Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Shichan    16/06/2013    5 recensioni
La lama cade a terra, sporca di un sangue che macchia il terreno sotto il corpo esanime di una speranza ormai morta.
[Parzialmente AU.]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Armin Arlart, Rivaille, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: i personaggi sono proprietà del sensei.
Le frasi in corsivo, ad eccezione dell’ultima in chiusura, vengono dalla canzone “March is the bottom of the night”.
Note: per eventuali note esplicative sul senso generale della fanfic, rimando alla fine (qualunque cosa io possa dire ora sarà usata contro di me con l’accusa di auto spoiler XP).
Unica nota davvero utile: ad un certo punto si parla di un “Aarni”. Non mi sono drogata, ma per esigenza narrativa che sarà poi chiara, ho dovuto modificare il nome di Armin mantenendo l’assonanza più possibile.

A Yoko, capirai da sola il perché, immagino.
E a Nari, Rota, Carla, Kam, Rin e Lucifer.
Perché sono fermamente convinta che la vita sia una ricerca continua per tutti, ma che non sia mai senza speranza o inutile.

 

Si dice che il filo del destino sia colorato di rosso.


Un istante prima della morte uno, alla fine, se ne accorge.
Prima no. Prima sarebbe troppo comodo e troppo facile: darebbe il tempo alle persone di abituarsi all’idea, di ponderare i pro e i contro che hanno fatto parte della loro vita.
Prima aiuterebbe a farsene una ragione.
Invece no: uno passa tutta la propria esistenza a combattere e scegliere, a incrociare bivi e fare sempre affidamento su qualcosa che gli suggerisca dove andare – un susseguirsi di “destra o sinistra” che si ripetono – poi arriva il momento in cui bisogna dire “basta”, o in cui qualcuno lo dice per te e tu sei lì che muori e te ne accorgi.
Nessuno sceglie mai davvero.

Rivaille ha passato la sua vita a vedere morte, ed è un paradosso che non riesce a farlo ridere più, sempre che questo sia mai successo.
Sono pochi quelli ancora vivi per poter affermare di aver visto Rivaille fin dai suoi inizi, eppure da raccontare non c’è niente: anni passati a vivere e sembrano l’uno la brutta copia dell’altro. A volte si ha persino la sensazione che abbia rimosso dalla sua mente tutto ciò che non implicasse combattimenti, e morte, e giganti grotteschi che uccidevano, dilaniavano e masticavano esseri umani che un tempo avrebbe potuto chiamare compagni.
Nei suoi ricordi c’è un affollarsi di cadaveri e morte, di spade, odore di gas e disperazione, paura e poi un momento, uno solo, in cui nella testa scattava un sangue freddo che di umano non aveva nulla; qualcuno lo chiamava istinto di sopravvivenza, ma chi aveva visto Rivaille doveva aver capito che c’era qualcosa di più, c’era nello sguardo la follia di chi non ha modo di combattere la paura con il semplice coraggio.
Perché non basta, perché c’è un limite all’orrore a cui si può assistere mantenendo un briciolo di umanità.
I ricordi di Rivaille sono il ripetersi di questo, di sangue e di sguardi ai compagni morenti – di strette di mano in punto di morte, di rassicurazioni dimenticate nell’ultimo respiro di un uomo.
Ma chi combatte sceglie di farlo; chi si arruola sceglie di accorciare ulteriormente la propria vita, e per questo la città che dorme tranquilla nelle notti in cui la legione è insonne, le orecchie attente al minimo vibrare della terra su cui ancora – chissà come – stanno in piedi. Dorme e si sente legittimata a non piangere i morti, ricognizione dopo ricognizione, fallimento dopo fallimento.
Rivaille ha sempre provato un sentimento contorto, nei confronti degli umani dentro le mura. Qualcosa che non ha mai saputo analizzare freddamente, a metà tra il senso del dovere e di disciplina che gli imponeva di proteggerli e annientare i giganti, e la voglia di ucciderli in massa.
Quel che da soldato semplice erano stati sentimenti contraddittori, con il tempo erano diventati freddo disprezzo per i propri simili al di fuori della propria squadra: ogni fibra del suo essere odiava l’idea di sfilare in pompa magna per la strada principale di una città immobile e impaurita dentro le mura, che viveva relativamente tranquilla mentre loro erano fuori a morire, e che quando rientravano li accoglieva con il silenzio sgomento e atterrito – e il loro unico, egoistico pensiero era che non potevano fare affidamento su una squadra i cui membri morivano come mosche.
Erano falsi eroi.
Nessuno li avrebbe acclamati, nessuno li avrebbe ringraziati, nessuno gli avrebbe mostrato nemmeno la pietà, figurarsi la riconoscenza.
Rivaille aveva capito prima di molti altri che scegliere di combattere e andare a morire per chi era dentro le mura avrebbe consumato lo spirito di chiunque ben prima di consumarne il corpo ferita su ferita.
Umano o soldato.
Destra o sinistra.
Sinistra.

