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Autore: _Lalli    15/06/2013    2 recensioni
Arya Dröttningu, ambasciatrice degli elfi, protegge l'unico uovo di drago in possesso alla resistenza; Durza lo Spettro attende da anni l'occasione di impossessarsene e finalmente pare esserci riuscito, ma l'elfa riesce a rovinare miseramente i suoi piani. Allo Spettro non rimane che un'unica soluzione: torturare la sua prigioniera senza pietà, fino a che non confessi il luogo in cui l'uovo è stato trasportato.
Ma se, durante la prigionia, qualcosa di inaspettato fosse accaduto ad Arya? Qualcosa di cui nessuno, a parte lei e Durza, è a conoscenza?
Costretta ad un viaggio avventato e ad un'improbabile alleanza, Arya scoprirà lati insospettabili del suo nemico e si lancerà in una ricerca che getterà i semi del suo destino. Coinvolta in segreti incredibili, finirà per svelare alcuni dei molti misteri che ancora oscurano la bellissima terra di Alagaësia.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altri, Arya, Durza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Ciao
11. Nella tana del lupo

Durza si stirò come un gatto non appena sorse il pallido sole invernale. Aveva impiegato sei giorni esatti per compiere il tragitto fino a quel punto e secondo i suoi calcoli avrebbe raggiunto la grande collina, alla cui base sorgeva Uru’baen, prima che il sole giungesse allo Zenit. Viaggiava a piedi, orientandosi in principio con il corso del fiume Ramr -ingrossato per lo scioglimento delle nevi- e poi con le stelle, che sapeva essere fisse in cielo.
Galbatorix lo aveva informato che per il ritorno avrebbe dovuto cavalcare un Lethrblaka con i Ra’zac e quindi aveva preferito viaggiare solo con se stesso, così da non dovere abbandonare il suo cavallo, Nebbia, ad Urû’baen. Almeno il suo magnifico animale voleva lasciarlo al sicuro nelle stalle di Gil’ead.
Sapeva che per un uomo del suo rango e della sua importanza sarebbe stato consono presentarsi a corte a cavallo, con le bisacce appese al fianco dell’animale. Ma a lui non gliene importava un beato niente di quello che avrebbero detto, pensato, o sussurrato i cortigiani nel vederlo conciato in quella maniera. Aveva indossato i vecchi e ormai logori stivali marroni, ammorbiditi dalle leghe che avevano percorso e quindi più comodi per la corsa, portava un semplice zaino con i viveri e le coperte in spalla e aveva inevitabilmente bisogno di un bagno dopo tutti quei giorni di marcia e di dormite all’addiaccio.
Stava ormai camminando lungo il sentiero che solcava le colline, coperte interamente da filari spogli che con la stagione della fioritura si sarebbero riempiti di foglie e con la stagione dei venti avrebbero dato grossi grappoli d’uva nera e bianca, da cui si ricavava il raffinato vino che si consumava alla corte. Anche lui ne aveva alcune botti nel suo palazzo, ma era una bevanda riservata ai più abbienti e che non tutti potevano permettersi.
Come aveva previsto, raggiunse la capitale quando il sole sfiorò lo Zenit. Il frenetico movimento di bestie e persone lo infastidì immediatamente. La città era cresciuta parecchio quando era stata in mano ai Broddring, in particolare sotto l’ultimo sovrano di quella stirpe, Angrenost, e le vecchie mura erano state ampliate fino a cingere l’intera cittadina, ma da allora erano state nuovamente rinforzate e ristrutturate ed erano larghe e alte il doppio rispetto ad ottant’anni prima.
Durza prese coscienza di aver passato almeno un secolo al servizio di Galbatorix. Essendo nato umano, il tempo continuava ad avere uno strano valore per lui, sapeva di poterne avere per altri millenni, ma quando si guardava indietro gli sembrava di aver già vissuto centinaia di vite. E non doveva avere più di centocinquant’anni. Forse. Nella tribù dov’era nato in pochi sapevano contare, e suo padre era tra quei pochi, ma non si era mai interessato del conto delle primavere che passavano i suoi figli. Ricordava solo che sua sorella aveva quattro primavere in meno di lui..
Scosse infastidito la testa. Non era certamente il momento giusto per lasciarsi trascinare da quei pensieri inerti. Al cospetto di Galbatorix bisognava sempre stare in guardia. Era un pazzo, sì, ma un pazzo geniale.
Impiegò un tempo ridicolmente lungo a percorrere le vie affollate della città, tanto che finì per deviare per i vicoli più oscuri e malfamati, dove donne con i vestiti abbassati sul seno e le labbra dipinte di rosso offrivano i loro servigi alla luce del sole. Ma purtroppo aveva altro da fare e tirò dritto, calandosi ancora di più il cappuccio del mantello nero sul viso.
