Durza
si stirò come un gatto non appena sorse il pallido sole
invernale.
Aveva impiegato sei giorni esatti per compiere il tragitto fino a
quel punto e secondo i suoi calcoli avrebbe raggiunto la grande
collina, alla cui base sorgeva Uru’baen, prima che il sole
giungesse allo Zenit. Viaggiava a piedi, orientandosi in principio
con il corso del fiume Ramr -ingrossato per lo scioglimento delle
nevi- e poi con le stelle, che sapeva essere fisse in
cielo.
Galbatorix lo aveva informato che per il ritorno avrebbe
dovuto cavalcare un Lethrblaka con i Ra’zac e quindi aveva
preferito viaggiare solo con se stesso, così da non dovere
abbandonare il suo cavallo, Nebbia, ad Urû’baen.
Almeno il suo
magnifico animale voleva lasciarlo al sicuro nelle stalle di
Gil’ead.
Sapeva che per un uomo del suo rango e della sua
importanza sarebbe stato consono presentarsi a corte a cavallo, con
le bisacce appese al fianco dell’animale. Ma a lui non gliene
importava un beato niente di quello che avrebbero detto, pensato, o
sussurrato i cortigiani nel vederlo conciato in quella maniera. Aveva
indossato i vecchi e ormai logori stivali marroni, ammorbiditi dalle
leghe che avevano percorso e quindi più comodi per la corsa,
portava
un semplice zaino con i viveri e le coperte in spalla e aveva
inevitabilmente bisogno di un bagno dopo tutti quei giorni di marcia
e di dormite all’addiaccio.
Stava ormai camminando lungo il
sentiero che solcava le colline, coperte interamente da filari spogli
che con la stagione della fioritura si sarebbero riempiti di foglie e
con la stagione dei venti avrebbero dato grossi grappoli
d’uva nera
e bianca, da cui si ricavava il raffinato vino che si consumava alla
corte. Anche lui ne aveva alcune botti nel suo palazzo, ma era una
bevanda riservata ai più abbienti e che non tutti potevano
permettersi.
Come aveva previsto, raggiunse la capitale quando il
sole sfiorò lo Zenit. Il frenetico movimento di bestie e
persone lo
infastidì immediatamente. La città era cresciuta
parecchio quando
era stata in mano ai Broddring, in particolare sotto l’ultimo
sovrano di quella stirpe, Angrenost, e le vecchie mura erano state
ampliate fino a cingere l’intera cittadina, ma da allora
erano
state nuovamente rinforzate e ristrutturate ed erano larghe e alte il
doppio rispetto ad ottant’anni prima.
Durza prese coscienza di
aver passato almeno un secolo al servizio di Galbatorix. Essendo nato
umano, il tempo continuava ad avere uno strano valore per lui, sapeva
di poterne avere per altri millenni, ma quando si guardava indietro
gli sembrava di aver già vissuto centinaia di vite. E non
doveva
avere più di centocinquant’anni. Forse. Nella
tribù dov’era
nato in pochi sapevano contare, e suo padre era tra quei pochi, ma
non si era mai interessato del conto delle primavere che passavano i
suoi figli. Ricordava solo che sua sorella aveva quattro primavere in
meno di lui..
Scosse infastidito la testa. Non era certamente il
momento giusto per lasciarsi trascinare da quei pensieri inerti. Al
cospetto di Galbatorix bisognava sempre stare in guardia. Era un
pazzo, sì, ma un pazzo geniale.
Impiegò un tempo ridicolmente
lungo a percorrere le vie affollate della città, tanto che
finì per
deviare per i vicoli più oscuri e malfamati, dove donne con
i
vestiti abbassati sul seno e le labbra dipinte di rosso offrivano i
loro servigi alla luce del sole. Ma purtroppo aveva altro da fare e
tirò dritto, calandosi ancora di più il cappuccio
del mantello nero
sul viso.
La struttura di Urû’baen era logica, era ben divisa
tra i quartieri dei commercianti, dei conciatori, dei lavoratori
della lana e del tessile, degli artigiani, dei fabbri, dei
costruttori, dei muratori, degli speziali ed erboristi. Le taverne
erano sparse qua e là agli angoli delle strade e
un’ampia fascia
accanto al palazzo era occupata dalle caserme.
E il palazzo. Era
enorme, a misura di drago in tutti i sensi. Il portone di ingresso
era della larghezza esatta di Shruikan
e
l’intero edificio era in grado di ospitare appena il
mastodontico
animale. Ecco, quel drago era una delle poche creature che Durza
temeva.