Una sola volta aveva parlato con Irvin di Eren Jaeger in maniera approfondita e personale, al di fuori di un più ampio concetto strategico e di analisi.
Eren veniva definito “la speranza dell’umanità”, un’idea con cui tanto lui quanto lo stesso Irvin sembravano concordare; a rendere diversi i loro punti di vista in merito era cosa di un ragazzino di quindici anni rendesse quest’ultimo una speranza.
Oltre al sottile dettaglio della trasformazione in gigante.
Rivaille aveva passato con lui molto più tempo di chiunque altro, probabilmente, da quando Jaeger era entrato a far parte della Legione Ricognitiva e aveva capito, a lungo andare, che il punto non era tanto la trasformazione: era l’ingenuità, a suo modo. Non quella che ti rendeva stupido, come se l’altro si fosse presentato da lui dicendo che il mondo era buono e caro, ma quella di chi ha fede.
Non sa nemmeno lui come, ma ne ha.
Eren Jaeger, si è reso conto ad un certo punto, spera; ed è questo che lo rende, a sua volta, la speranza di qualcuno.
Eppure, si è detto nel momento ultimo della vita di Eren, non era ironico?
Avevano passato ore a chiedersi quale fosse la scelta migliore, giorni a domandarsi se la decisione presa fosse stata quella giusta, istanti nel mezzo di una battaglia che poteva essere l’ultima a pensare che forse il gigante sarebbe prevalso sul ragazzo – ed Eren poi cos’era, umano, soldato o mostro? –, a vagliare le possibilità, per poi arrivare lì.
Ritrovarsi in mezzo a cadaveri sinonimi del tuo fallimento come soldato, di fronte ad uno troppo giovane per doversi fare carico di una cosa complicata e spietata come la guerra, uomo e gigante, vittima e minaccia e dover uccidere, e vedere per la prima volta nel suo sguardo la rassegnazione ad essere ucciso, la resa di fronte alla morte – un tratto che da speranza lo fa diventare disperazione, emblema di un’umanità finalmente salva e al tempo stesso annientata.
In un unico istante bastardo non esistono più valori né decisioni giuste o sbagliate, si perde il senso di vita e di morte tanto quanto quello di vincitori e vinti.
Nel rumore lieve e famigliare di una lama estratta, tutto perde di significato ed è in quel momento fatto di secondi e respiri che Rivaille comprende che non è mai stata davvero una questione di scelta, di uomo o soldato, di combattere o arrendersi, di fare il bene o il male degli esseri umani, di odiare o compatire i giganti.
Alla fine muoiono come mosche macchiandosi di una colpa che li renderà cadaveri che deambulano sulla terra.
Mentre la lama si sporca del sangue di una vittima fra le tante – l’ennesima – Rivaille si chiede a che cazzo serva poi sopravvivere in mezzo a tanta merda.



