinzione. O forse era solo semplice ostinazione.
La donna alzò gli occhi al cielo. 
« Adesso voglio chiederti una cosa, London » esordì con il tono di chi la sa lunga. « Perché sei stata con Klaus, se dici di odiarlo tanto? »
London si alzò a sedere di scatto, punta nel vivo. « Mamma » disse, con il tono leggermente alzato, « che cosa stai insinuando? »
Erzsébet non si scompose e la osservò seria. A London sua madre ricordava tanto Ben, in quei momenti.
« Voglio solo che tu mi dica la verità » chiarì la donna. « Che cosa provi per lui? Perché se ti senti… attratta, in qualche modo, credo che non dovresti tenertelo dentro e mentire a tuo fratello, oltre che a te stessa. Specialmente dopo tutte le proteste che hai fatto per non sposarlo. »
E forse quello fu uno schiaffo morale ancora più doloroso.
« Oh Dio » esclamò sconvolta. « Io non sono attratta da Klaus per niente, né lo sarò mai! E poi Ben lo sa benissimo, non c’è bisogno che glielo dica. » London sbuffò e borbottò qualche altra cosa, mentre sua madre si alzava e aggiustava distrattamente il lenzuolo mezzo caduto sul pavimento.
« Se lo dici tu » concesse Erzsébet. « Ma bada bene a non ferire i sentimenti di Benjamin » la ammonì, incrociando le braccia. « Sai com’è fatto. E adesso torna a casa, o farai una brutta figura con i Wreisht. »
London avrebbe voluto ribattere che non gliene importava nulla di fare brutta figura con i suoi neo suoceri, ma sua madre uscì prima che potesse fermarla.

Quando rientrò nella villa, le luci del pianterreno erano spente. London si chiuse la porta alle spalle con un gesto irritato e circospetta si avviò nell’androne, dove ancora erano visibili le ultime tracce del giorno del matrimonio, come qualche petalo di rosa sul pavimento e delle candele consumate sul tavolo da pranzo.
Si chiese per un breve istante che cosa avesse fatto Klaus in quei giorni; forse era tornato a casa anche lui.
Impossibile, si disse scuotendo la testa. Quell’idiota sarà andato in giro a bivaccare come al solito.
Nella penombra serale osservò le scale e il pianerottolo, altrettanto bui e silenziosi.

« Klaus? » chiamò piano. A risponderle ci fu solo il nulla.
Salì al piano superiore, guardinga, temendo che il suo odiato marito potesse spuntar fuori da un momento all’altro. La villa era immersa nel silenzio, eppure a London per un istante parve di sentire una voce di donna provenire dalla stanza da letto. Assai lungi dal farsi problemi a entrare, la ragazza aprì la porta della camera che condivideva con Klaus con una sorta di presentimento.
Lui era lì, steso sotto le coperte, le mani dietro la testa e un sigaro tra le labbra.
Il fetore del fumo la colse improvvisamente, ma fu un’altra cosa a farla imbestialire. Al suo posto, sul suo letto, c’era una donna nuda che contava dei soldi.
I due per un attimo la fissarono sconcertati, come se fosse un essere venuto da un altro mondo; lei si limitò a sbattere la porta, rossa in viso dalla rabbia e dall’imbarazzo.
E ha anche il coraggio di chiamarmi puttana?, pensò adirata, sibilando un insulto tra i denti. Diede un pugno al muro e non ebbe neanche il tempo di riflettere su come agire che il suo istinto le fece di nuovo spalancare la porta.

« Fuori! » strillò con un gesto eloquente. « Fuori dalla mia stanza! »
La donna si rivestì velocemente e in silenzio, lanciando un’ultima occhiata a Klaus che osservava la scena interdetto.
« Non è solo la tua stanza, Londie » precisò lui a bassa voce, ma il ringhio di London bastò a farlo tacere.
« Abbi la decenza di non parlare » gridò con rabbia. « Fuori, avanti! » ripeté alla prostituta che abbandonò la stanza con un sospiro irritato. London la guardò uscire con le braccia incrociate e quando finalmente rimase sola con suo marito gli rivolse uno sguardo sprezzante e accusatorio.
« Non ti aspettavo stasera » fece lui con uno sbuffo di fumo, abbandonando il sigaro in un posacenere sul comodino.
La ragazza salì sul letto, pronta a colpirlo – desiderava tanto cancellargli quella maledetta espressione divertita dal viso; se solo avesse potuto gli avrebbe piantato le unghie nella carne – ma Klaus fu più veloce e, afferrandole i polsi e invertendo le posizioni, la bloccò sul nascere.