Quando arrivò sotto l’ombra dello sperone roccioso
che
proteggeva il castello sotto le sue ali lugubri, raddrizzò
le spalle
e sospirò. Due guardie incrociarono le lance per impedirgli
il
passaggio e gli domandarono chi fosse e cosa volesse. Sì,
forse
apparire su un maestoso cavallo da guerra avrebbe fatto tutto un
altro effetto.
Si scrollò il cappuccio del mantello. «Sono Durza
lo Spettro». E sorrise perché il concetto fosse
chiaro. «Sono
atteso dal sovrano».
Lo lasciarono passare, chiamarono a gran
voce un compare dal cortile, e lo fecero scortare per il palazzo. I
passi suoi e del soldato davanti a lui risuonarono per i corridoi
alti e cupi, illuminati talvolta da torce, talvolta da fuochi fatui.
Nel passare per il piano terra incontrarono diversi servi indaffarati
nella preparazione del pranzo, che si muovevano con piatti ricolmi di
pietanze.
Poi salirono lo scalone e tutto si fece più ricco,
caldo, luminoso e sfarzoso. Lunghi e precisi arazzi raffiguranti
varie zone di Alagaësia ingentilivano le pareti cupe. Le
finestre,
che al piano terra erano molto strette per preservare il calore,
divennero le quattro volte più grandi, coperte da vetri
finissimi e
tende di velluto pesante. Diversi bracieri scaldavano l’aria.
Il
massiccio portone del salone da pranzo fu spalancato con fatica con
la forza coordinata di quattro uomini. Sulle due ante, le formelle di
legno di ciliegio raffiguravano il sovrano, anche se spesso girato di
spalle, mentre compiva l’oneroso compito di sterminare il
corrotto
ordine dei draghi e dei loro cavalieri, ristabilendo la pace nel
territorio di Alagaësia.
Galbatorix non aveva nemmeno avuto il
buon gusto di dare un nome al suo regno. Dopo il Regno
di Broddring
era seguito semplicemente l’Impero.
Lo
Spettro avanzò con passi decisi nella stanza.
Seppe di aver
infranto ogni regola di decenza per i canoni dei nobili presenti
quando quelli lo occhieggiarono con velato disgusto, senza
però
interrompere le loro conversazioni. Qualcuno bisbigliò un
commento
sarcastico o astioso e lo Spettro si affrettò a fulminare
con
un’occhiata raccapricciante chiunque osasse dire qualcosa
alle sue
spalle. Possibile che nessuno avesse ancora capito che lui poteva
sentire molto meglio di un qualunque normale umano?
Disprezzò
ogni uomo o donna che respirava in quella stanza, ed erano
più di
una cinquantina. Quei conti e quelle contesse avevano ricche
residenze in città e ricevevano con regolarità
una rendita da un
appezzamento di terreno che possedevano in giro per Alagaësia.
La
maggior parte di loro non aveva nemmeno mai visto la terra che
procurava loro il denaro necessario per permettersi abiti lussuosi,
gioielli pregiati, stuoli di servitori e case fornite di ogni
comodità. Erano tutti così visceralmente immersi
ed invischiati
negli intrighi di corte da aver perso il contatto con il mondo
esterno.
Erano stupidi. E Galbatorix si stava prendendo
apertamente gioco di loro senza che lo notassero. Il re amava
quell’ambiente che lo circondava, trovava divertente vedere
ora uno
ora l’altro nobile parteggiare per ottenere le sue
attenzioni, che
spesso si limitavano ad un semplice cenno di saluto e, solo con le
compagnie preferite, ad una cena nel suo salone privato. Senza
parlare del numero quasi vergognoso di concubine che il sovrano aveva
radunato intorno a sé. Era ovvio che qualunque cortigiana
sarebbe
stata ben disposta nei suoi confronti, era il re! Ma le povere
ragazze venivano elette a preferite e gettate in un angolo con la
rapidità con cui passano le stagioni, non appena una
più giovane,
bella o provocante veniva adocchiata da Galbatorix. Del resto era
ciò
che si meritavano! Gli arrivisti non erano destinati a fare strada
nel mondo, e con Galbatorix meno che mai.
Durza si ripeté per
l’ennesima volta che il re non era affatto stupido. Nel
vincolare a
sé tutti quei nobiliastri, rendendo il loro potere
più simbolico
che effettivo, era riuscito ad affidare la gestione delle proprie
città a governatori o ad altri aristocratici minori, legati
a lui da
un giuramento di fedeltà o di ubbidienza e che gli
permettevano di
avere un contatto diretto e prioritario con il territorio
amministrato e soprattutto con le tasse che riusciva a spremervi. Il
denaro era il solo scopo del sovrano, ma del resto una guerra bisogna
pagarla, le confische forzate non sono sempre sufficienti, e quella
guerra contro i ribelli andava avanti da decenni. Spesso erano solo
scaramucce di poca rilevanza, talvolta vere e proprie battaglie, ma
era necessario mantenere costantemente armato un esercito regolare
per non farsi cogliere di sorpresa.