Dovrebbe esserci qualcosa di più,
oltre ciò che mi hai detto.
(Eppure mi sfugge tra le mani e i pensieri)


Aarni non avrebbe saputo dire di preciso quando quella sensazione si era fatta più pressante, vera; era un uomo come tanti, lì in Finlandia.
Nato da una famiglia modesta, ad averlo portato davvero avanti nella vita era stata la curiosità, una di quelle vive e impossibili da soffocare che lo aveva portato fin da bambino – o almeno, da che avesse memoria – a guardare il mondo con negli occhi il desiderio di esplorarlo e conoscerlo più possibile.
Ma escludendo quell’innata fame di sapere, non era mai spiccato per nulla in particolare, se si escludeva quella che lui considerava niente più che una modesta capacità di analisi.
Inizialmente era stata solo una sensazione passeggera come se ne hanno tante e lui l’aveva lasciata lì, in un primo momento, messa da parte e senza dargli importanza; poi però un giorno era stato improvvisamente diverso, anche se spiegare come sarebbe stato difficile, a parole.
Aarni aveva solo sentito che c’era qualcosa di inespresso e di vitale, se l’era sentito nelle ossa.

A volte faceva sogni strani, soprattutto nel periodo dell’università.
Nella maggior parte dei casi non li ricordava con chiarezza: portavano con loro, al risveglio, solo quella fastidiosa impressione di ricordare ma non riuscire a mettere a fuoco il frammento di sogno ancora nella propria testa e pronto ad un’immediata fuga.
Però c’erano anche volte in cui riusciva a trattenere qualcosa, non sapeva bene dove ma ci riusciva; non erano sogni piacevoli, di questo era abbastanza certo. C’erano come dei pezzi di puzzle, ma non c’era l’ordine in cui incastrarli fra loro: odori, colori, voci che sembravano familiari ma a cui non sapeva accostare dei nomi.
C’era paura e si svegliava agitato, il sudore sulla pelle e il battito del cuore veloce.
Nel buio della sua stanza, si ritrovava in una realtà sicura – eppure, in quei momenti, non riusciva a far altro che sentirsi fuori luogo, imprigionato e incompleto.
Provava ad elaborare, a trattenere quanti più frammenti gli riusciva, ma non erano mai sufficienti ad avere un sogno completo da analizzare e comprendere; attribuiva tutto alla stanchezza e alle notti a volte troppo fredde, a scherzi nella sua testa e rielaborazioni di uno stress.
Poi, quando ogni superficiale spiegazione sembrava inadatta, leggeva qualsiasi libro gli capitava in mano e una sera c’era stata una frase sola, una in righe su righe, su centinaia di pagine ingiallite dal tempo; un tomo così vecchio che nessun suo coetaneo si sarebbe mai dato la pena nemmeno di provare a sfogliarlo. Un libro che parlava di un viaggio mai fatto e solo fantasticato, in un continente lontano che non esisteva in nessun luogo ad Aarni conosciuto e a cui i protagonisti della storia non arrivavano mai davvero – una frase piena di speranza verso un futuro impossibile da guadagnare nel contesto di una guerra crudele come la storia ne aveva viste fin troppe: “Andremo a vedere il mondo!
Quella notte, svegliandosi da un incubo di sangue, grida, terrore e macerie, un solo nome era rimasto più delle immagini o delle sensazioni; una richiesta disperata di una voce mai sentita e al tempo stesso cara come può esserlo una figura materna al figlio devoto, che gli riportava alla mente una promessa da bambini che non ricordava di aver mai pronunciato.
Il senso di colpa di un sogno lasciato sfumare, deludendo forse le aspettative di qualcuno che non sapeva nemmeno che volto avesse.
Quella notte aveva deciso di vedere il mondo assecondando un sogno e aveva pianto, a vent’anni, con la violenza e la sincerità di un bambino.

Armin.

