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Autore: margheritanikolaevna    22/06/2013    4 recensioni
In un'intervista Tim DeKay ha detto che la città di New York è un personaggio vero e proprio di White Collar e non solo un semplice sfondo: se questo è vero, vi siete mai domandati dove fossero Neal, Peter e tutti gli altri nel giorno più tragico per la Grande Mela? Si conoscevano già, oppure i loro destini si sono incrociati per la prima volta in quel drammatico mattino di settembre del 2001?
Questo racconto è la risposta che ho cercato di darmi. Ma non temete, non è una storia angst, perché il sentimento dominante sarà sempre e comunque la speranza.
Per adesso - e non so per quanto - sarà il mio ultimo lavoro su efp e spero veramente che riesca a emozionarvi.
Il racconto è stato scritto per il bellissimo contest "La speranza vive in una creativa realtà", indetto da HopeGiugy sul forum di efp e con mia grande gioia di è classificato al secondo posto (su ben ventinove concorrenti!).
Seconda classificata al contest "Anime, serie tv e sentimenti", indetto da bakakitsune su efp.
Terza classificata al contest "Dal linguaggio iconico a quello verbale", indetto da darllenwr su efp.
Grazie a chiunque avrà voglia di leggere e lasciare un suo parere.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Grazie a tutti coloro che hanno avuto la gentilezza di leggere e lasciare un loro parere: questo capitolo è interamente dedicato a Diana, personaggio molto interessante secondo me e non abbastanza “approfondito” nella serie. Ho immaginato per lei un passato che non ci si aspetta, per come è mostrata in tv.

Spero vi piaccia.

 

 

In una città straniera

 

Diana Barrigan non amava Los Angeles.

Per quanto potesse sembrare stravagante, per lei i luccicanti negozi di Rodeo Drive e le ville fastose di Malibu non rivestivano alcuna attrattiva particolare; quella che per tanti americani era la città del sole e dei divi famosi per lei era solamente un agglomerato di vetro e cemento che si contorceva arrostendosi al sole di un’estate implacabile, senza fine.

Settembre, poi, era il mese peggiore: vacanze finite e caldo ancora insopportabile, luce così accecante da ferire gli occhi o, in altri giorni, una nebbia talmente fitta da rendere quasi impossibile guidare e persino camminare a piedi. 

Diana sospirò, massaggiandosi il collo indolenzito e considerando che almeno per qualche mese all’anno avrebbe voluto poter fare a meno dell’aria condizionata; si tolse le scarpe da jogging, sfilò la tuta impregnata di sudore e, godendosi la sensazione del fresco delle mattonelle sotto le piante dei piedi, andò in bagno, aprì il rubinetto e si sedette sul bordo della vasca.

Mentre aspettava, lasciandosi cullare dal leggero scroscio dell’acqua e dal sopore di quella quieta mattinata estiva, i pensieri che da alcuni mesi le avevano impedito di essere pienamente appagata ripresero a tormentarla; per quanto lei cercasse di ignorarli o di contrastarli non c’era niente da fare, tornavano sempre all’attacco e ogni volta diventava più difficile per lei far finta che non esistessero e andare avanti con la sua vita.

Ecco, questo era il problema: quella che stava trascorrendo lì, giorno dopo giorno, era una vita.

Ma non la sua.   

Non le piaceva la città, non le apparteneva il modo di vivere dei suoi abitanti, non sentiva di appartenere a una comunità e - cosa forse più importante - le mancava il suo lavoro a Washington; certo, Johanne guadagnava per tutte e due e non le aveva mai fatto mancare nulla, però Diana non riusciva a stare senza far nulla e aver lasciato l’F.B.I. era stato come privarsi di una parte fondamentale di sé.

Si sentiva inutile, vuota, senza un obiettivo: quando era un agente, invece, veritàgiustizia e legge non erano solo parole con cui riempirsi la bocca e gonfiare il petto, ma rappresentavano uno stile di vita e, in qualche modo, persino una missione da compiere. Un lavoro come quello, si era sempre detta, non lo puoi fare senza una fondamentale componente ideale: ci devi credere, insomma.

Eppure aveva scelto per amore di voltare le spalle a tutto ciò in cui aveva creduto; allora, quando seguire la sua compagna in California le era sembrata una scelta naturale e giusta, anzi l’unica possibile.

Johanne.

Johanne, lei c’era sempre stata nella sua vita: c’era quando i suoi genitori  - che avevano smesso di portarsela dietro con la scusa che aveva bisogno di stabilità - la lasciavano per mesi a casa da sola, nonostante fosse solo una ragazzina, a causa del loro lavoro di diplomatici.

Era stata accanto a lei subito dopo che Charlie era stato ucciso davanti ai suoi occhi, per salvarla; l’aveva aiutata a superare il senso di colpa e Diana era convinta che se non le fosse stata vicino in quel periodo avrebbe fatto una brutta fine, magari aggrappandosi alla bottiglia o peggio, come tanti figli dei colleghi di suo padre. 

Era stata una sorella maggiore per lei, quasi una madre mentre quella vera era lontana. 

Era stata la sua confidente, la sua alleata, la sua migliore amica prima e la sua ragazza poi.

L’unica che avesse compreso e assecondato i suoi desideri, quando si era resa conto che andavano al di là della semplice amicizia tra ragazze; colei che l’aveva aiutata a superare i pregiudizi della sua famiglia e che adesso sua madre per prima adorava, considerandola quasi la nuora perfetta.