La struttura di Urû’baen era logica, era ben divisa tra i quartieri dei commercianti, dei conciatori, dei lavoratori della lana e del tessile, degli artigiani, dei fabbri, dei costruttori, dei muratori, degli speziali ed erboristi. Le taverne erano sparse qua e là agli angoli delle strade e un’ampia fascia accanto al palazzo era occupata dalle caserme.
E il palazzo. Era enorme, a misura di drago in tutti i sensi. Il portone di ingresso era della larghezza esatta di
Shruikan e l’intero edificio era in grado di ospitare appena il mastodontico animale. Ecco, quel drago era una delle poche creature che Durza temeva.
Quando arrivò sotto l’ombra dello sperone roccioso che proteggeva il castello sotto le sue ali lugubri, raddrizzò le spalle e sospirò. Due guardie incrociarono le lance per impedirgli il passaggio e gli domandarono chi fosse e cosa volesse. Sì, forse apparire su un maestoso cavallo da guerra avrebbe fatto tutto un altro effetto.
Si scrollò il cappuccio del mantello. «Sono Durza lo Spettro». E sorrise perché il concetto fosse chiaro. «Sono atteso dal sovrano».
Lo lasciarono passare, chiamarono a gran voce un compare dal cortile, e lo fecero scortare per il palazzo. I passi suoi e del soldato davanti a lui risuonarono per i corridoi alti e cupi, illuminati talvolta da torce, talvolta da fuochi fatui. Nel passare per il piano terra incontrarono diversi servi indaffarati nella preparazione del pranzo, che si muovevano con piatti ricolmi di pietanze.
Poi salirono lo scalone e tutto si fece più ricco, caldo, luminoso e sfarzoso. Lunghi e precisi arazzi raffiguranti varie zone di Alagaësia ingentilivano le pareti cupe. Le finestre, che al piano terra erano molto strette per preservare il calore, divennero le quattro volte più grandi, coperte da vetri finissimi e tende di velluto pesante. Diversi bracieri scaldavano l’aria.
Il massiccio portone del salone da pranzo fu spalancato con fatica con la forza coordinata di quattro uomini. Sulle due ante, le formelle di legno di ciliegio raffiguravano il sovrano, anche se spesso girato di spalle, mentre compiva l’oneroso compito di sterminare il corrotto ordine dei draghi e dei loro cavalieri, ristabilendo la pace nel territorio di Alagaësia.
Galbatorix non aveva nemmeno avuto il buon gusto di dare un nome al suo regno. Dopo il
Regno di Broddring era seguito semplicemente l’Impero.
Lo Spettro avanzò con passi decisi nella stanza.
Seppe di aver infranto ogni regola di decenza per i canoni dei nobili presenti quando quelli lo occhieggiarono con velato disgusto, senza però interrompere le loro conversazioni. Qualcuno bisbigliò un commento sarcastico o astioso e lo Spettro si affrettò a fulminare con un’occhiata raccapricciante chiunque osasse dire qualcosa alle sue spalle. Possibile che nessuno avesse ancora capito che lui poteva sentire molto meglio di un qualunque normale umano?
Disprezzò ogni uomo o donna che respirava in quella stanza, ed erano più di una cinquantina. Quei conti e quelle contesse avevano ricche residenze in città e ricevevano con regolarità una rendita da un appezzamento di terreno che possedevano in giro per Alagaësia. La maggior parte di loro non aveva nemmeno mai visto la terra che procurava loro il denaro necessario per permettersi abiti lussuosi, gioielli pregiati, stuoli di servitori e case fornite di ogni comodità. Erano tutti così visceralmente immersi ed invischiati negli intrighi di corte da aver perso il contatto con il mondo esterno.
Erano stupidi. E Galbatorix si stava prendendo apertamente gioco di loro senza che lo notassero. Il re amava quell’ambiente che lo circondava, trovava divertente vedere ora uno ora l’altro nobile parteggiare per ottenere le sue attenzioni, che spesso si limitavano ad un semplice cenno di saluto e, solo con le compagnie preferite, ad una cena nel suo salone privato. Senza parlare del numero quasi vergognoso di concubine che il sovrano aveva radunato intorno a sé. Era ovvio che qualunque cortigiana sarebbe stata ben disposta nei suoi confronti, era il re! Ma le povere ragazze venivano elette a preferite e gettate in un angolo con la rapidità con cui passano le stagioni, non appena una più giovane, bella o provocante veniva adocchiata da Galbatorix. Del resto era ciò che si meritavano! Gli arrivisti non erano destinati a fare strada nel mondo, e con Galbatorix meno che mai.