Aarni è un uomo adulto, di quei grandi che ormai non sai più indovinare di che colore avevano i capelli un tempo: ha il sorriso gentile che forse solo le persone che hanno raggiunto la loro personale felicità riescono a rivolgere sinceramente agli altri.
La sua vita è stata piena di cose buone: mentre tira le somme è sulla comoda poltrona di una casa che lo ha visto diventare marito, padre e nonno, di fronte ad un camino davanti al quale ha passato molti inverni felici con le persone care.
La mano che poggia sul bracciolo sfiora leggermente il legno di un tavolinetto messo per necessità da una moglie premurosa, per un consorte troppo abituato a leggere per ricordarsi anche di riporre i tomi sugli scaffali appositi; il libro che poggia su quel piccolo mobile è il suo preferito, persino più vecchio di lui, e parla di un viaggio.
Di luoghi ne ha visti tanti, nella sua vita, e pensa di aver raggiunto la propria personale felicità, nonostante rimanga indelebile nella sua mente il sorriso di una moglie che se ne è andata da qualche anno già e che gli rimproverava sempre con affetto di perdersi a guardare qualcosa che agli altri era precluso.
Di vedere cose che non sarebbe mai stato in grado di condividere, forse, ma che gli erano sempre mancate; lei gli diceva che pensava ci fosse un posto in cui lui, Aarni, dovesse arrivare ma che per qualche motivo non era riuscito ancora a trovare o a raggiungere.
Non lo definisce rimpianto, mentre ci pensa; per lui è come aver respirato a pieni polmoni eppure avere la sensazione di essersi fermato un istante prima di quanto avrebbe dovuto. La sensazione di vuoto che ha dentro non è dolorosa, sa più di insoddisfazione, un sentimento complesso e personale che non sarebbe mai in grado di descrivere con precisione neanche scrivendo milioni di quegli stessi libri che ha letto, nella vana ed infantile ricerca di un mondo di fantasia che somigliasse a quel luogo sempre cercato.
Mentre chiude gli occhi con un sorriso leggero sposta lo sguardo fuori dalla finestra di quella sala: il tempo fuori è di un bianco strano, un bianco a cui non è riuscito ad abituarsi anche se tornare a casa, in inverno, aveva sempre significato un paesaggio fatto di neve.
Anno dopo anno, ha sempre sentito annidarsi dentro di sé un disagio vago ma sempre presente.
È un istante appena, quello in cui troppe immagini si affollano nella sua mente; mentre sorride tra la paura di un ricordo di sangue e l’affetto di una parte di sé ritrovata, piange di nuovo come la notte di tanti anni fa, solo più silenzioso.
Gli sfiora le labbra il nome di un ragazzo che un tempo fu speranza, ma ciò che pronuncia è solo una domanda – nel barlume di lucidità ultimo di un uomo che muore alla fine del proprio tempo, la domanda è quante vite ancora serviranno in quel gioco di prese di coscienza di anime che ancora si cercano.

 

…Dopodiché, mi sveglio.
(Si fa strada nella tua mente un nome che non sai pronunciare)

 

