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Autore: RumoreDiFavoleSpente    21/06/2013    1 recensioni
Due ragazzi, indissolubilmente legati dalla pioggia. Cosa succede se per essere felici ci vuole il brutto tempo e non le giornate passate al sole in un parco ma per strada senza un ombrello ad assaporare l'odore di bagnato sentendosi giusti almeno per un secondo nella mano dell'altro?
***
Fisso i tuoi occhi. Quei due smeraldi che hai al posto delle iridi. Sono verdi come i miei ma tu hai sempre detto che i miei sono più belli. Insistevi ma io non ci credevo mai. I tuoi, che il più delle volte preferivi nascondere nei modi più banali, quando mi si piantavano addosso erano delle frecce che penetravano la pelle e arrivavano al cuore. Fissarli era difficilissimo ma distogliere lo sguardo sembrava ancor più impossibile. Li amavo, tanto quanto amavo te. E mi chiedo se hai mai provato ad amare me come io ho fatto con te.
Genere: Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Naturalmente non riuscii ad addormentarmi prima che smettesse di piovere, ma non saprei dire quanto tempo passò e neanche per quanto tempo dormii.
Il freddo si stava facendo sentire, soprattutto perché avevo i vestiti zuppi di pioggia e l’aria che tirava non rendeva di sicuro il clima accogliente.
Sapevo di gente che si era addormentata al freddo ed era morta poi per ipotermia. Il pensiero mi mise un po’ in ansia quindi mi rannicchiai su un lato, mi strinsi forte le ginocchia al petto e mi feci forza. Ad un certo punto crollai.
 
 

Ero al mare, stavo prendendo il sole in una sdraio con una sigaretta accesa e un bicchiere di Coca Cola in mano. Era caldo ma una leggera brezza mitigava il clima rendendolo perfetto. Nella mia pace mi sentii chiamare, mi voltai e vidi Matteo che mi stava chiamando, con aria impaurita. Non me ne spiegavo il motivo, mi guardai intorno ma era tutto normale, niente ufo, scimmioni, ladri, assassini o criminali di sorta. Mi si avvicinò e con una faccia ancora più spaventata mi iniziò a schiaffeggiare dandomi della stupida mentre io, stesa sul lettino, continuavo a non capire
.

Aprii gli occhi e ricollegai tutto. Era un sogno.

Mi aveva trovata, mi aveva cercata in lungo e in largo per quelle montagne e alla fine, la sua quasi del tutto inesistente memoria, si era ricordata che se c’era una cosa che amavo fare in montagna era cercare un punto abbastanza in alto per poter vedere la città di notte e si era ricordato della radura dove avevo trovato rifugio.
Quando lo guardai negli occhi, lui riacquistò vent’anni in un secondo. Dopo averli persi mentre mi cercava e mi dava per dispersa o peggio morta, gli si sollevò un peso dal cuore. Mi raccontò di come si era ricordato che amavo i paesaggi notturni e sicuramente si aspettava una frase del tipo:

"Che ragazza fortunata che sono, ho un ragazzo che si ricorda le cose che amo" e non:

"Beh, sono qui da quasi cinque ore, c’è ne hai messo di tempo. Grazie del disturbo. Ora, se vuoi essere così gentile da portarmi a casa così mi cambio e mi riscaldo sarebbe magnifico. Altrimenti puoi pure andare, troverò la strada domattina."

Ero stata cattiva, dopotutto, ma di sicuro non si meritava un abbraccio e un bacio con tanto di lacrime agli occhi. Me se sarei andata via la mattina seguente, di buon ora. Tanto prima di mezzogiorno sarebbe stato quasi impossibile vederlo fuori dal letto.
Non disse niente, non rispose alla mia affermazione. Aveva capito che era meglio per lui non farlo. Si limitò a darmi la sua giacca e a dirmi 

"La macchina è lassù, ti accompagno."