Durza si ripeté per l’ennesima volta che il re non era affatto stupido. Nel vincolare a sé tutti quei nobiliastri, rendendo il loro potere più simbolico che effettivo, era riuscito ad affidare la gestione delle proprie città a governatori o ad altri aristocratici minori, legati a lui da un giuramento di fedeltà o di ubbidienza e che gli permettevano di avere un contatto diretto e prioritario con il territorio amministrato e soprattutto con le tasse che riusciva a spremervi. Il denaro era il solo scopo del sovrano, ma del resto una guerra bisogna pagarla, le confische forzate non sono sempre sufficienti, e quella guerra contro i ribelli andava avanti da decenni. Spesso erano solo scaramucce di poca rilevanza, talvolta vere e proprie battaglie, ma era necessario mantenere costantemente armato un esercito regolare per non farsi cogliere di sorpresa.
Non che Galbatorix avesse bisogno di un esercito per sbaragliare i Varden, il suo potere era così grande e il suo drago così potente che avrebbe potuto spazzare via i suoi avversari con una moderata fatica.
Il vero problema era la sua ricerca, che perseguiva fino alla follia. Lo Spettro sapeva che se non fosse stato per gli incantesimi, il re sarebbe diventato cieco già da parecchi anni a causa delle ore e delle giornate passate sui libri polverosi, alla luce tremula delle candele.
Il sovrano cercava il nome, la parola o la frase che poteva controllare l’antica lingua e piegare l’intera magia al suo volere. Dal canto suo, Durza non era neppure sicuro che esistesse una parola con un simile potere, ma se il re insisteva non poteva significare altro che una possibilità c’era.
Forse non era ancora sicuro di avere capito se fosse pazzo o geniale.
Quando arrivò al cospetto del proprio signore, che sedeva in fondo alla sala circondato da amabile compagnia, si inchinò e rimase in ginocchio, in attesa che gli fosse permesso di rialzarsi.
E dovette aspettare per quella che gli parve un’eternità prima che il sovrano lo degnasse della minima attenzione, ma alla fine parlò.
«Durza! Con tutta quella polvere addosso non ti avevo riconosciuto».
Lo Spettro considerò quelle parole come un permesso e si rialzò. «L’urgenza della tua convocazione non mi ha permesso di indugiare prima di venire qui».
Galbatorix sorrise bonariamente. Il tempo aveva lasciato qualche segno sul suo viso scarno e sottili rughe gli solcavano la pelle intorno agli occhi scuri, ma nonostante quei segni il re poteva essere ancora considerato un uomo affascinante.
«Certamente, certamente. Ma venire qui conciato come un messaggero mi pare eccessivo». Delle risatine risuonarono nella stanza improvvisamente muta. «E riguardo a ciò che devo dirti, ne discuteremo in privato più tardi. Se ora vuoi unirti al pranzo insieme a tutti noi..» disse il sovrano.
Durza gettò un’occhiata di sufficienza alla marmaglia di gente vestita di sete e velluti che lo circondava e scosse il capo. «Con il tuo permesso, mi ritirerò nella mia stanza».
Pochi minuti dopo una cameriera gli aprì la porta che conduceva alla sua camera da letto. Anche lui, come quasi tutti i nobili presenti, aveva una piccola stanza tutta sua a palazzo, nel caso in cui si fosse dovuto trattenere, come in quel momento. Si fece portare il pranzo in camera e si fece preparare un bagno perché effettivamente ne aveva bisogno. Quando gli odori sono più forti alle narici, ci si preoccupa di più della propria igiene, era una cosa che aveva capito dopo essere diventato uno Spettro.
Galbatorix si fece attendere. Era ormai scesa la sera quando fu convocato nella biblioteca reale, il servo che lo precedeva reggeva una fiaccola e faticava comunque a vedere, tanto che ad un certo punto lo congedò, informandolo di essere in grado di proseguire da solo. Non aveva certamente bisogno di una balia per orientarsi nel castello, vi si aggirava da decenni.
Il sovrano era in piedi di fronte ad un alto specchio, in un angolo dell’immensa e labirintica biblioteca. Passava lì molto del suo tempo, la stanza era ben protetta perché nessuno potesse varcare la soglia senza il suo permesso. Il re sussurrò alcune parole di congedo e poi si voltò nella sua direzione. Durza percepì la sua forza e il suo sconfinato potere e il suo corpo si mise automaticamente in allerta.
«Vedo con piacere che hai rispettato i tempi che ti ho imposto».