L’Istituto era piuttosto famoso livello sia nazionale anche internazionale: diviso in tre corsi specifici, uno dei quali ammetteva solo gli studenti migliori, era estremamente selettivo.
Una prima scrematura avveniva con una vera e propria prova d’ingresso: settanta posti di cui dieci riservati ai meriti scolastici di eventuali borse di studio. Alcuni pensavano che fossero fin troppi, visti i pochi già disponibili per chi tentava la sorte, ma quando veniva specificato che si trattava di dieci per l’intera Nazione, nessuno aveva mai da ridire oltre.
Dei sessanta posti rimasti, solo i dieci con il punteggio più alto avevano facoltà di scelta tra tutti e tre i corsi disponibili: uno di questi, infatti, ammetteva solo determinate predisposizioni che il test iniziale racchiudeva in esercizi ben ponderati. Si poteva pensare quindi che i dieci che avevano la fortuna di rientrare tra i migliori – tra essi non venivano inclusi gli aventi diritto per borsa di studio – puntassero tutti al corso altrimenti inaccessibile, ma non era così, come le matricole di quell’anno dimostravano.
Delle dieci passate con il punteggio più alto, solo una sembrava intenzionata a scegliere il primo corso, ossia Annie Leonhardt; l’altro che si vociferava volesse orientarsi in tal senso – Jean Kirschtein – sembrava aver cambiato idea all’ultimo momento.
Armin era stato ammesso con una borsa di studio: le sue capacità di analisi matematica e situazionale gli erano valse a tal punto da dargli questo privilegio.
In quel momento attendeva fuori dalla stanza in cui, singolarmente, i settanta studenti ammessi dovevano comunicare le loro scelte; in alcuni casi, come Annie, si sapeva già senza che fosse ancora entrata, mentre per la maggior parte il vociare del corridoio lasciava ben intendere che le idee fossero ancora incerte o confuse.
«Che palle.» sbottò Eren, al suo fianco, spostando lo sguardo dalla porta oltre la quale Mikasa era stata una delle prime ad essere chiamata. L’amica aveva ottenuto il punteggio massimo dei migliori dieci, tra i quali era rientrato anche lo stesso Eren. Come gli era stato spiegato, sarebbero stati chiamati prima quei dieci – secondo ordine alfabetico – e poi, nello stesso modo, gli altri sessanta ammessi.
Conosceva bene il motivo del malumore del suo migliore amico: ad Eren non andava giù che, nonostante la possibilità di scegliere il corso che preferiva, Mikasa avesse deciso fin dall’inizio di richiedere lo stesso del castano. Armin aveva conosciuto i due a scuola: da quanto sapeva le loro famiglie erano amiche da quando lei ed Eren erano niente più che bambini. Crescendo insieme, erano praticamente come fratelli più che semplici vicini o amici d’infanzia.
«Dai, Eren…» lo blandì abbozzando un sorriso incerto, mentre Mikasa e gli altri due chiamati con lei – Braun e Braus – uscivano, un uomo dietro di loro che si affacciò chiamando altri tre nomi: «Bertholdt Fubar, Eren Jaeger e Jean Kirschtein.» pronunciò con voce chiara.
Armin spostò lo sguardo su di loro: a conferma dell’averli visti insieme fin da quando erano fuori dall’aula d’esame, il giovane chiamato Berthold scambiò uno sguardo d’intesa con Reiner Braun, appena uscito.
Quanto a Jean ed Eren si squadrarono per un attimo in cagnesco, cosa che non stupì nessuno davvero – dopo aver dato spettacolo mettendosi a discutere di fronte alla stessa aula, senza sapere nemmeno i reciproci nomi, era stato chiaro che non sarebbe stato un rapporto pieno d’amore, il loro.
Eppure, anche in quel momento Armin sorrise.
«Cosa c’è, Armin?»
Spostò lo sguardo verso Mikasa e, semplicemente, scosse la testa.

Alla fine dei dieci migliori della graduatoria, solo Annie Leonhardt aveva fatto richiesta per un corso diverso da quello degli altri, cosa che aveva stupito non poche persone.
Dopo l’iscrizione effettiva da parte di tutte le nuove matricole erano stati guidati verso i dormitori messi a disposizione degli studenti che ne facevano richiesta, vuoi per esigenze di lontananza da casa o per propria preferenza; Armin in realtà si era stupito che vi fosse possibilità di alloggiare anche fuori, inizialmente, ma poi aveva dovuto ricordare a se stesso di non fare confusione: loro non erano militari, costretti alla condivisione di un medesimo spazio nell’eventualità di un pericolo sempre imminente.
Raggiunti i due edifici principali, all’esterno erano stati accolti da alcuni studenti più grandi: mentre questi si preparavano a quello che doveva essere un discorso di benvenuto, il vociare fra le matricole aveva raggiunto anche il gruppo dove si trovava Armin.
«Ah, quello è Irvin Smith! Ho saputo che è praticamente a lui che fa capo il dormitorio maschile.»
«Ma come chi è quello di fianco?! Non hai mai letto il suo nome?!»
«Dicono che Rivaille sia lo studente più dotato dell’Istituto degli ultimi anni, la sua media è spaventosa.»
«Sì, quanto il suo carattere però.»
«Ma dai!»
«E quanto chiacchierano.» borbottò annoiato Jean, guardandosi intorno – a sua discolpa c’era da dire che la maggior parte dei commenti che li aveva raggiunti appartenevano ad un gruppetto di ragazze poco distanti, mosse nei loro apprezzamenti non solo da dati alla mano sull’andamento scolastico dei due citati.
«C’è poco da fare, il ragazzo più basso – Rivaille – pare sia davvero un genio.» osservò un ragazzetto lì con loro, che si presentò l’attimo dopo come “Conny Springer”, sebbene non ve ne fosse realmente bisogno essendo rientrato anche lui nei primi della graduatoria.
«E il biondo precocemente stempiato?»
«Ymir, non è carino quello che hai detto!» soffiò una piccolina che Armin riconobbe senza troppe difficoltà come Christa, rimprovero a cui la più alta ridacchiò e basta.
«Ho sentito che anche la ragazza con gli occhiali, Hanji Zoe, pare sia fenomenale. Alcuni dicono che nelle attività teoriche superi persino gli altri due, solo che è un po’…»
«Fuori di testa.» concluse Reiner al posto di Bertholdt, che sorrise semplicemente con un’alzata di spalle, come a dire che non era proprio quello che intendeva, ma poteva essere una versione alternativa – e un po’ meno cortese.