Accennai un “grazie” con il capo e montai in macchina. I due amici che lo avevano accompagnato non parlarono, uno mi chiese come stavo e lo liquidai con un "infreddolita ma bene" e non ci furono altre parole se non quelle delle canzoni alla radio.
Arrivati a casa, ringraziai i due ragazzi, augurai loro la buonanotte e mi diressi dentro con il preciso intento di farmi una doccia calda lunga almeno un secolo. Così feci. Una volta uscita mi asciugai e mi misi il pigiama. Non cercai Matteo, non volevo sapere dove fosse.
Mi misi a letto e crollai poco dopo, in quello che speravo, sarebbe stato un sonno ristoratore.
 
Il mattino dopo mi svegliai, guardai l’orologio: le dieci e mezza. Avevo dormito solo tre ore ma mi sarebbero bastate per affrontare il cammino fino alla fermata più vicina per poi addormentarmi di nuovo sull’autobus verso casa.
O almeno così credevo.
Iniziai a preparare le mie cose per portarle via, andai in bagno per darmi una sistemata e al mio ritorno in camera lo trovai sul letto ad aspettarmi.
Lo guardai negli occhi. Aveva pianto, mi chiesi il perché. L’aveva voluto lui alla fine, lui era stato il primo ad ammettere che non c’era altro da aggiungere al tutto. Era colpa sua se stava così, non mia.
Decisi di ignorare quei pensieri anche se la mia mente continuava  a bombardarmi di domande su dove avesse passato la notte, cosa avesse fatto e cose del genere.
Avanzai verso di lui che rimase in silenzio. Continuai a fissarlo per tutto il tempo come stava facendo lui.
Guardai quegli occhi. Anche rossi di pianto non perdevano l’intensità che li contraddistingue da tutti gli altri anzi, forse ne acquistavano di più. Mentre li osservavo, mi ripassarono davanti tutte le volte che mi ci ero persa dentro e inevitabilmente accadde di nuovo.

Stava davvero per finire tutto? Sì. Ne avevo viste abbastanza, sopportate anche troppo e non avevo fatto del male a nessuno per meritarmi questo trattamento.
Staccai lo sguardo dal suo e lo posai sulla mia borsa. C’era una busta con sopra il mio nome scritto con la sua grafia.

"Pensi che cambierà qualcosa?" chiesi con rabbia mista a indignazione e sorpresa.

"No. Non so più che pensare ma ci sono troppe cose che il mio orgoglio mi ha sempre impedito di dirti e sta notte non sono riuscito a farlo tacere ma sai quanto mi costa dire certe cose e scriverle mi è parso un buon compromesso"

Siamo alle solite, pensai. Mai che prenda in mano la sua vita, dia quattro cazzotti al suo orgoglio e mi dica tutto quel che pensa in faccia e senza giri di parole o sotterfugi.

"Bene, mi serviva qualcosa da leggere per addormentarmi in pullman."
Presi le mie cose, dopo averlo guardato un ultima volta mi voltai e prima di uscire lo ringraziai dell’ospitalità. Dopo di che mi chiusi la porta alle spalle, senza guardarmi indietro. Lo sentii distintamente prendere a calci e pungi la porta ma mi convinsi che se l’era cercata.
Arrivata alla fermata, controllai la tabella degli orari, avevo ancora quaranta minuti buoni così decisi di aprire la lettera.



Non ho idea di come iniziare questa lettera. C’ho pensato per una buona mezz’ora ma niente mi sembrava adatto. Sei in camera che dormi e io qui in cucina che lotto con il mio orgoglio per scriverti queste parole. Sono un coglione. Potenzialmente non ci sarebbe nient’altro da aggiungere ma ormai la lotta è iniziata e devo finire, devo vincere.
Quel che è successo prima non ha spiegazioni, non ha motivazioni, non ha giustificazioni. Mi ha sempre fatto la gatta morta intorno e ho ceduto. Da bravo genio che sono, ho ceduto proprio quando tu eri con me. Non che se l’avessi fatto quando non c’eri sarebbe stato meno riprovevole, ma ho proprio fatto bingo.
Fino a che non mi hanno detto che eri sparita da più di un'ora non mi ricordavo cosa ci fossimo detti quando mi avevi scoperto, l’alcool mi annebbia la memoria e lo sai. Credevo che fossi tu quella in torto semplicemente arrabbiata senza motivo, ma quando i ragazzi mi hanno detto cos’era appena accaduto mi sono sentito un vero idiota, ma ogni epiteto sarebbe straordinariamente riduttivo per descrivere la testa di cazzo che sono.