Non che Galbatorix avesse
bisogno di un esercito per sbaragliare i Varden, il suo potere era
così grande e il suo drago così potente che
avrebbe potuto spazzare
via i suoi avversari con una moderata fatica.
Il vero problema era
la sua ricerca, che perseguiva fino alla follia. Lo Spettro sapeva
che se non fosse stato per gli incantesimi, il re sarebbe diventato
cieco già da parecchi anni a causa delle ore e delle
giornate
passate sui libri polverosi, alla luce tremula delle candele.
Il
sovrano cercava il nome, la parola o la frase che poteva controllare
l’antica lingua e piegare l’intera magia al suo
volere. Dal canto
suo, Durza non era neppure sicuro che esistesse una parola con un
simile potere, ma se il re insisteva non poteva significare altro che
una possibilità c’era.
Forse non era ancora sicuro di avere
capito se fosse pazzo o geniale.
Quando arrivò al cospetto del
proprio signore, che sedeva in fondo alla sala circondato da amabile
compagnia, si inchinò e rimase in ginocchio, in attesa che
gli fosse
permesso di rialzarsi.
E dovette aspettare per quella che gli
parve un’eternità prima che il sovrano lo degnasse
della minima
attenzione, ma alla fine parlò.
«Durza! Con tutta quella polvere
addosso non ti avevo riconosciuto».
Lo Spettro considerò quelle
parole come un permesso e si rialzò.
«L’urgenza della tua
convocazione non mi ha permesso di indugiare prima di venire
qui».
Galbatorix sorrise bonariamente. Il tempo aveva lasciato
qualche segno sul suo viso scarno e sottili rughe gli solcavano la
pelle intorno agli occhi scuri, ma nonostante quei segni il re poteva
essere ancora considerato un uomo affascinante.
«Certamente,
certamente. Ma venire qui conciato come un messaggero mi pare
eccessivo». Delle risatine risuonarono nella stanza
improvvisamente
muta. «E riguardo a ciò che devo dirti, ne
discuteremo in privato
più tardi. Se ora vuoi unirti al pranzo insieme a tutti
noi..»
disse il sovrano.
Durza gettò un’occhiata di sufficienza alla
marmaglia di gente vestita di sete e velluti che lo circondava e
scosse il capo. «Con il tuo permesso, mi ritirerò
nella mia
stanza».
Pochi minuti dopo una cameriera gli aprì la porta che
conduceva alla sua camera da letto. Anche lui, come quasi tutti i
nobili presenti, aveva una piccola stanza tutta sua a palazzo, nel
caso in cui si fosse dovuto trattenere, come in quel momento. Si fece
portare il pranzo in camera e si fece preparare un bagno
perché
effettivamente ne aveva bisogno. Quando gli odori sono più
forti
alle narici, ci si preoccupa di più della propria igiene,
era una
cosa che aveva capito dopo essere diventato uno Spettro.
Galbatorix
si fece attendere. Era ormai scesa la sera quando fu convocato nella
biblioteca reale, il servo che lo precedeva reggeva una fiaccola e
faticava comunque a vedere, tanto che ad un certo punto lo
congedò,
informandolo di essere in grado di proseguire da solo. Non aveva
certamente bisogno di una balia per orientarsi nel castello, vi si
aggirava da decenni.
Il sovrano era in piedi di fronte ad un alto
specchio, in un angolo dell’immensa e labirintica biblioteca.
Passava lì molto del suo tempo, la stanza era ben protetta
perché
nessuno potesse varcare la soglia senza il suo permesso. Il re
sussurrò alcune parole di congedo e poi si voltò
nella sua
direzione. Durza percepì la sua forza e il suo sconfinato
potere e
il suo corpo si mise automaticamente in allerta.
«Vedo con
piacere che hai rispettato i tempi che ti ho imposto».
«Sì, mio
signore».
«E l’Elfa?»
«Chiusa nella sua cella, c’è
qualcuno che la sta sorvegliando per conto mio».
Lo Spettro aveva
cercato di tenere quell’argomento fuori dai suoi pensieri, ma
era
ovvio che Galbatorix lo avrebbe tirato fuori. Arya rappresentava il
suo più grande fallimento da quando era al servizio del
sovrano.