« Ti detesto! » gli urlò lei in faccia, frustrata.
« Come se non lo sapessi » biascicò l’altro. « Sai, c’è gente che apprezza le mie doti molto meglio di te. »
London gli tempestò il petto di pugni, cosciente che quelle parole e quella ravvicinata distanza con lui la stessero facendo letteralmente implodere, più del previsto. Sentiva la collera scorrerle nel sangue, per cui si liberò di lui in breve tempo e, dopo essere salita a cavalcioni sul suo addome, continuò a sfogarsi, menandolo come non faceva da tempo.
Klaus, pertanto, reagì alla stessa maniera, finché non si ritrovarono sul pavimento, dopo un costante cambiamento scenico, avvolti nel lenzuolo. London rotolò di lato, poi si alzò di scatto in piedi, i capelli disordinatamente scomposti sulle spalle. Si scostò una ciocca dal viso sbuffando e, notando che anche Klaus si era rialzato, si voltò dall’altro lato con le gote arrossate.

« Almeno copriti » disse seccamente.
Klaus alzò gli occhi al cielo. 
« Senti » esordì, scocciato, « non ho voglia di stare a sentire le tue lamentele. Cosa vuoi da me, adesso? »
« Questa casa purtroppo è anche mia » protestò la ragazza. « Non puoi portarti a letto la prima che capita, non qui. »
L’altro si sedette sul bordo del letto, infilandosi i pantaloni del pigiama. « Ah, allora è questo il problema » ribatté con una smorfia quasi divertita. « Niente puttane, capisco. Dunque dovresti andartene anche tu, no? » aggiunse.
London si voltò di nuovo verso di lui con sguardo furente e incapacitato. 
« Smettila di insultarmi, non sono io quella che si vende al primo che passa! »
Klaus avrebbe voluto replicare con qualche commento in merito alla prima notte di nozze, ma si trattenne. « Chiariamo una cosa, London » – e qui lei pensò che erano veramente rari i momenti in cui la chiamava con il suo nome di battesimo – « Io vivo la mia vita, tu vivi la tua. Io vado a letto con chi voglio, tu con tuo fratello. Per quanto mi faccia ribrezzo l’idea, non interferisco nelle tue scelte; e se proprio ci tieni a fare sesso con me, la prossima volta faresti meglio a dirmelo apertamente, senza inutili scenate. D’accordo? »
London sgranò gli occhi, esterrefatta. « Sei impazzito? » gli domandò. « Io non- »
« Sì, certo, dalla a bere a qualcun altro » sbuffò Klaus. « Non so a cosa vuoi arrivare, ma sappi che anche se adesso siamo sposati io continuerò a fare quello che mi pare e piace, che tu lo voglia o meno. »
« Non fraintendere » lo ammonì London con tono più acuto. « Tu mi fai schifo, e credo che il sentimento sia ricambiato. L’hai detto anche tu: adesso siamo sposati, quindi dobbiamo metterci d’accordo in qualche modo se non vogliamo che la nostra vita sia un inferno più di così. »
« Magnifico » ribatté Klaus alzandosi. « Ci sono due camere singole per gli ospiti. Tu prendi quella accanto al bagno, io l’altra. Ti va bene? »
London lo fissò per un istante, sorpresa che avesse già trovato qualcosa di simile ad una soluzione. « Perfetto » assentì quindi, stringendogli controvoglia la mano. « Ma non voglio sgualdrine in giro per casa » precisò.
« E io non voglio essere rotto le palle » aggiunse Klaus, ricambiando la stretta con vigore.
Entrambi uscirono voltando i tacchi e, quando furono per entrare nelle rispettive stanze che si erano assegnati poco prima, il ragazzo non poté non augurarle un 
« Buonanotte » sarcastico e pungente, a cui London fece finta di non prestare ascolto.

 

*

 

Intorno a lui c’era il nulla. Tutto era buio, spento, privo di vita.
Non sapeva neanche se il suo corpo esistesse oppure se fosse solo un pensiero sfocato; la sensazione di stare in posizione eretta neanche ce l’aveva, infatti. Era come se stesse fluttuando nel vuoto, nel silenzio e nella paura.
Klaus si sentiva profondamente inquieto, come se quel nulla prima o poi l’avrebbe inghiottito e soffocato, ponendo fine alla sua vita senza dargli nemmeno il tempo di capire.
Girò su se stesso, spaesato, quando si sentì afferrare una gamba da mani viscide e rugose.
Non ebbe neanche il tempo di urlare o reagire, che un’altra mano deforme gli tappò la bocca da dietro, mentre gli infilzava qualcosa di simile ad un pugnale nella schiena, fino all’elsa, fino a far uscire la punta grondante sangue dal suo costato.
Il dolore lo attraversò con una fitta lanciante, mozzandogli il respiro e offuscandogli la mente.
Altre mani gli afferrarono le braccia e le gambe, trascinandolo verso il basso.
Come aveva previsto, il buio lo stava inghiottendo per non farlo più riemergere.