<< E meno male che l’hai capita. >> Pensai.

Tornando a noi, mi hai fatto prendere un colpo. Avresti dovuto vedermi, sembravo impazzito, urlavo a destra e a manca perché qualcuno mi desse le chiavi di una macchina per venirti a cercare. “Ha piovuto, può essere caduta da qualche parte, magari s’è fatta male, è tutta colpa mia.” Una checca isterica.
Per fortuna due dei ragazzi vendendomi così si sono offerti di accompagnarmi e poco dopo c’hanno seguito anche tutti gli altri, la prima macchina che ti vedeva doveva chiamarmi e sarei corso da te.
Per fortuna ti ho trovato io ma non sai quanto ho patito. Mi sta bene e sono d’accordo. Ora capisco cosa intendi quando mi dici che sei in ansia se mi sai da solo e non proprio sano, in giro per questi monti. Ritiro tutte le volte che ti ho dato della paranoica. Avevi perfettamente ragione.
Beh, tutto questo mucchio di parole per dire cosa?
Che mi dispiace. Per quel che vale.
Ma come dice V “E’ privo di senso chiedere scusa?” “Non lo è mai.”
Quindi sono qui a chiederti scusa e basta. Nel modo più sincero e onesto che un bugiardo come me possa esprimere.
So che credi che sia uno sparacazzate a random, so che pensi che uso sempre tante belle parole per poi riuscire sempre a scamparla, a farla franca e a vincere. Questa volta non è così.
“Ma non ho scuse da portare, non dico più d’esser poeta. Non ho utopie da realizzare, stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia meta.” Guccini. Ricordi?
Ti si erano illuminati gli occhi quando l’avevo citato la prima volta. Avevo iniziato la frase con “Ma se io avessi previsto tutto questo…” mi avevi fatto finire la frase e avevi cominciato tu “Ma se io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, le attuali conclusioni” e siccome avevo continuato con te, ti eri fermata sorridendo. Mi hai guardato. “Guccini. Lo conosci?” ti eri stupita. Pensavi di essere l’unica idiota a ascoltare un vecchio brontolone di un'altra epoca e invece c’ero anche io. Ci sono anche io.
Potrei continuare ore a citare le sue canzoni per spiegare quel poco che sono, quanto io sia idiota, spaventato, arrabbiato con me stesso e innamorato di te.
Lui ha sempre le parole giuste per farlo, ma non è giusto che io le usi con te. Quindi non lo farò.
Non ti sto chiedendo di restare. Non sono nella posizione di farlo. Non voglio convincerti di niente, non ti lasci più abbindolare dalle mie parole.
Voglio solo essere sincero. Almeno una volta. Almeno con te che di bugie non me ne hai dette mai.
Mi dispiace. Davvero.
 
Ti amo, Cate.
 
Matty.
 
 
C’era qualcosa di sbagliato. Nel fatto che fossi fuori dalla sua casa, seduta sul ciglio della strada ad aspettare di andarmene, con le lacrime agli occhi. Non poteva essere giusto. Anche perché il pullman era in fondo alla strada, stava arrivando.
 
Il percorso lo sapevo a memoria, anche senza guardare, gli occhi annebbiati dalle lacrime non erano un reale ostacolo, erano solo fastidiosi.
La porta era aperta, come sempre. Corridoio, seconda porta a sinistra. La spalanco come una furia, era ancora seduto sul letto con la testa nelle mani a pensare a chissà cosa ma non mi importava. Alzò lo sguardo impaurito e non ebbe neanche il tempo di finire l’imprecazione che gli fui addosso cominciando a picchiarlo, pugni, schiaffi, calci e morsi. Con quanta più forza avevo in corpo e più continuavo più le lacrime smisero di scendere, il respiro diventa irregolare e l’adrenalina saliva.

