III
Chiuso nella sua piccola stanza, Quinto
Severino era chino sui libri di storia. Il suo maestro personale Caio Marzio lo
stava appena interrogando sulla nascita della Repubblica, ottenendo però ben
poche risposte.
«Quinto, Quinto... quante volte te lo devo
ripetere, la Repubblica romana inizia dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo,
ultimo re latino di origine etrusca».
«Sì,
maestro... sono solo un po' distratto»
«Si vede. Non dirò nulla a tua madre per
stavolta, ma lo sai che ci tiene a te»
Quando il maestro si congedò Quinto tornò a
sedersi sullo sgabello dove stava studiando poco prima, le braccia a sostegno
della testa completamente assorta da mille pensieri. La scrivania era situata
proprio nei pressi della finestra e là Quinto immaginava di poter giocare
libero con gli altri ragazzi senza dover stare gran parte del giorno a studiare
gli annali e l'opera di Tito Livio Ab Urbe Condita.
Preferiva di gran lunga dilettarsi con la genesi della letteratura antica come
le scene di Plauto, da sempre applaudite per la sua grande forza dirompente sia
nella comicità sia nell'autoironia, portando all'estremo episodi quotidiani
attraverso trame burlesche e intricate.
Sua madre, Severa Severino, disapprovava
molto spesso i gusti e le scelte del figlio, cercando di fargli apprendere
soltanto ciò che per lei veniva ritenuto adeguato. Per una questione di fato il
nome le calzava perfettamente.
E intanto Quinto continuava a guardare
fuori dalla finestra, vedendo i ragazzini poveri divertirsi tirando calci a una
palla di pezza o giocando a nascondino tra di loro. Avrebbe tanto voluto essere
lì, ma la sua posizione sociale glielo impediva. Vivendo in una domus, benché
non grande e appariscente come molte altre, doveva seguire rigide regole che la
madre gli impartiva. Suo padre era morto in guerra durante una delle varie
campagne militari a seguito dell'espansione romana nel Mediterraneo, dunque
Severa aveva di fatto ereditato tutti i possedimenti del marito. La sua unica
consolazione era il fatto di essere ormai entrato nell'età in cui i giovani
come lui avevano il diritto di iniziare a scegliere per sé alcune cose come,
per esempio, uno schiavo personale.
Quinto fissò con aria sorniona una bella
ragazza dai capelli sporchi ma con un viso stupendo, rovinato dalla sporcizia,
che giocava con la sorellina. Non aveva idea del perché ma qualcosa nel suo
perizoma sembrò prendere vita. La cosa non lo sconcertò più di tanto, erano due
anni che aveva iniziato a sentire delle strane fitte ai genitali ogni volta che
si concentrava troppo su una persona che gli piaceva.
«Quinto!» La voce della madre si fece largo
dabbasso mentre il ragazzo si affrettò a sistemarsi il perizoma.
«Sì, mamma. Eccomi» disse lui, abbandonando
la sua stanzetta piena di libri e ritratti, nel quale era conservata la spada
del padre protetta da un contenitore in vetro.
Quando scese al piano di sotto Quinto vide
la madre affaccendarsi per poter uscire.
«Vieni con me»
«Dove?» Quinto aggrottò le sopracciglia.
«Nei populares di
Vienne» disse la madre facendo una breve pausa, «ormai è tempo che tu abbia uno
schiavo tutto tuo, non puoi continuare a usare quelli che tuo padre ci ha lasciato»
Un sorriso
solitario ma del tutto genuino si stampò sulla faccia del ragazzo, finalmente
chiamato ad avere qualcosa di veramente suo e personale. Gli dispiaceva per Tertia
e Licilius, che lo avevano curato e obbedito per anni, ma ormai Severa era
irremovibile. Quinto si sistemò la toga bianca con una piccola striscia
decorata in porpora e seguì la madre uscire dalla domus e infilarsi nei vicoli
a nord della città.