Klaus aprì gli occhi di scatto, alzandosi a sedere e risucchiando l’aria che gli era improvvisamente venuta meno. Boccheggiò per qualche istante, portandosi una mano all’altezza del petto e tastandosi la zona in cui il pugnale del suo incubo l’aveva trapassato. Quasi sentiva ancora la lama incidergli la carne.
Si passò l’altra mano sulla fronte, trovandola madida di sudore.
Con il cuore in gola, si alzò dal letto per poi aprire la finestra sulla destra. Inspirò l’aria notturna come se non respirasse da tempo immemore, poggiando le mani sul davanzale per rilassare i muscoli. Qualche uccello notturno gufava tranquillo sul proprio trespolo, mentre una brezza fresca smuoveva l’aria altrimenti carica di appiccicosa umidità.
Klaus imprecò contro il suo incubo sottovoce, stufo di doverne essere perseguitato.
Stava cercando di dimenticare.
Stava cercando di dimenticare il sangue, le urla, la paura e la sofferenza dei Giochi, ma non sapeva se ci sarebbe mai riuscito. Dopotutto quegli incubi che ogni notte agitavano il suo sonno non arrivavano a caso.
Un peso gli opprimeva il petto, come tutte le volte che si svegliava da quelle terribili visioni, e solo in un modo forse sarebbe riuscito a farlo dissolvere. Gli serviva dell’alcool.
London, i sigari e le prostitute non erano bastati a farsi scivolare tutto addosso. Anzi, forse avevano soltanto peggiorato la situazione, soffocandolo di altri problemi, di altre cose a cui pensare.
Si sentiva come se il suo cervello stesse per implodere da un momento all’altro, e forse sarebbe stato anche meglio così. Perché Klaus si domandava spesso cosa sarebbe successo se fosse morto durante gli Hunger Games o, ancora, cosa sarebbe successo se non vi avesse mai partecipato.
Non era per niente facile riuscire a sopprimere i ricordi, sebbene ci stesse provando in tutte le maniere possibili. Provava a non pensarci, provava a comportarsi normalmente come se niente fosse, provava a sfogare sugli altri… ma senza esito. E per di più, puntualmente, gli incubi arrivavano di notte a logorargli la mente. Si era chiesto più volte se la sua vita avesse un senso, se in mezzo a tutto quel marcio ci fosse ancora qualcosa per cui valeva la pena combattere, ma non aveva mai trovato risposta.
Vuoto: di questo era fatto Klaus Wreisht in quel momento. Era la rappresentazione del fallimento, dell’inutilità e dell’apatia, e la cosa che lo faceva infuriare di più era il fatto che ne fosse pienamente cosciente e nonostante questo non riusciva a trovare un modo per seppellire ogni cosa e tornare il solito ragazzo scapestrato che tutto il Distretto Sei conosceva.
Fece un sorriso amaro a quel pensiero: il brutto carattere gli sarebbe rimasto sempre e comunque. Sarebbe rimasto il Klaus orgoglioso, presuntuoso, borioso, egoista, ipocrita e saccente che tutti ricordavano e detestavano.
Niente e nessuno l’avrebbe cambiato.
Forse.

Scese le scale della cantina velocemente. Era un piccolo seminterrato da cui si accedeva dalla cucina e fino al giorno prima non ci aveva fatto caso, perché effettivamente aveva esplorato quella casa davvero poco.
Tuttora non si capacitava del fatto che dovesse ancora riuscire ad orientarsi in quella che era diventata la sua dimora a tutti gli effetti; era decisamente frustrante, se si metteva in conto il fatto che Klaus avesse sempre avuto un viscerale bisogno di sapere tutto e subito.
Nella cantina c’erano ancora molti scatoloni sigillati – contenenti chissà cosa – e diversi scaffali di vino pregiato, adatto probabilmente alle occasioni più importanti. Ma per Klaus non c’erano mai state occasioni importanti per bere: qualsiasi momento era buono e opportuno per sgolarsi qualche sano bicchiere di qualchesana bevanda alcolica.
Osservò interessato una fila di liquori in bottiglia, quando la sua attenzione venne attirata da un piccolo tonfo sordo alla sua sinistra.
Si voltò di scatto, colto di sorpresa, e, intuendo che il rumore provenisse da dietro alcuni scatoloni impilati, si avvicinò circospetto.