Dovette fare uno sforzo per ricacciare un sorriso. Almeno era
riuscito a lasciare su di lei un ricordo permanente prima di
andarsene. Non sapeva esattamente cosa lo avesse spinto a baciarla,
ne aveva avuto voglia, e l’aveva fatto. E non era stato
così male,
o perlomeno, lei non aveva avuto tempo di ribellarsi, o allora
sì
che avrebbe fatto male.
«Sei sicuro che gli umani saranno
sufficienti per impedirle di fuggire?» chiese il re con
noncuranza,
occupando con calma una poltrona imbottita.
«La porta è
sigillata con un incantesimo. E non ho mai detto di averla lasciata
in custodia ai soli uomini, mio re».
«Oh, vedo che la nostra
trovatella comincia ad essere di qualche utilità!»
disse Galbatorix
con improvviso ottimismo. «E dimmi: Lei
ha ricordato qualcosa o qualcuno? Ogni più piccola
informazione ci
sarebbe preziosa, lo sai».
Durza annuì. «Lo so bene. Ma no, lei
non ricorda nulla, non ancora. Ma odia gli Elfi. Ed ho il sospetto
che odi anche la prigioniera». l’inquietudine che
lo aveva
accompagnato da quando il re lo aveva convocato tornò a
farsi
sentire e lo Spettro tese i muscoli delle gambe, impaziente di
andarsene. «Ora posso sapere il motivo per cui la mia
presenza ti è
necessaria? Ho lasciato una questione in sospeso a
Gil’ead».
Il
re lo fissò con calma negli occhi. «Una questione
che non mi sembri
in grado di risolvere», disse con gentilezza, «ma
di questo
parleremo dopo. Ora ti devo mettere al corrente delle mie ultime
decisioni».
«Ti ascolto» fu la risposta monocorde di Durza.
«Si
sono verificate diverse cose interessanti negli ultimi tempi. Primo:
una spia mi ha riferito di aver visto il figlio di Morzan, o qualcuno
di molto simile a lui, nei pressi di Belatona. Ho il timore che sia
riuscito a farsi accettare dai Varden e lavori per loro come sicario.
Secondo: c’è qualcosa di strano, lo sento
nell’aria, nella
terra, è come se la natura stesse urlando qualcosa, ma non
riesco a
capire cosa. E questa faccenda va avanti da quasi tre mesi, che se
non sbaglio coincide con il tempo passato dal tuo fiasco sulla Grande
Dorsale e dall’ultima volta che ho avuto notizie
dell’uovo.
Terzo: l’uomo che hai catturato ha portato notizie importanti
e
credo ormai fermamente che Brom sia ancora vivo e chissà,
forse
anche in possesso dell’uovo». Durza fu interrotto
con un gesto
secco quando fece per intervenire. «Quarto: entro domani
all’alba
i Ra’zac e i loro genitori saranno qui, li ho incaricati di
andare
a perlustrare Carvahall in cerca di Brom e di qualsiasi notizia
sull’uovo. Quinto: le mie spie dai Varden mi hanno informato
che si
stanno smuovendo le acque. I ribelli continuano a ricevere
approvvigionamenti dagli Elfi, armi dai Nani e la promessa di una
sostegno militare dal Surda, anche in campo aperto. È
questione di
pochi mesi prima che si decidano a dichiarare aperta una nuova
stagione di guerra. Per ora sono impreparati e la neve è
ancora
presente sui passi, quindi non si muoveranno. Ma sono stanco di
questa eterna minaccia alla pace e all’integrità
del mio regno.
Una volta finito il tuo compito con l’Elfa,
manderò un esercito, e
per essere precisi, un esercito di Urgali. Riesci ancora a mantenere
il controllo su di loro?»
«Certamente» rispose Durza,
trattenendo a stento l’emozione. Il re stava forse dicendo
che..?
«Bene allora tu sarai comandante della spedizione, le spie
ci forniranno ulteriori dettagli per una vittoria rapida e pulita.
Non voglio prigionieri, nemmeno un bambino cencioso. Devono sparire
dalla faccia della terra. In quanto ad Ajihad», il cuore
dello
Spettro accelerò, «fa’ di lui e della
sua famiglia ciò che
ritieni opportuno. Nemmeno loro mi servono vivi. Dopo questa vittoria
i Nani e il Surda si ritireranno per sempre. Per gli Elfi
sarà più
complicato, ma presto cederanno anche loro».
«Quando?» fu la
sola parola che Durza riuscì ad articolare.
Galbatorix lo guardò
con una punta di dispiacere. «Quando avrai spremuto ogni
informazione possibile alla prigioniera. Una volta eri molto abile in
questo, hai perso anche questa capacità?»