“TI ODIO!” gli urlai un secondo prima di fermarmi.

Lo guardai con il respiro affannato. Non era proprio la reazione che si aspettava. Gli lessi lo sconcerto in volto. Non ha ancora realizzato bene.

“SE NON AVESSI UN PROFONDO RISPETTO PER TUA MAMMA CHE E’ UNA SANTA DONNA PER SOPPORTARE UNA BESTIA COME TE COME FIGLIO TI DAREI DEL FIGLIO DI PUTTANA IN UN ATTIMO.” Urlo di nuovo.

So quanto tenga alla madre e se non sapessi l’angelo che è, non esiterei a dirgli in faccia di nuovo quel che gli ho appena detto.

“Sei uno stronzo, un vigliacco, un idiota, un coglione!” continuo a sputargli in faccia tutto l’odio che ho accumulato arretrando verso il muro con le gambe tremanti.

Quasi non mi reggevo in piedi e quando sentii finalmente la mia schiena toccare la superficie dura e fredda della parete mi lasciai scivolare lentamente a terra, mi strinsi le gambe al petto e con la testa appoggiata sulle braccia mi rimisi a piangere.
Un pianto disperato, di quelli che sembrano non finire mai, che non vorresti finissero mai. Uno di quei pianti dove speri solo di riuscire a buttare fuori tutto quello che hai dentro fino a cadere poi a terra, stremata, addormentandoti per sempre.

Dopo un po’ sentii le doghe del letto scricchiolare e i suoi passi avanzare verso di me. Avrei voluto urlargli di lasciarmi in pace, di non toccarmi e di non rivolgermi la parola ma le lacrime mi bloccavano la gola e non riuscii a pronunciare alcun suono se non i singhiozzi strozzati del pianto.

“Lo so che non vuoi che ti tocchi, che ti parli e che vorresti che ti lasciassi in pace. Ma non posso.” Mi disse abbracciandomi e sedendosi di fianco a me.

Ecco perché lo odiavo, non avevo aperto bocca ma lui sapeva cosa avrei detto e nonostante questo aveva fatto l’esatto contrario di quel che volevo, l’aveva fatto lo stesso. Ecco perché l’amavo. Non c’era bisogno di parole con lui. Non c’è ne era mai stato.
Avevo voglia di riprenderlo a schiaffi ma mi tirò su a forza, mi stese sul letto e si stese davanti a me. Passando un braccio sotto il mio collo e poggiando l’altro sui miei fianchi mi strinse e mi lasciò piangere.

 
Passò diverso tempo in cui non si era mai allontanato da me, sia quando mi accarezzava i capelli, sia quando presa dalla rabbia ricominciavo a picchiarlo di nuovo.
A un certo punto mi alzai, incrociai le gambe e asciugai le lacrime. Mai mi ero ridotta in maniera simile per qualcuno e lui lo sapeva. Si alzò anche lui e si mise nella stessa posizione all’altro capo del letto, guardandomi fisso.
In quel momento eravamo due nemesi. Agli opposti, completamente diversi ma entrambi sapevamo che nessuno dei due poteva sopravvivere senza l’altro. Come Batman e Joker.

“Ti odio davvero.” Esordisco

“Non dovresti fare niente di diverso.”

“Smettila!” urlo “Smettila tu e i tuoi dannatissimi giochi di parole, rispostine da film e frasi da grande eroe dei fumetti! Finiscila! Non sei in un gioco, non sei in due dimensioni disegnato su un foglio di carta e per l’amor del cielo: capisci che questa-maledetta-vita-non-è-un-FOTTUTISSIMO-FILM! AAAAAAAAAH!”

Ero di nuovo con il fiatone per aver urlato tirando pugni nel muro al posto che alla sua faccia.
Se c’era una cosa che odiavo e odio tuttora, è perdere il controllo ma lui era sempre in grado di farmi arrivare all’esasperazione anche con un solo sguardo. Aveva passato il limite. Ben due volte in meno di ventiquattrore. Aveva battuto il suo record personale, doveva andarne fiero.

