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Autore: TangerGin    24/06/2013    9 recensioni
"2003 - Lorraine Welsh è una di quegli esemplari di essere umano che dimostrano che la teoria darwiniana dell’evoluzione è vera: adesso non vige più la legge del più forte, ma del più affascinante. Del più scaltro. E lei è la più affascinante e la più scaltra ragazza di tutto il Cheshire. E sa perfettamente di esserlo."
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2010 - Sette anni dopo Harry torna tra le mura di quella scuola, di quell'inferno che lo ha costretto per quattro, lunghi anni. E rincontra la Regina di quell'inferno: Lol Welsh.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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~ IX ~

NDA: lo so lo so lo so, sono imperdonabile. Ho fatto passare quasi due mesi dallo scorso capitolo. Spiegherò tutto meglio in fondo, ma volevo giusto fare un riassuntino a inizio per chi si fosse dimenticato a che punto eravamo e giustamente gli fa fatica rileggersi l'altro capitolo: sono passati 3 anni dall'ultimo incontro tra Harry e Lol, lui è caduto in depressione e non riesce più a scrivere, la sua vita pare essere ridotta a pezzi. Nel momento in cui inizia a riprendersi riceve però una misteriosa lettera da Holmes Chapel, che apre una ferita nel suo cuore.

 

 

Il rimbombo dei passi che procedono decisi lungo la navata, l’odore pungente dell’incenso che si insinua prepotente nelle narici, e quel velo freddo che mi percorre la schiena, dalla nuca fino ai talloni, tipico di quando varco questi luoghi.
Non amo le chiese. Non le sopporto proprio, ad essere sinceri, e non capisco perché Dio dovrebbe apprezzare dei luoghi così tetri, austeri, lontani da tutto ciò che è vita, è sentimento.
Continuo a fissare la punta delle mie scarpe lucide nere, mentre attraverso quel pavimento in dura e fredda pietra grigia, quando sento il mio nome bisbigliato da una voce che conosco bene. Alzo lo sguardo, e quasi sorrido nel trovare gli occhi cristallini di Louis, che mi fanno cenno di prendere posto al suo fianco.
Mi siedo accanto a lui, all’estremità della panca in legno scuro di mogano, abbandonando le braccia lungo i fianchi. Mi allento un po’ il nodo della cravatta, che sembra incredibilmente stretto, quasi come a volermi soffocare, e chiudo gli occhi, inclinando la testa all’indietro. Adesso, senza un apparente motivo, inizio a sentire caldo.
«Haz, vecchio mio, come stai?» mi chiede l’amico alla mia destra. Apro gli occhi, fissando il soffitto solenne che ci sovrasta, caratterizzato da alte arcate gotiche, quindi vado a posare il mio sguardo stanco su Tommo. Non gli rispondo, mi limito ad una scrollata di spalle. Lui sa già perfettamente come mi sento ma, dopo quasi un anno che non ci vediamo, è normale fare una domanda del genere, nonostante l’occasione implichi già che no, non sto bene.
Una ragazza alta e molto magra si siede al suo fianco, sussurrandogli qualcosa all’orecchio, per poi posargli l’esile mano sul ginocchio e sorridere. Lui unisce la sua mano più possente a quella della ragazza, andando ad intrecciare le dita, e poi si volta nuovamente verso di me.
«Ecco, Harry, avrei preferito fartela conoscere in un’altra occasione, ma… lei è Eleanor» dice sottovoce, spostandosi un attimo in modo che io possa vedere bene e salutare la ragazza al suo fianco. Mi ha già parlato di lei, da un sacco di tempo: l’ultima volta che lo beccai, quasi per caso, a Londra, aveva già perso la bussola per questa ragazza quindi direi che si frequentano da più di un anno. Un record, contando i precedenti di Tomlinson. Lei è composta e molto educata, i capelli castani raccolti in un’alta crocchia, il vestito nero che le va un po’ largo cade comunque in modo assolutamente grazioso lungo le linee sottili del suo corpo.
Bel colpo, Louis, mi ritrovo a pensare, e lo invidio. Invidio la luce magnetica che si rifrange nei suoi occhi ogni qualvolta lei gli parla, o gli rivolge un gesto di affetto. Invidio i sorrisi ricolmi di amore che lei gli dedica, perché non sembra sorridere solo con le labbra, ma sembra che quella gioia, quella felicità – che stonano così tanto con l’ambiente in cui ci troviamo – lei riesca a provarle con ogni singola cellula del suo corpo.
Discosto lo sguardo da loro, cercando di ignorare anche la fitta all’altezza del petto che sembra distruggere, con una lentezza sadica, ogni costola che tiene salda la mia cassa toracica; e tento di non far caso anche al conseguente senso di oppressione, all’aria che sembra essere sempre meno, all’ansia che invece mi pare che si faccia strada inesorabile lungo ogni vena ed arteria. Discosto lo sguardo, e mi perdo in tutto quel nero, mi perdo tra quelle teste chine, tra quei sussurri, tra quegli occhi tristi.
In realtà i miei occhi non sono persi, stanno solo cercando la loro stella cometa.
E come nel migliore dei film (o nel peggiore, a seconda dei punti di vista) intravedo i suoi capelli biondo grano compostamente raccolti in una lunga treccia, con un fiore bianco incastonato tra la trama fine dei capelli: un punto di luce, di vita, in quell’incubo. Pian piano le costole iniziano a saldarsi nuovamente tra loro, il sangue lava via l’ansia, il cuore inizia a riacquistare un battito regolare. Mi è bastato intravederla, per capire che non esiste morte, se lei è presente nella stanza.
 