« Chi è? » domandò lievemente una voce intontita dai fumi dell’alcool.
Klaus fissò London a metà tra lo stupito e il divertito. Reggeva tra le mani una bottiglia senza etichetta e, seduta su uno scatolone un po’ più rigido, si dondolava debolmente. 
« Ah, sei tu » borbottò, portandosi di nuovo la bottiglia alla bocca.
« Chi altri, se no? » chiese di riflesso, osservandola con un sorriso obliquo.
London ubriaca, questa è da ricordare!, fu il suo primo pensiero. Non avrebbe mai immaginato che sua moglie reggesse l’alcool così male.
La ragazza fece un verso d’apprezzamento. 
« Sei ovunque » sbuffò poi, tralasciando il vino per un momento. « Lasciami… lasciami in pace. »
Klaus la ignorò. « Cosa bevi? » si interessò, ammiccando.
« Non lo so » rispose London rigirandosi la bottiglia tra le mani. « Ma è buono. »
« Se fosse stato veleno saresti già morta, lo sai? » le domandò addolcendo sarcasticamente il tono come si farebbe con un bambino.
« Meglio morta che in tua compagnia » ribatté lei, sorseggiando le utilme dita di vino.
« Oh, vedo che mantieni la tua risaputa simpatia anche da ubriaca… stupendo » commentò Klaus. « Posso accomodarmi? » disse, ma non le diede neanche il tempo di rispondere che già aveva spostato uno scatolone e si era seduto accanto a lei.
« Vuoi assaggiare? » domandò London, le gote leggermente arrossate.
Il ragazzo ridacchiò tra sé a quella scena fuori dal mondo. Aveva già avuto a che fare con un Bridge ubriaco, tempo addietro, e ricordava ancora come tutta la faccenda si fosse conclusa. 
« D’accordo. »
London gli porse la bottiglia, che era quasi completamente vuota. Klaus la finì nel giro di pochi secondi.
« Mi hai lasciato la parte migliore » disse, schioccando la lingua sul palato. « Era ottimo. » Posò la bottiglia a terra, stando attendo a non farla rompere. « Chi ha portato tutta questa roba, qui in cantina? »
« Non ne ho idea » biascicò la ragazza, sistemandosi meglio sullo scatolone e portandosi le ginocchia al petto. A quel gesto assolutamente non calcolato la già corta camicia da notte le lasciò le gambe scoperte.
Klaus non poté fare a meno di lanciare un’occhiata compiaciuta, ancora memore di quello che era successo quattro giorni prima. London aveva delle belle gambe lunghe, morbide ma toniche. Lo aveva notato con piacere, considerando che di gambe ne aveva viste molte in vita sua.
Se solo London non fosse stata, appunto, London, forse ci avrebbe fatto già un pensierino da tempo.
Come se di pensierini non ne avessi mai fatti, si ricordò in quel momento, spostando lo sguardo altrove. Sei l’incoerenza fatta persona, Klaus Wreisht, davvero. Si complimentò con se stesso sarcasticamente, scuotendo la testa.
Il suo rapporto con quella ragazza si era sempre basato su un solo fattore: l’odio reciproco.
Klaus era convinto che si erano odiati, si odiavano e si sarebbero odiati per sempre, ma non aveva mai messo in considerazione il fatto che forse qualcosa sarebbe anche potuta cambiare – in meglio o in peggio ancora non ne aveva idea.
Non aveva intenzione di dare una svolta decisiva a quella serata, per cui cercò di non sfiorarla neanche (e  inoltre una vocina insidiosa nella sua testa gli sussurrava che forse avrebbe preferito che London fosse lucida quando avrebbero avuto un altro incontro ravvicinato). Dopotutto aveva ancora le immagini del suo incubo impresse nella mente, non aveva la forza di pensare ad altro, anche se – gli costava moltissimo ammetterlo – la presenza di sua moglie era una buona alternativa all’alcool per distrarlo da quelle sensazioni di vuoto e solitudine.

« Domani inizia il Tour della Vittoria » le disse, fissando un punto impreciso sulla parete di fronte. « Almeno non mi vedrai per un po’. »
London mugugnò qualcosa e poi, senza preavviso, appoggiò la testa sulla sua spalla.
Klaus per un attimo rimase interdetto. 
« Non è una buona notizia, Londie? »
« Forse sì » replicò piano la ragazza, chiudendo gli occhi. « Anzi, forse no. »
Lui inarcò un sopracciglio. Gli stava forse dicendo che non voleva che se ne andasse? Impossibile. « No? » chiese, più curioso che incapacitato.
« Non voglio che tu parta di nuovo » borbottò London, corrugando la fronte.
Klaus stavolta rimase seriamente stupito, rimanendo per qualche istante in silenzio. E poi si ricordò che London normalmente sapeva essere una brava bugiarda… ma in vino veritas. 
« Se tu dovessi scegliere… sceglieresti me o Ben? » domandò cauto, guardandola di sottecchi.
Lei semplicemente non rispose; si era addormentata e il suo respiro lieve le conferiva quasi un’aria innocente.
Klaus lasciò perdere: in effetti, forse già sapeva che per London una risposta a quella domanda non c’era… o forse si rifiutava di ascoltare ancora una volta il nome dell’altro Bridge pronunciato da lei.


 













   
 
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