“Ti odio per una serie infinita di motivi. Alcuni così banali che tu magari neanche te ne renderesti conto, altri così profondi che di sicuro impiegherei anni per farteli capire quindi tanto vale. Non ti meriti di saperli, non ti meriti neanche che io sia qui a dirla tutta. Non ti meritavi di abbracciarmi mentre piangevo e neanche tutte quelle botte che ti ho dato. Non perché tu sia una brava persona…no. Perché proprio non sei all’altezza. Non ti meritavi così tanta considerazione da parte mia. Non ti meriti una come me.”

“E allora perché sei qui?”

Sentii di nuovo montare la rabbia dentro di me. Era vero che non mi meritava ma era anche vero che quella seduta sul letto davanti a lui ero io e non un'altra.

“Sono qui per me. Perché nonostante tu sia una testa di cazzo, io c’ho speso del tempo per te, con te. Togliendolo a me stessa. Perché se c’è una cosa che non hai mai fatto è stata prenderti cura di me. Sai che non ho mai voluto cene al ristorante, regali costosi o tutte quelle cose che fanno sentire le altre coppie un po’ meno vuote e un po’ più innamorate. No. Mi sarebbe bastata una rosa tagliata dal rovo qui davanti casa, mi sarebbe bastato il caffè sul fornello la mattina, una passeggiata sotto il sole. Una notte sotto la pioggia. La pioggia Matti. Quanto tempo è che non stiamo sotto la pioggia io e te? Non siamo più usciti scalzi a camminare nel fango respirando l’odore che entrambi amiamo alla follia. Non ne avevi più voglia. E io continuavo a dirmi che andava bene, avrei evitato una lavatrice.”

Come al solito eri davanti a me, in silenzio con lo sguardo basso. Sapevo che mi stavi ascoltando. Non potevi evitarlo, non ci riesci. Ma volevo mi guardassi in faccia mentre ti parlavo così appoggiai due dita sotto il tuo mento e lo alzai delicatamente.

“Hai una vaga idea di quante volte l’avrei fatta quella lavatrice con i nostri vestiti sporchi di fango ma pieni d’amore? Lo sai?” chiedo.

Credo di non aver mai avuto tanto amore nello sguardo come in quel momento. Dopotutto lo amavo. Nonostante quello che mi aveva fatto, nonostante tutto, ero ancora innamorata di lui.
E l’aveva capito, come al solito. Infatti si mise a piangere.
Lo fece perché gli era tutto chiaro.
Lo amavo ma non potevo stare con lui. Non ne avevo più le forze.
Lo abbracciai e ci stendemmo di nuovo sul letto, solo che ero io ad abbracciare lui questa volta.

“Mi dispiace.” disse tra i singhiozzi.

“Lo so.”

Lo sapevo davvero, gli dispiaceva davvero ma non c’era altra via d’uscita. Dovevo andarmene. Questa volta sul serio.
Ci alzammo e in silenzio mi accompagnò alla porta. Lo guardai a lungo. Sapevo che non sarebbe mai successo, ma non potevo permettermi di dimenticarlo, non quegli occhi, non tutto quello che avevano rappresentato per me.
Mi avvicinai al suo viso, appoggiai una mano sulla sua guancia e dopo avergli asciugato le lacrime lo baciai per quella che sarebbe stata l’ultima volta.

Mi staccai e dissi “Lo sai, in un giorno di pioggia ti rivedrò ancora e potrò consolare i tuoi occhi bagnati ma fino ad allora: buon viaggio hermano querido e buon cammino ovunque tu vada, forse un giorno potremo incontrarci di nuovo lungo la strada.”

Sorrise, sorrisi con lui. Era finita davvero. Presi la mia borsa e me ne andai senza voltarmi.
Sapevo che mi avrebbe guardato fino a che non fossi scomparsa dalla sua visuale.
 