«Anjelica è stata una donna straordinaria, ma prima di tutto è stata una grandissima insegnante: lei stessa, se doveva definirsi, si considerava prima insegnate, e poi donna. Anjelica è stata un’eroina silenziosa tra le spesse mura del St. Martin college, era un’amica ed un’ancora per tutti noi studenti che siamo passati sotto il suo sguardo dolce ma severo. Era una fonte inesauribile di buoni consigli e soprattutto, come molti di voi ricorderanno, di deliziosi biscotti al burro e cannella – abbasso lo sguardo sul fogliettino sul quale ho segnato quei pochi punti, mentre un brusio e qualche sorriso si levano dalla folla mesta che mi sta fissando, seduta sulle panche – in poche parole Anjelica era una madre e una nonna, con tutti i lati positivi e negativi che questi ruoli ricoprono. E, non me ne vogliano gli altri professori, ma non credo che ci sarà mai nessun insegnante al suo livello: lei ha dato tutta la sua vita a questo lavoro, tant’è che potremmo dire che non c’era ormai più distinzione tra vita e lavoro stesso. E lei adorava il suo lavoro così come adorava la sua vita, e quindi, per Anjelica, vi chiedo di mettere da parte le lacrime, vi chiedo di provare a sorridere: lasciamola andare con un raggio di quel sole che lei amava tanto».
Un applauso composto ma deciso segue la fine del mio discorso, e non riesco a fare altro che cercare quelle iridi nocciola, tra i tanti sguardi che adesso sono puntati su di me.
Le cerco, e le trovo, ancora lucide ed un po’ arrossate dal pianto, ma che mi sorridono, come la professoressa Johnson avrebbe voluto vederle sorridere: non è una smorfia costretta, è un’esplosione di gioia incontrollabile, è sincerità, è complicità.
E’ tutto ciò che desideravo ritrovare in quello sguardo, è tutto ciò che ho cercato instancabilmente per tutti questi anni. E mi rendo perfettamente conto che dovrei essere triste, ma aver ritrovato i suoi occhi e averle donato uno spiraglio di luce mi scalda e mi gonfia il petto di un sentimento tenero, tiepido, quasi liquido.
L’applauso continua a seguirmi mentre scendo dal leggio e vado a prendere posto di nuovo accanto a Louis, mentre qualche pacca sulle spalle, e qualche stretta di mano mi accompagnano. Gesti futili e vuoti, perché è solo un gesto quello che ho impresso nella mente, in questo momento: il suo sorriso.
«Gran bel discorso Styles – mi dice Tommo, stringendomi la mano – credo che tu sia l’unico che sia riuscito, con una manciata di parole, a far sorridere una folla ad un funerale, sai?»
Sorrido a mia volta, senza dire niente, mentre altri ex alunni della professoressa si susseguono, volendo lasciare il loro ultimo saluto alla bara chiusa: c’è chi lascia attorno dei libri, chi scatole di biscotti, chi ancora lettere, fiori, baci.

