Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: deepblueyes    15/06/2013    2 recensioni
Cosa faresti se un Demone, per scommessa, ti offrisse in un Contratto l'amore della tua vita, chiedendo in cambio soltanto la tua anima?
Accetteresti?
E se poi ti trovassi invischiato in un mondo di cui non immaginavi neppure l'esistenza, rischiando la vita, e scoprissi che la tua esistenza era sempre stata soltanto un'apparenza di normalità?
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 10
Pioggia.



Nicolas proseguiva al mio stesso passo, abbastanza vicino da potermi acchiappare nel caso svenissi, ma troppo lontano perché ci fosse un vero e proprio contatto tra di noi; adesso cominciavo a sentirmi un tantino a disagio.
Era piuttosto imbarazzante, visto che nessuno dei due sembrava intenzionato a parlare. Io non sapevo che dire, distratta al pensiero di cosa potesse essere successo a Gabriel, e Nicolas sembrava troppo preso a calciare i sassolini per terra, la mente occupata da altro.
Mi ritrovai a sperare che casa mia si fosse avvicinata, nel frattempo.
“Come va? Stai meglio?”
“Eh? Ah.. si, si sto bene. Non preoccuparti” gli sorrisi, per poi tornare a puntare l'attenzione verso le mie scarpe. Ma sentivo i suoi occhi ancora addosso.
L'aria aveva cominciato a farsi frizzante, e il sole stava calando, tingendo le foglie degli alberi, mosse da un vento leggero, di un arancio tenue. Persino quel paesaggio così quieto mi agitava. Sapeva tanto di pace prima della tempesta, e mi spinse ad accelerare leggermente il passo.
“Perché sei scappata?”
Mi fermai di colpo, voltandomi a fissare Nicolas: scappata? Insomma, avevo velocizzato un po' l'andatura, ma ero ancora lì, non aveva avuto problemi a tenermi dietro. 
Forse intuì che non avevo capito a cosa si riferisse, perché aggiunse: “Ieri alla festa. Per caso... non so.. ho detto o fatto qualcosa che non avrei dovuto?”
Cacchio. Se ne era accorto. E adesso?
Dovevo inventarmi qualcosa, e alla svelta, o avrei fatto la figura della maleducata. 
O meglio, già che se ne era accorto, la figura l'avevo fatta, ma almeno potevo provare a rimediare: “No... no, io... mi era parso di vedere... un amico che... beh, volevo salutarlo. Poi.. sono arrivata al bar e...”
“E il resto è storia, no?” rise, infilando le mani nelle tasche e riprendendo a camminare. Lo seguii, non del tutto certa che l'avesse bevuta, ma grata che non avesse continuato con le domande. Mi venne il dubbio che oggi fosse venuto soltanto per chiedermi questo, ma era assurdo: per quale motivo avrebbe dovuto pensarci tanto? Insomma, eravamo poco più che conoscenti, non aveva nessun senso. E se invece... se avesse sempre notato le mie “fughe” alla sua presenza? In tal caso, probabilmente credeva di starmi antipatico o qualcosa del genere. Cacchio. 
“È carino sai, quel caffè. Lo conoscevo ma non c'ero mai stato prima” notò, senza staccare gli occhi dalle sue scarpe, con un tono che mi ricordò quello che si assume quando, in cerca di un argomento di conversazione, si commenta il tempo che fa, forse perché impacciato dal silenzio che era sceso di nuovo tra noi.
“A me piace tantissimo. Ci vado spesso” risposi, sorridendogli in un tentativo di allentare la tensione, sperando intimamente che l'argomento delle mie sparizioni non si ripresentasse più.
Nicolas tornò a guardarmi, con il suo solito sorriso gentile, e io mi accorsi che, stranamente, quello stesso sorriso pulito che mi aveva sempre fatto sciogliere ora mi scivolava addosso senza lasciare traccia: “Si, Sun me l'ha detto... ci andate insieme qualche volta, vero?”
Annuii, prima di chinarmi a raccogliere una margherita, vicina al cancello verde del parco, e alzai gli occhi scorgendo il tetto di casa mia. C'ero quasi, e il mio stato di nervosismo continuava ad aumentare. Che diavolo poteva aver combinato Gabriel?
“A che pensi?” 
Spostai i capelli dietro l'orecchio e mi morsi la lingua per non rispondere con qualcosa come “fatti i cavoli tuoi”. Che cosa strana: Nicolas, il ragazzo per il quale avevo venduto l'anima, mi stava accompagnando a casa ed io, invece che fare i salti di gioia e desiderare che il vialetto d'entrata non finisse mai, non volevo altro che stesse zitto e mi lasciasse andare in fretta. Che mi stava succedendo?
“A niente... sono solo stanca” gli sorrisi, cercando di riacquistare un minimo di razionalità e smettere di pensare a quel maledetto demone. Rigiravo nervosamente il fiorellino bianco appena raccolto tra le dita.
“Le feste di Sun sono distruttive, eh? Anche se più divertenti non se ne trovano.” sentenziò Nicolas, facendomi l'occhiolino. In un lampo, al suo viso si sovrappose l'immagine del volto di Gabriel, di quella sua espressione maliziosa mentre ammiccava nella mia direzione, e il mio cuore perse un colpo. Rimasi a fissarlo anche dopo che quell'illusione era svanita, confusa dallo scompiglio che aveva causato tra i miei pensieri, come anche dalla voglia insensata e stupida di vedere quel demone, nonostante le parole che mi aveva sputato addosso poche ore prima. 
Forse avevo fissato Nicolas un po' troppo a lungo e con un'espressione poco incoraggiante, tanto da spingerlo a chiedermi, con un tono esitante: “Ho detto... qualcosa di strano, per caso?”
Mi ripresi subito da quella sorta di trance: “No. No, no, assolutamente. Scusami, oggi sono proprio distratta...”
Nicolas sorrise, rilassandosi: “Ok, ho capito. Senti, mi chiedevo se ti andasse... non so, di correre insieme qualche volta?”
Eravamo fermi davanti a casa mia, in piedi uno di fronte all'altra, ed io non potevo credere alle mie orecchie: dopo mesi che lo guardavo da lontano, erano bastati due giorni perché mi chiedesse di uscire. Aveva una ragazza e voleva soltanto correre, certo, ma lo aveva comunque fatto, perciò, nonostante le situazioni imbarazzanti, doveva essere davvero interessato a conoscermi. Eppure, non sentii nemmeno un briciolo dell'emozione che mi ero sempre aspettata di sentire.
“Certo, sarebbe forte. Ora però è meglio che entri”
“Ok... allora, ci rivediamo”
Gli sorrisi, presi le chiavi ed entrai in casa.