Frequentare l’università insieme le aveva unite ancora di più, rafforzando il loro legame, e quando Johanne le aveva alla fine chiesto di abbandonare Washington e il lavoro all’F.B.I. per seguirla le era balenata in mente l’immagine che con lei avrebbe potuto avere finalmente una famiglia vera, solida, normale. Non come quella in cui aveva vissuto, per intendersi.

Aveva detto di sì, Diana, lasciandosi alle spalle ciò per cui aveva duramente studiato per anni.

E all’inizio era stata felice come si aspettava: Jo la adorava, la copriva di attenzioni e tenerezza e la faceva sentire esattamente al centro del suo mondo.

Ma quel mondo all’apparenza perfetto si stava ogni giorni di più rivelando per la ragazza una prigione: un gabbia dorata in cui si era rinchiusa volontariamente e dalla quale sarebbe stato difficile liberarsi.

Si sentiva soffocare, proprio così: lei, che aveva girato il mondo quando era solo una bambina, che aveva considerato gli alberghi più lussuosi come casa propria e visto a dieci anni più paesi di quanti la maggior parte degli uomini ne abbia conosciuto in tutta la vita, adesso si sentiva in trappola. Le pareti di quella meravigliosa prigione immersa nel verde delle colline di Los Angeles le gravavano sul petto, impedendole di muoversi e di respirare.

La donna che si aggirava lungo il patio soleggiato, che trascorreva i pomeriggi in piscina o a curare i fiori del giardino non era lei: non aveva niente della persona indipendente, tagliente con le parole e incisiva con i fatti, che aveva conquistato giovanissima un posto al Federal Bureau of Investigation.

Non assomigliava nemmeno lontanamente alla giovane agente capace di mettere k.o. a mani nude uomini che pesavano il doppio di lei e di caricare la Glock di ordinanza con la stessa grazia con cui un’altra si sarebbe passata il mascara.

Dopo aver a lungo riflettuto, Diana era giunta a capire la chiave del suo malessere: certo, il lavoro le mancava e spesso le capitava, quando accompagnava la fidanzata a una festa, di sentirsi un inutile gingillo ornamentale, ma il vero problema era che i suoi sentimenti verso Johanne erano cambiati.

In verità, l’aveva assalita il terrore di non averla mai amata sul serio, ma di essersi solamente aggrappata a lei perché ne aveva un disperato bisogno: forse non aveva amato lei, ma ciò che aveva rappresentato nella sua esistenza disordinata, l’aiuto e il sostegno che le aveva dato in tutti gli anni della loro amicizia.

In altri momenti - durante le notti insonni in cui la guardava dormire rilassata accanto a lei, ascoltando il suo respiro regolare - era certa, invece, che il loro fosse stato un grande amore… un fuoco così ardente che alla fine di era consumato, forse soffocato dalla propria stessa energia.

Aveva smesso di amarla e, quando se n’era resa conto, la consapevolezza di aver già intrapreso - per quella sola consapevolezza - un cammino ineludibile che l’avrebbe allontanata per sempre da lei l’aveva trafitta, provocandole un dolore lacerante.

Chiudendo con Jo, Diana avrebbe chiuso con una parte fondamentale di sé, avrebbe rigettato buona parte del proprio passato e delle proprie esperienze.

Ma sarebbe stata veramente capace di farlo? Avrebbe trovato il coraggio di andarsene, di dirle che era finita? Talvolta si chiedeva persino se Johanne sarebbe riuscita a sopravvivere a una cosa del genere: forse non l’avrebbe mai lasciata andare, forse avrebbe compiuto qualche follia per tenerla legata a sé.

Diana conosceva la forza dei suoi sentimenti per lei e più di una volta era stata quasi spaventata dall’intensità con cui la sua compagna era capace di amarla.

L’unica cosa di cui era certa era la necessità di parlarle; non poteva più tacere, perché tenere tutti i suoi dubbi per sé la stava logorando.

Aveva deciso: non appena Jo fosse tornata dal viaggio di lavoro a Washington - l’aereo doveva essere decollato già da un po’ - avrebbe affrontato l’argomento. 

La ragazza trasse un sospiro, si tolse anche la biancheria e s’infilò nella vasca da bagno; mentre sentiva i muscoli rilassarsi nell’acqua tiepida e le tensioni sciogliersi, donandole un momentaneo sollievo, considerò che per quella mattina non aveva voglia di torturarsi oltre.

Così, infilò gli auricolari e subito dopo le note di “Breathe” iniziarono a cullarla (4).

Si era quasi assopita, quando alle 9.36 il telefono iniziò a squillare.

Diana non lo udì e non rispose.

 

(4)La canzone è di Faith Hill ed è stata uno dei successi del 2001.

Un'avvertenza che mi è stata suggerita dall'attentissimo Max_T, che ringrazio infinitamente: l'episodio cita la drammatica vicenda del volo AA77, un Boeing 757 decollato dal Washington Dulles International Airport alle 8.20 dell'11 settembre 2001 con a bordo 58 passeggeri (tra cui cinque dirottatori) e sei membri dell'equipaggio. Il volo, diretto a Los Angeles, si schiantò alle ore 9.37.46 sulla facciata ovest del Pentagono. Come sapete, tra Los Angeles e Washington c'è una differenza di fuso orario di tre ore in avanti, ma per mantenere unitaria la linea temporale della storia ho scelto di usare comunque il fuso orario di New York, anche per rispettare una cronologia unica degli avvenimenti storici, visti dal luogo che ne fu epicentro.
  
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