Il discorso era stato non troppo lungo ma stimolante e incoraggiante.
Irvin Smith lo aveva pronunciato nella sua interezza, raccomandandosi con le ragazze del corso due – quello scelto dalla maggior parte dei primi della graduatoria, ma pur sempre dalla minoranza in un conteggio totale delle nuove matricole – di far riferimento ad Hanji per qualsiasi cosa e ai ragazzi di rivolgersi a quello chiamato Rivaille, il cui momento più socievole era stato uno sguardo in cagnesco che era sembrato più simile ad un “non osate disturbarmi per le vostre stronzate” che un “venite pure a consultarvi con me quando ne avete bisogno”.
Aveva presentato gli altri studenti a cui fare riferimento per gli appartenenti agli altri corsi e poi aveva augurato a tutti loro una buona permanenza nell’Istituto.
La vera sorpresa per Armin era stata dopo: mentre la folla scemava, era stato chiamato dall’ultima persona da cui sarebbe aspettato di essere notato.
«Sei Armin, vero? Armin Arlert, eh? Quello della borsa di studio!» era stato l’entusiasta richiamo di Hanji, che gli era quasi trotterellata vicino come una bambina a cui erano state promesse delle caramelle; Armin aveva annuito più per riflesso che per reale attenzione e lei lo aveva affiancato in un attimo, prendendolo addirittura a braccetto.
«Posso rubarvelo, sì?» si era rivolta con un sorriso a Eren e Mikasa principalmente, portandolo via ben prima che potessero comunque rispondere davvero e non trasportati dall’entusiasmo di lei.
«Complimenti per il punteggio alto della borsa di studio.» incalzò lei quando furono abbastanza lontani dal gruppo; Armin balbettò un “grazie” timido e modesto che la fece ridere bonariamente.
«Riposo, soldato Arlert, riposo.» lo blandì scherzosamente, o così gli parve; poi lo vide: il sorriso di chi sa di averti detto qualcosa che solo tu avresti potuto capire. Era il tipo di sguardo che a volte gli era sembrato venisse rimandato indietro dalla propria immagine riflessa nello specchio: gli occhi di chi ha visto più di quanto una persona dovrebbe vedere, non in termini di orrore o meraviglie, non in termini di esperienza.
Erano gli occhi di chi aveva posato lo sguardo su troppe vite – tutte vissute nella loro interezza, nel loro ciclo senza fine, nell’attesa di qualcosa che dimenticavi ma di cui sentivi sempre la mancanza.
Negli occhi di Hanji c’era la consapevolezza di chi aveva passato intere esistenze nella spasmodica ricerca di un’anima lasciata indietro e ritrovata completamente quando forse aveva smesso di sperarci.
In quell’istante Armin sentì un tremito scuoterlo e mille domande affollargli la mente: era come lui? Anche lei un giorno si era svegliata con la consapevolezza che quello fosse solo l’ennesimo ciclo? Anche lei era stata trascinata in quel risveglio, forzato dal ricordo di troppo dolore di una prima vita ormai lontana eppure mai completamente dimenticata?
Si chiese se anche lei fosse stata preda di tutti i dubbi che lo avevano afflitto, come se fosse davvero possibile che un’anima si reincarnasse tante volte al fine di incontrarne nuovamente un’altra, o compiere qualcosa che la prima volta era rimasta incompiuta.
O se invece aveva creduto di essere pazza, com’era stato per lui, troppo giovane per comprendere davvero una cosa di una tale entità – giovane com’era tutt’ora e com’era la stessa Hanji, che però sembrava calma nella sua folle normalità com’era stata un tempo, mossa da una curiosità senza fine verso ciò che avrebbe dovuto terrorizzarla.
«Piangi pure. Abbiamo tempo per parlare.» disse, posandogli comprensiva una mano sulla spalla; solo allora Armin si accorse di essere scosso dai singhiozzi – come tutte le volte che nelle passate vite, ad un istante dalla morte, ricordava il nome della speranza che forse aveva reso possibile tutto quello.