Fottuta pioggia. Mi aveva inzuppato i capelli e i vestiti, e mi colava negli occhi, fastidiosa come non mai, offuscandomi la vista e i sensi. Mi sembrava di avere appesantita ogni singola piuma.
“Sta zitto e vattene.”
Mi fermai di colpo, rimanendo assolutamente immobile. Non riuscivo, in nessuna maniera, a cancellare quelle parole dalla mia testa. Le avevo detto semplicemente la verità, eppure... eppure per la prima volta nella mia esistenza sentivo con tutto me stesso il desiderio di strapparmi la lingua. O di tornare indietro nel tempo per darmi una botta in testa prima che aprissi bocca.
Non capivo cosa mi stesse succedendo: sapevo di stare precipitando giù, attraversando le nuvole gelide, ma avevo a malapena la percezione del mio corpo. La mia testa non riusciva a cancellare l'immagine del suo viso, la sua espressione ferita.
Prendevo velocità.
Alice. 
“Ti ho detto di andartene.” 
L'impatto con il suolo fu duro. E doloroso, anche. 
Ringraziai la mia fortuna sfacciata che mi aveva fatto atterrare in piena campagna, lontano da centri abitati e sguardi indiscreti, nel pieno di un temporale, così che il boato potesse essere confuso con il rombo di un tuono.
Rimasi lì, immobile, in una buca di fango ed erba, ignorando le gocce che continuavano a cadermi addosso.
Lei non mi voleva.
Era un pensiero idiota, assurdo, stupido e umano. Ma non riuscivo a liberarmene. Quel tormento insensato che provavo mi premeva addosso da quando avevo varcato la soglia della casa della ragazzina, occupando con tanta prepotenza i miei pensieri da avermi fatto perdere il senso dell'orientamento. Non avevo idea di dove fossi finito, né avevo mascherato in alcun modo il mio aspetto tutt'altro che umano. Ma non mi importava.
Io volevo Alice. Con tutto me stesso.
“Vattene.”
Non avevo mai davvero capito cosa sentissero gli umani quando provavano dolore. Quel peso che soffocava, si diffondeva nelle vene e paralizzava ogni muscolo, rendendoti inerme. Ora che lo stavo provando pensai che, infondo, avevo sbagliato a valutarli, gli umani.
Portai una mano al viso, per proteggermi dalla pioggia e percepii qualcosa di più denso, più caldo, su una guancia. Corrugai la fronte portando le dita davanti agli occhi: sangue. 
In tutta la mia lunga esistenza, non avrei mai creduto di poter piangere.
“Hai fatto un passo falso, Iblis.”
Merda.
Scattai, rannicchiandomi, pronto ad attaccare. 
Ma non era uno solo. Ne avvertii chiaramente la presenza soltanto in quel momento. 
Non avevo speranze di cavarmela, questa volta. Mi lasciai cadere sulle ginocchia, ignorandoli mentre mi accerchiavano, e chiusi gli occhi alzando il viso al cielo. 
Mi dispiaceva solo di non poterla vedere un'ultima volta. 

Chiusi la porta e mi ci appoggiai contro per qualche secondo, chiudendo gli occhi. La sensazione che fosse successo qualcosa si era amplificata e peggiorava il mio mal di testa. Il letto mi attendeva, con la compagnia di un'aspirina. Ne avevo davvero bisogno.
Mi tolsi la giacca, dirigendomi in salotto, sorpresa che i miei non fossero ancora tornati a casa, tanto assorta nei miei pensieri da scontrarmi contro qualcosa, che mi sorresse impedendomi di cadere. Sollevai gli occhi, spaventata.
“Nonno? Ma... che ci fai qui? E come diamine sei entra...” cominciai, ma mi zittii di colpo.  
Al centro della stanza, legato su una sedia, Gabriel mi guardava fisso, con il suo solito sorrisetto sulle labbra, circondato da individui che non avevo mai visto prima.
Ma cosa cazzo stava succedendo?!

  
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