«È ostinata».
«Tutti
hanno un punto debole. Voglio che trovi il suo. Portala
sull’orlo
della morte e poi cambia improvvisamente. Fingiti gentile e
comprensivo, seducila, cerca di convincerla che lei è dalla
parte
del torto e tu del giusto. Anche in questo eri molto abile un
tempo».
«Credo di esserlo ancora».
La mente di Durza era
stipata di pensieri chiassosi e dovette sforzarsi enormemente per
celarli e contenerli. Avrebbe pensato a tutto. Ma dopo essersi
allontanato dal re.
«C’è un’ultima questione che
devo
risolvere con te» aggiunse il sovrano con un tono paterno.
«Sì,
mio re?» disse, mentre la sensazione di inquietudine
aumentava
dentro di lui.
«Negli ultimi mesi sei distratto, scostante,
superficiale, irrispettoso nei confronti dei miei ordini e dei miei
altri servitori. Sono fermamente convinto che tutto ciò
troverà
presto un rimedio».
Durza si disprezzò profondamente quando si
sentì come un bambino rimproverato. Perché il re
riusciva ad avere
un simile effetto sulle persone?
«Sì» soffiò, scostando gli
occhi da quelli di Galbatorix.
«Capirai che il mio rimprovero
esige una prova concreta delle mie intenzioni. Io ti amo come si ama
un figlio, Durza. Io amerei allo stesso modo tutti gli abitanti di
queste terre se solo non si opponessero a me. Vorrei poter proteggere
il mondo dalla stupidità e dalla superficialità
umana, ma non sono
in grado di farlo da solo. E i miei emissari devono essere in grado
di agire come se fossero una mia emanazione. Sarai punito per il tuo
comportamento. Ti prego di ricordare che è solo per il tuo
bene. Non
farei mai del male a nessuno, se non fosse necessario, lo
sai».
Durza
serrò la mascella. Era pazzo, decisamente. E il bello era
che era
quasi riuscito a convincerlo che tutto fosse veramente per il suo
bene. E ora? Cosa aveva intenzione di fare? Un rivoletto di sudore
gelido gli accarezzò la schiena. Non poteva nulla contro
Galbatorix.
E ne fu certo nel momento in cui il suo corpo fu bloccato da un
incantesimo che nessun vivente avrebbe mai potuto contrastare. Lo
Spettro sentì i sussurri pigri e piangenti delle coscienze
dei
draghi, che lui stesso aveva contribuito a spezzare.
Il re gli
sorrise con gentilezza. «Solo per il tuo bene».
Con un gesto
estrasse i suoi stessi pugnali dalla fodera che portava in vita e da
quella nascosta nello stivale. Durza guardò con rimpianto le
sue
armi, con la certezza che non sarebbe mai più stato capace
di
tenerle in mano senza risvegliare brutti ricordi.
Il sovrano
spalmò le lame di un liquido che lo Spettro riconobbe subito
e, se
avesse potuto, avrebbe tremato.
«Domattina verranno i Ra’zac.
Ti riporteranno a Gil’ead in volo. D’ora in poi non
deludermi mai
più Durza. Ti concedo tre mesi di tempo, se per allora non
sarai
stato capace di far cantare l’Elfa, la porterai qui e
discuteremo
nuovamente».
Durza registrò a malapena le parole, perché un
istante dopo una lama gli si conficcò all’altezza
dello stomaco.
Lo Spettro emise un gemito strozzato di dolore e una pozza di sangue
si allargò ai suoi piedi. Poi non poté fare altro
che guardare
l’uomo a cui aveva concesso la sua ubbidienza mentre lo
pugnalava
con attenzione, evitando accuratamente il cuore e anche ferite che
avrebbero potuto condurlo ad una rapida. L’olio che
Galbatorix
aveva spalmato sulle lame bruciava sulla sua carne come fuoco vivo.
Non poté nemmeno gridare, perché la sua bocca era
immobilizzata.
Prima di perdere i sensi sentì l’incantesimo del
re sciogliersi, e lui si accasciò sul suo sangue.
Prima di
perdere i sensi vide il re sorridergli come un padre affettuoso.
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I miei omaggi a tutti voi :)
Spero di essere stata abbastanza coerente con le scarne descrizioni di Paolini, in caso contrario siete invitati a farmelo presente.
Per la corte di Galbatorix e la situazione dei nobili mi sono ispirata alla corte di Versailles sotto Luigi XIV e XV.
Se avete altre domande, vedrò di rispondere con puntualità :D
Baci e grazie a tutti ;)