Eren.

Le teorie sulla reincarnazione erano tante, Hanji ne aveva studiate moltissime dalla sua presa di coscienza, gli aveva confidato.
Aveva incontrato Irvin che lui era già “mezzo sveglio”; non sapeva coscientemente chi lei fosse, ma aveva asserito di trovare naturale la sua vicinanza tanto quanto fidarsi di lei. Rivaille invece pareva essere ancora completamente “assopito”.
«Non saprei ancora dirti con certezza come funzioni» aveva ammesso «anche se naturalmente lo sto studiando e ho un sacco di ipotesi per adesso!» aveva aggiunto entusiasta com’era sempre stata, strappando un sorriso ad Armin.
«Di una sola cosa sono abbastanza certa.» aveva aggiunto; aveva detto anche tante cose, ossia che forse ci si metteva più tempo a seconda di quanto forte erano i sentimenti di quando la prima esistenza era finita, oppure che poteva essere un problema di coincidenze, che forse ritrovarsi lì, ora, tutti insieme ed in un contesto che sembrava il calco di quella che definiva “esistenza primaria” era la vera chiave di tutto.
Anche se non erano soldati ma studenti, perché la divisione di tre corsi, la graduatoria e in alcuni casi storie personali simili al passato dovevano aver smosso le anime in un modo che prima di allora non doveva essere mai accaduto.
«In tutto quello che ho letto sull’argomento, sembra che una cosa metta tutti d’accordo. Mi piace credere che le anime di chi instaura un legame profondo e inscindibile in vita rimangano tali anche dopo. E che sia questo che ci permette di ritrovarci.» aveva ripreso «Questo non è molto scientifico, ma è l’unica spiegazione che continua a tornarmi in mente ogni volta. Più di qualsiasi calcolo matematico. Questa non è una cosa di probabilità, non è una cosa che può rimanere invariata nonostante i troppi fattori.» aveva continuato a spiegare, seduti di fronte alle scale dell’ingresso dell’edificio del dormitorio maschile.
«Penso che siamo destinati, in qualche modo, che ci sia qualcosa che dobbiamo fare e qualcuno con cui dobbiamo farla. Non ho idea di cosa sia, ma c’è. E ci trascina tutti gli uni contro gli altri, con una forza incredibile. Alla fine, ci si ritrova. Forse si impiegano cicli infiniti ma alla fine deve succedere, deve esserci uno scopo. So che c’è, nonostante la sofferenza o il fatto che a volte sembri di non avere nulla da fare dove si è. C’è una persona a cui devi ricongiungerti, una cosa che devi capire, una che devi concludere. C’è di sicuro. Non è male messa in questi termini, no?» aveva concluso, rivolgendogli un sorriso privo della follia curiosa della Hanji dei giganti.
C’era dolcezza, aveva pensato Armin. Solo dolcezza e qualcosa che doveva aver vissuto altrove, come lui.
Come tutti.
«…Eren non ricorda nulla.» aveva mormorato, quasi dovendosene scusare.
«Ricorderanno. Te l’ho detto, no? Forse dipende dalle ferite. Ma alla fine tutti trovano il loro qualcosa.»