«Sì, mio signore».
«E l’Elfa?»
«Chiusa nella sua cella, c’è qualcuno che la sta sorvegliando per conto mio».
Lo Spettro aveva cercato di tenere quell’argomento fuori dai suoi pensieri, ma era ovvio che Galbatorix lo avrebbe tirato fuori. Arya rappresentava il suo più grande fallimento da quando era al servizio del sovrano. Dovette fare uno sforzo per ricacciare un sorriso. Almeno era riuscito a lasciare su di lei un ricordo permanente prima di andarsene. Non sapeva esattamente cosa lo avesse spinto a baciarla, ne aveva avuto voglia, e l’aveva fatto. E non era stato così male, o perlomeno, lei non aveva avuto tempo di ribellarsi, o allora sì che avrebbe fatto male.
«Sei sicuro che gli umani saranno sufficienti per impedirle di fuggire?» chiese il re con noncuranza, occupando con calma una poltrona imbottita.
«La porta è sigillata con un incantesimo. E non ho mai detto di averla lasciata in custodia ai soli uomini, mio re».
«Oh, vedo che la nostra trovatella comincia ad essere di qualche utilità!» disse Galbatorix con improvviso ottimismo. «E dimmi:
Lei ha ricordato qualcosa o qualcuno? Ogni più piccola informazione ci sarebbe preziosa, lo sai».
Durza annuì. «Lo so bene. Ma no,
lei non ricorda nulla, non ancora. Ma odia gli Elfi. Ed ho il sospetto che odi anche la prigioniera». l’inquietudine che lo aveva accompagnato da quando il re lo aveva convocato tornò a farsi sentire e lo Spettro tese i muscoli delle gambe, impaziente di andarsene. «Ora posso sapere il motivo per cui la mia presenza ti è necessaria? Ho lasciato una questione in sospeso a Gil’ead».
Il re lo fissò con calma negli occhi. «Una questione che non mi sembri in grado di risolvere», disse con gentilezza, «ma di questo parleremo dopo. Ora ti devo mettere al corrente delle mie ultime decisioni».
«Ti ascolto» fu la risposta monocorde di Durza.
«Si sono verificate diverse cose interessanti negli ultimi tempi. Primo: una spia mi ha riferito di aver visto il figlio di Morzan, o qualcuno di molto simile a lui, nei pressi di Belatona. Ho il timore che sia riuscito a farsi accettare dai Varden e lavori per loro come sicario. Secondo: c’è qualcosa di strano, lo sento nell’aria, nella terra, è come se la natura stesse urlando qualcosa, ma non riesco a capire cosa. E questa faccenda va avanti da quasi tre mesi, che se non sbaglio coincide con il tempo passato dal tuo fiasco sulla Grande Dorsale e dall’ultima volta che ho avuto notizie dell’uovo. Terzo: l’uomo che hai catturato ha portato notizie importanti e credo ormai fermamente che Brom sia ancora vivo e chissà, forse anche in possesso dell’uovo». Durza fu interrotto con un gesto secco quando fece per intervenire. «Quarto: entro domani all’alba i Ra’zac e i loro genitori saranno qui, li ho incaricati di andare a perlustrare Carvahall in cerca di Brom e di qualsiasi notizia sull’uovo. Quinto: le mie spie dai Varden mi hanno informato che si stanno smuovendo le acque. I ribelli continuano a ricevere approvvigionamenti dagli Elfi, armi dai Nani e la promessa di una sostegno militare dal Surda, anche in campo aperto. È questione di pochi mesi prima che si decidano a dichiarare aperta una nuova stagione di guerra. Per ora sono impreparati e la neve è ancora presente sui passi, quindi non si muoveranno. Ma sono stanco di questa eterna minaccia alla pace e all’integrità del mio regno. Una volta finito il tuo compito con l’Elfa, manderò un esercito, e per essere precisi, un esercito di Urgali. Riesci ancora a mantenere il controllo su di loro?»
«Certamente» rispose Durza, trattenendo a stento l’emozione. Il re stava forse dicendo che..?
«Bene allora tu sarai comandante della spedizione, le spie ci forniranno ulteriori dettagli per una vittoria rapida e pulita. Non voglio prigionieri, nemmeno un bambino cencioso. Devono sparire dalla faccia della terra. In quanto ad Ajihad», il cuore dello Spettro accelerò, «fa’ di lui e della sua famiglia ciò che ritieni opportuno. Nemmeno loro mi servono vivi. Dopo questa vittoria i Nani e il Surda si ritireranno per sempre. Per gli Elfi sarà più complicato, ma presto cederanno anche loro».