E allora mi rendo conto del fatto che la professoressa Johnson davvero non c’è più.
Che la sua voce gracchiante si è persa nell’aria con il suo ultimo respiro, che i suoi occhi vivaci si sono spenti, che l’odore di naftalina misto a quello di cannella della sua casa pian piano andrà disperdendosi per poi scomparire del tutto. Eppure, nonostante io abbia piena coscienza del fatto che lei, e con lei una parte importantissima della mia vita, se ne sia andata per sempre, non sono triste: penso a quegli occhi anziani, nascosti sotto le mezzelune dei suoi occhiali, e li vedo sorridere con me, e con Lorraine. Dopotutto, lei ha sempre cercato di farci ragionare, ma noi eravamo troppo giovani e cocciuti. Adesso si prenderà la sua rivincita.
Aiuto a portare fuori la bara, assieme a Zayn, al vecchio preside Goldberg, e a qualche altro ex alunno che non conosco. E’ una bellissima giornata primaverile, il che ha un che di miracoloso considerate le passate settimane di pioggia ininterrotta: lo interpreto come l’ennesimo segno e saluto della professoressa, che se n’è andata lasciandoci un tiepido sole.
Adagiamo la piccola bara in legno chiaro nel carro funebre, mentre la folla composta di persone ci segue, con solennità. Lascio un bacio leggero, con la mano, sulla superficie liscia della cassa, sorrido e mi accuccio davanti a quel legno, quasi come se potessi parlarle ancora «Lo so che avevi programmato tutto, vecchia volpe» sussurro, cercando di far sì che le mie parole attraversino le fibre spesse, e appoggio quindi la fronte contro il freddo legno.
E’ l’ultimo saluto ad una delle donne più importanti della mia vita.

 
Guardo il carro funebre allontanarsi dalla chiesa, seguito dalle auto dei familiari della professoressa, lo sguardo perso nel fissare la strada davanti a me. «Hanno organizzato una specie di veglia funebre, nella hall della scuola, se ti va di venire. Mi sono dimenticata di accennartelo, nel telegramma»
Come un lampo, sento la sua voce morbida, e chiudo gli occhi, come per assaporarne ogni suono, ogni inflessione, lasciando che quelle parole mi penetrino fino al cuore. Mi volto, e la trovo davanti a me, piccola, fragile ma assieme inflessibile e decisa, come era un tempo. Mi trovo davanti i suoi occhi stanchi, ma non sono rassegnati, come l’ultima volta che li ho incrociati, tre anni fa. Sono pieni di speranza, sono risoluti.
Annuisco, mentre mi sistemo il bavero della giacca «In teoria dovrei tornare a cena dai miei, sai non li vedo da un sacco…» le rispondo, tentando di instaurare una conversazione impacciata.
Lei sorride, tranquillamente, scrolla le spalle e aggiunge un «Non ti preoccupare. Se ti cambi idea, noi siamo là» quindi gira i tacchi e vola dentro ad un macchinone nero. Non ho nemmeno il tempo di dirle nulla, di chiederle come sta: lei è sfuggente, come sempre.
Sono bloccato davanti alla chiesa, guardandola sfrecciare via verso il college, e valuto la sua proposta.
Devo considerare ogni fattore in gioco, come il fatto che lei ormai ha un marito e una vita, qua ad Holmes Chapel, e sembra addirittura felice o, per lo meno, serena. Quel sorriso che mi ha regalato prima, in chiesa, adesso mi pare come un piccolo dono celato, qualcosa che dovrebbe restare tra me e lei, segregato in quell’attimo. Forse, andare a quel ricevimento non è una buona idea: considerati i precedenti, ogni volta che ci troviamo faccia a faccia ne usciamo con cuori sbrindellati, e da ricucire con fatica. Senza contare che, se da una parte lei pare aver trovato la sua stabilità, io sono ancora barcollante.
Tuttavia, nonostante ci siano migliaia di motivi logici e sensati per evitare di andare a quella veglia, nonostante abbia soppesato ogni dettaglio ed i contro battono alla stra grande i pro, inforco senza pensarci due volte la piccola auto di mia mamma, che mi ha prestato per questi giorni, e mi lascio trasportare dal cuore verso quelle solite, dannatissime, mura in mattone bruciato.
 