 

Pur senza rivolgerci alcun addio, ci siamo separati.
(Tacita era la promessa di incontrarsi di nuovo)

 

La lama cade a terra, sporca di un sangue che macchia il terreno sotto il corpo esanime di una speranza ormai morta.
Perché non importa che Eren Jaeger abbia svolto il suo compito fino alla fine, che l’umanità sia salva; le perdite sono incalcolabili e oltre una mera questione di soldati morti in battaglia.
La lama che Rivaille ha lasciato andare ha messo fine alla vita dell’ultimo gigante rimasto, e il Caporale si chiede a che cosa sia servito.
Non è cambiato nulla rispetto al passato: c’è chi è rimasto a guardare altri farsi ammazzare per la propria salvezza, ma c’è di più, sono andati oltre. Hanno preso dei ragazzini e li hanno fatti soldati, sfruttati, resi simboli di una speranza calpestata e poi se ne sono liberati.
I “salvatori” come Jaeger sono stati in bilico tra vittima e carnefice e alla fine, considerati non più funzionali ad uno scopo in terra, sono stati gettati via come armi difettose; dopo aver caricato le spalle di un moccioso del peso di un mondo ignobile e crudele, gli è stato ordinato di morire in silenzio.
E lui ha accettato, troppo stanco dopo aver ucciso, e visto morire, e ucciso ancora, tradito gli amici, essere stato tradito a sua volta, aver perso tutto.
Tutto tranne l’anima, forse.
Quella Rivaille l’ha vista quando quel ragazzino gli ha detto che ucciderlo andava bene.
«Caporale—»
«Sparisci.»
Lo sibila con un odio che non è descrivibile, un disdegno per l’umanità nella sua interezza che non è comprensibile né giustificabile, ma così reale che non la si può ignorare.
La verità è che sono tutti stanchi, che la guerra è finita ma per loro non cesserà mai davvero.
Non c’è salvezza, perché gli incubi li perseguiteranno fino a farli svegliare nel terrore di un attacco, nella follia totale della percezione di un nemico che non esiste più, ma di cui sentiranno sempre lo sguardo addosso.
Rivaille è considerato il soldato perfetto.
Dopo che una squadra ti muore sotto gli occhi e uccidi un ragazzino posto sotto la tua custodia – uno che dovevi proteggere, uno a cui dovevi forse anche insegnare qualcosa, uno che era la speranza per cui forse pochi, ma alcuni erano sopravvissuti – c’è da chiedersi quanta altra merda dovrà annientargli l’anima perché smetta di avere la parvenza di un essere umano e diventi finalmente il soldato che aveva scelto di essere.
Che ad essere umani, in un’epoca come quella, era solo un modo doloroso di morire ogni giorno.

 

C’è una persona a cui devi ricongiungerti,
una cosa che devi capire,
una che devi concludere.
C’è di sicuro.

 

 

 

 

Angolo delle lamentele *ride*
Questa fan fiction nella mia testa era molto diversa, per esempio era più figa *muore* ma, soprattutto, più chiara.
Sono fermamente convinta che sia una tematica che forse dovevo sviluppare in una long, o forse in una oneshot lunghissima di quelle che sputi sangue a correggere.
Di sette pagine, penso di aver voluto cestinarne almeno tre o quattro. Comunque.
Se qualcuno alla fine ha capito che si parlava di “reincarnazione”, gli do un biscottino. Più che dal punto di vista tecnico e delle varie teorie che fin troppi nei secoli hanno maturato, ciò che mi interessava davvero era il concetto di “persone destinate” in qualche modo: perché è l’unico, vero tipo di “amore” che riesco a vedere in SnK – poi vabbè, scrivo porcate pwp ma quelle son cose.
E bon. Se qualcuno non s’è schifato, sono tutto sommato felice (L)

   
 
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