«Quando?» fu la sola parola che Durza riuscì ad articolare.
Galbatorix lo guardò con una punta di dispiacere. «Quando avrai spremuto ogni informazione possibile alla prigioniera. Una volta eri molto abile in questo, hai perso anche questa capacità?»
«È ostinata».
«Tutti hanno un punto debole. Voglio che trovi il suo. Portala sull’orlo della morte e poi cambia improvvisamente. Fingiti gentile e comprensivo, seducila, cerca di convincerla che lei è dalla parte del torto e tu del giusto. Anche in questo eri molto abile un tempo».
«Credo di esserlo ancora».
La mente di Durza era stipata di pensieri chiassosi e dovette sforzarsi enormemente per celarli e contenerli. Avrebbe pensato a tutto. Ma dopo essersi allontanato dal re.
«C’è un’ultima questione che devo risolvere con te» aggiunse il sovrano con un tono paterno.
«Sì, mio re?» disse, mentre la sensazione di inquietudine aumentava dentro di lui.
«Negli ultimi mesi sei distratto, scostante, superficiale, irrispettoso nei confronti dei miei ordini e dei miei altri servitori. Sono fermamente convinto che tutto ciò troverà presto un rimedio».
Durza si disprezzò profondamente quando si sentì come un bambino rimproverato. Perché il re riusciva ad avere un simile effetto sulle persone?
«Sì» soffiò, scostando gli occhi da quelli di Galbatorix.
«Capirai che il mio rimprovero esige una prova concreta delle mie intenzioni. Io ti amo come si ama un figlio, Durza. Io amerei allo stesso modo tutti gli abitanti di queste terre se solo non si opponessero a me. Vorrei poter proteggere il mondo dalla stupidità e dalla superficialità umana, ma non sono in grado di farlo da solo. E i miei emissari devono essere in grado di agire come se fossero una mia emanazione. Sarai punito per il tuo comportamento. Ti prego di ricordare che è solo per il tuo bene. Non farei mai del male a nessuno, se non fosse necessario, lo sai».
Durza serrò la mascella. Era pazzo, decisamente. E il bello era che era quasi riuscito a convincerlo che tutto fosse veramente per il suo bene. E ora? Cosa aveva intenzione di fare? Un rivoletto di sudore gelido gli accarezzò la schiena. Non poteva nulla contro Galbatorix. E ne fu certo nel momento in cui il suo corpo fu bloccato da un incantesimo che nessun vivente avrebbe mai potuto contrastare. Lo Spettro sentì i sussurri pigri e piangenti delle coscienze dei draghi, che lui stesso aveva contribuito a spezzare.
Il re gli sorrise con gentilezza. «Solo per il tuo bene».
Con un gesto estrasse i suoi stessi pugnali dalla fodera che portava in vita e da quella nascosta nello stivale. Durza guardò con rimpianto le sue armi, con la certezza che non sarebbe mai più stato capace di tenerle in mano senza risvegliare brutti ricordi.
Il sovrano spalmò le lame di un liquido che lo Spettro riconobbe subito e, se avesse potuto, avrebbe tremato.
«Domattina verranno i Ra’zac. Ti riporteranno a Gil’ead in volo. D’ora in poi non deludermi mai più Durza. Ti concedo tre mesi di tempo, se per allora non sarai stato capace di far cantare l’Elfa, la porterai qui e discuteremo nuovamente».
Durza registrò a malapena le parole, perché un istante dopo una lama gli si conficcò all’altezza dello stomaco. Lo Spettro emise un gemito strozzato di dolore e una pozza di sangue si allargò ai suoi piedi. Poi non poté fare altro che guardare l’uomo a cui aveva concesso la sua ubbidienza mentre lo pugnalava con attenzione, evitando accuratamente il cuore e anche ferite che avrebbero potuto condurlo ad una rapida. L’olio che Galbatorix aveva spalmato sulle lame bruciava sulla sua carne come fuoco vivo. Non poté nemmeno gridare, perché la sua bocca era immobilizzata.
Prima di perdere i sensi sentì l’incantesimo del re sciogliersi, e lui si accasciò sul suo sangue.
Prima di perdere i sensi vide il re sorridergli come un padre affettuoso.



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I miei omaggi a tutti voi :)
Spero di essere stata abbastanza coerente con le scarne descrizioni di Paolini, in caso contrario siete invitati a farmelo presente.
Per la corte di Galbatorix e la situazione dei nobili mi sono ispirata alla corte di Versailles sotto Luigi XIV e XV.
Se avete altre domande, vedrò di rispondere con puntualità :D
Baci e grazie a tutti ;)
  
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