Freno quasi all’improvviso davanti al familiare cancello in ferro battuto, cercando di trovare posto per la macchina, tra le tante già parcheggiate. La lascio incastrata tra un grande suv bianco, ed una volvo nera: tutte macchine lussuose che mi fanno già intuire chi troverò al ricevimento. La luce del giorno sta già cominciando ad affievolirsi, lasciando che un caldo arancione abbracci ogni facciata del college, rendendolo ancora più rosso e fiammeggiante.
Quando entro nella grande hall della scuola, vedo subito una gigantografia della professoressa Johnson, circondata da fiori e lettere. Sorrido istintivamente nel trovare il suo sguardo buono, in quella foto, e nel notare quanto fosse amata, da tutti: la sala è gremita di gente, e l’atmosfera è decisamente più leggera e serena rispetto al funerale in chiesa. Una musica classica ma allegra aleggia nella stanza, e incrocio più volte occhi che ricordo, dagli anni del liceo: saluto con la mano Zayn, che è preso in una fitta conversazione con Louis, mi intrattengo in qualche chiacchiera con Niall, che deve ripartire subito per l’Italia, ma nel frattempo continuo a cercarla.
Ma niente, nessuna traccia di Lol, né dei suoi capelli fini, né dei suoi occhi vivaci, men che meno della sua voce delicata e decisa. Mi arrendo all’evidenza che lei non è lì e forse, penso, questo è solo un bene.
Mi avvicino rassegnato al bancone delle bevute, ed inizio a versarmi del vino bianco fresco, in un bicchiere basso, da acqua. Non ho mai sopportato bere dai calici, sono troppo fragili. Mentre prendo un sorso di quel liquido dorato, lasciando che l’alcool vada a pizzicare lievemente lungo l’esofago, sento qualcosa andare a sbattere contro la mia gamba. Allarmato, abbasso lo sguardo, stando attento a non rovesciare il contenuto del bicchiere, e mi ritrovo faccia a faccia con un marmocchio di più o meno tre, quattro anni, che mi fissa impaurito e preoccupato: i suoi occhioni scuri iniziano a diventare lucidi, preannunciando un’imminente catastrofe di pianto.
Lascio velocemente il bicchiere sul tavolo e mi accoscio al suo livello, per cercare di rassicurarlo «Ehi, ehi, non è successo nulla! Ti sei fatto male, piccolo?» gli chiedo, cercando di avere un tono di voce il più dolce possibile. Non sono mai stato un asso con i bambini, figuriamoci di quest’età. Lui annuisce, titubante, e sussurra uno “scusa”, cercando di ricacciare indietro le lacrime, forse confortato dal fatto che io non mi sia affatto arrabbiato. Gli scompiglio con una mano la folta chioma di capelli biondi ribelli, mentre lui mi sorride, e improvvisamente mi sembra di riconoscere quelle labbra infantili.
«Ah eccoti qua, finalmente! La smettiamo di scappare, eh?» e quella voce che ormai potrei riconoscere tra milioni fa alzare lo sguardo sia mio che del bambino, il quale allunga le braccia verso Lorraine, per farsi prendere in braccio. Lei sospira, assecondando la richiesta del piccolo «Quindi alla fine ce l’hai fatta a venire» dice poi, rivolgendosi a me, ma senza guardarmi negli occhi. Io annuisco, riprendendo in mano il bicchiere che avevo posato poco prima «Sì, ma tra poco devo andare, sai come sono fatte le madri…» rispondo, prendendo un sorso di vino, cercando di trovare un modo per rendere quella situazione meno imbarazzante, ma non riesco a fare a meno di guardare quello scricciolo di bambino che ora sta giocherellando con il suo lungo orecchino sinistro. Lei ride, con quella risata squillante di sempre «Ah beh, lo so fin troppo bene, visto che ormai mi sono unita al club» replica divertita, accennando al piccolo che tiene ancora in braccio.
Dovevo immaginarmelo, dopotutto.
Solitamente, sposarsi è sinonimo di voler iniziare una vita ed una famiglia assieme, quindi sono stato per l’ennesima volta uno sciocco a non pensare a questa eventualità. E guardarla mentre lo tiene in collo con una naturalezza quasi disarmante, mentre gli sistema i capelli lontano dalla fronte per poi lasciare un bacio leggero sulla pelle liscia del bambino, mi spiazza, mi disarma completamente. E’ talmente bella, brillante e completa, con quel bimbo tra le braccia, che vorrei solo scappare, per non rischiare di rovinare quel quadro pressoché perfetto.
«Sono contenta che tu sia passato – sospira lei, lasciando poi il figlio a sedere sul tavolo – sono certa che Anjelica ti avrebbe voluto qua» conclude poi, come se avesse letto nel pensiero tutti i miei dubbi.
Io annuisco, incapace di trovare qualcosa di decente da dire.
Nel frattempo, una donna anziana si avvicina, sorridendomi composta, per poi rivolgersi alla ragazza «Lol, senti, io vado a casa… porto con me Eddie e lo metto a letto, okay? Così puoi stare un altro po’ qua…»
«Grazie mille mamma – risponde lei, annuendo, per poi prendere di nuovo in braccio il bimbo, andandolo a fissare negli occhi – Ed, adesso te vai a casa con la nonna, d’accordo? Mi raccomando, non fare le bizze, altrimenti domani niente cartoni, intesi?» il bimbo sbuffa, lasciandosi prendere in collo dalla signora, e ci saluta poi ad entrambi con la piccola mano.
«Sì, lo so, sei shoccato» dice lei, spezzando quel silenzio, ed iniziando a versarsi del vino rosso.
«No, cioè, sì…nel senso… hai un figlio».
«Arguto come sempre, Harry Styles!» mi sbeffeggia lei, appoggiandosi contro il bordo del tavolo.
Sospiro, mandando gli occhi al cielo. Non è possibile che io perda ogni capacità di parola e di controllo, quando sono assieme a lei «Ah-ah, molto spiritosa. Insomma, quello che volevo dire è che non me lo aspettavo, ma in teoria era prevedibile, no?»
Lei si stringe nelle spalle, staccando le labbra fini dal bicchiere «In realtà la cosa è più complicata di quanto sembri. E con questo non voglio dire che Edward sia stato uno sbaglio, al contrario è la cosa migliore che mi sia mai capitata, però è più difficile di quanto avessi mai immaginato e sperato».
Pragmatica, come al solito. Devo cavarle le parole di bocca, per riuscire a sapere qualcosa di più. Devo, come sempre, farle domande, piegarmi al suo gioco, ed è un gioco che mi affascina, nonostante mi veda da sempre sconfitto.
Soppeso ogni sua parola, cercando di leggere tra le righe. E mentre ripeto quelle parole, cercando di scovarci quel qualcosa che non vuole ancora rivelarmi, il mio occhio cade sulla sua mano sinistra, su quell’anulare sul quale mi aspettavo di trovare sigillato da una fede.