 
 
Passarono i mesi. Non parlai più con lui né di lui. All’inizio fu dura ma piano piano mi convinsi che era giusto così.
Era ormai estate quando in una giornata come le altre il citofono gracchio. Stava piovendo, il tipico temporale estivo, quello che rinfresca l’aria e ridona alla terra la speranza di essere ancora una volta fertile.
Aprii il portone chiedendo sovrappensiero chi fosse a disturbare e mi ritrovai davanti la meraviglia.
I vestiti logori dal lavoro, i capelli biondi più lunghi e disordinati e una barba incolta mi fecero dubitare di conoscere la persona che avevo davanti, ma poi guardai gli occhi. Non avrei potuto confonderli con niente al mondo. Verde, verde speranza, verde natura, verde miracoloso e tanto agognato nelle notti più buie.

“Cosa ci fai qui? Entra che piove!”

Non sapevo se volessi davvero farlo entrare ma le buone maniere avevano preso il sopravvento sul cuore partito a razzo e la mente svuotata.

“No, sta piovendo. Sto fuori. Ho smesso di stare in casa quando piove, faccio il caffè tutte le mattine e lascio la moka pronta per mamma quando si sveglia, colgo una rosa tutte le sere quando rientro da lavoro e la metto al centro del tavolo quando è pronta la cena e quando piove cerco sempre di uscire senza ombrello perché voglio sentire l’acqua scorrermi addosso. Ho preso più volte l’influenza ma ne è sempre valsa la pena. All’inizio lo facevo per punirmi, la pena del contrappasso, sai? Poi ho iniziato a prenderci gusto e lo facevo perché mi immaginavo di averti con me ogni volta che facevo quelle cose.”

Non avevo parole da dire. Non sapevo cosa dire e anche se l’avessi saputo non avrei potuto farlo perché riprese subito dopo a parlare.

“Sono un idiota, sono sempre l'idiota di prima ma so di essere migliore di prima. Voglio dimostrartelo, voglio farti vedere e capire quanto ti amo e voglio iniziare subito per non smettere più.”

Poi lo vidi abbassarsi, rovistare nella tasca e mettersi in ginocchio, aprì una scatolina di velluto giallo e quasi mi sentii svenire.
C’era un anello d’oro bianco con una goccia verde sulla circonferenza, era smeraldo, ne ero certa.
Non era un anello vistoso ma doveva essergli costato mesi di rinunce e duro lavoro, lo sapevo bene.
Era una di quelle scene dei film, quelle dove lui fa il pentito e le chiede di sposarlo e lei tra le lacrime risponde di sì. Ma io ero pronta a rispondergli di sì?
Il suo verde incontrò il mio. Smeraldo e malachite di nuovo incastonati perfettamente insieme.

“Vuoi passare, con un indiscutibile idiota, il resto della tua vita? Cate…mi vuoi sposare?”

Lo guardai, sentivo le lacrime salire dal cuore fino agli occhi e lottare per uscire. In fin dei conti, per quanto tentassi di fingere e mentire a me stessa, ero ancora innamorata di lui.
Un sorriso ebete mi si disegnò in volto e prima che si trasformasse in una smorfia gli risposi

“Solo se prometti di restare il mio indiscutibile idiota per sempre.”

“Te lo prometto.” Mi disse, diventando il ritratto della felicità

“E allora si…voglio sposarti.”

Mi infilò l’anello al dito e mi abbracciò trascinandomi sotto la pioggia.

“Sta piovendo…”protestai scherzando

“E tu hai degli occhi bagnati da consolare.”

“Ti amo, indiscutibile idiota.”

“Ti amo anch’io”
 



 
 
*************


La la laaaaaa
Finita.
È stato un parto. Non sapevo come concluderla ma ho optato per il lieto fine. Per questo c'ho messo un po'.
Non ho molto da aggiungere. Se vi interessa vi lascio i titoli delle canzoni che ho citato, per pura curiosità.
Grazie a quelli che hanno letto questa storia, spero vi sia piaciuta (:
Alla prossima,
un beso. (:

°Shakalabumba!



In ordine di apparizione

Francesco Guccini - Canzone delle osterie di fuori porta
Francesco Guccini - L'avvelenata
Modena City Ramblers - In un giorno di pioggia
Modena City Ramblers - La strada

  
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