 

 

 

Ok, mille scuse non basteranno mai, ma ci provo lo stesso. (SCUSA SCUSA SCUSA SCUSA SCUSA SCUSA SCUSA) x 1000. Mi scuso non solo perchè ovviamente ho smesso di postare capitoli da mesi, ma soprattutto perchè sono totalmente scomparsa nel nulla, ho smesso di leggere le fanfic, e mi sono praticamente dileguata da efp e da twitter. E' un periodo decisamente incasinato: ho iniziato il tirocinio che mi vede occupata tutti i giorni fino a tardi, sto anche studiando per uno dei due ultimi esami che mi mancano prima della laurea, e per di più il mio pc si è rotto... insomma, tanti bei fattori che sommati mi hanno portato ad allontanarmi dal mondo delle fan fictions.
Però a me dispiace, perchè amo scrivere, nonostante magari non l'abbia dimostrato, con questo mio "abbandono". Amo scrivere ed amo leggere e leggervi, quindi mi scuso con tutte le ragazze che ero solita leggere e recensire ;_; mi dispiace davvero un sacco, e sto facendo del mio meglio per recuperare le vostre storie.
Insomma, venendo alla storia, nessuno si ricorderà più una beneamata mazza ahahahahahah per questo ho messo un riassuntino all'inizio, mi sembrava consono... per il resto, mi scuso per la brevità e la schifezza del capitolo :|  non scrivere per quasi due mesi fa perdere "la mano", infatti non sono assolutamente soddisfatta di questo coso :/// Tuttavia, dato che ci stiamo avvicinando alla fine, cominciano a succedere cose più succulente: Lorraine è madre, di un piccolo adorabile pargoletto con un nome, diciamo PARTICOLARE (qualcuna di voi l'ha notato? :3) ma... non ha la fede! TA DA DA DAAAAAAAAAAAAAAAN ahahahahahah insomma, Liam??? Si scoprirà nella prossima puntata xD Che, spero, arriverà prima del previsto, o per lo meno non ci metterò un mese e mezzo xDDDD Adesso vi saluto, che devo pure prepararmi per uscire, allegria -____-  
Mi siete mancate un sacco ;_; ♥ scusate ancora ♥
xx Gin~

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