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Autore: Yoko Hogawa    26/06/2013    14 recensioni
Finalmente il velivolo si alzò. Prese quota lentamente, con le case e le persone che diventavano sempre più piccole, e quando fu arrivato abbastanza in alto da riuscire a vedere il Tamigi e il London Bridge, l’elicottero virò verso ovest e cominciò ad allontanarsi dalla città.
In lontananza, all’orizzonte, una linea aranciata presagiva l’alba ormai prossima. E mentre si lasciavano alle spalle la capitale del Regno Unito, Sherlock sentì suo padre appoggiare le labbra sulla sua testa e sussurrare alcune parole.
Non le capì. Ma gli sembrò che somigliassero a “Dio, perdonami”.
Londra, 7 Luglio 2013.
I posteri avrebbero ricordato questo giorno come una delle più grandi tragedie dell’umanità.

[SciFi][military!AU][dystopia!AU][post-apocalyptic!AU (circa)]
Genere: Azione, Science-fiction, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Lestrade , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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_____Due_____
CRYSTAL LONDON

 
 
 
 
 
 
 

Quattordici anni dopo,
Agosto 2027

 
 
John spalancò gli occhi al suono della sveglia comune, il solito motivo a tromba e tamburi che sentiva da più di due anni. Come tutte le mattine storse il naso e richiuse di scatto le palpebre, pregando un Dio in cui nemmeno credeva di dargli l’occasione di dormire qualche minuto in più. Inutilmente, ma era sempre bello illudersi, in una vita come quella.
Sentì i suoi commilitoni muoversi nelle brande accanto alla sua, lungo la fila di dieci letti che la sua squadriglia occupava in quella camerata, e capì che non avrebbe più potuto riposare oltre. In meno di dieci minuti sarebbe entrato il Sergente Maggiore per il controllo del mattino e doveva rifare la branda prima del suo arrivo.
La vita dell’Accademia Militare aveva i suoi ritmi ed erano tutti scanditi da un preciso e puntualissimo programma.
Chi non lo rispettava, era punito. Chi si opponeva alle punizioni, veniva cacciato. Se venivi cacciato non c’erano seconde possibilità là fuori: i cadetti erano uomini che si erano volontariamente arruolati per fare i soldati e soldati dovevano diventare, punto. Fallire l’addestramento non faceva altro che portare disonore e nessuno, a Crystal London, assumeva per un lavoro onesto un uomo marchiato dal disonore. Era più facile finire in mezzo ad una strada come i barboni o darsi al crimine organizzato, e dunque diventare preda di quelli che anni prima erano stati tuoi commilitoni, o addirittura tuoi amici.
Non c’era posto per gli scarti, in quel mondo.
John frequentava l’Accademia da due anni ed era ormai vicino al giorno del Giuramento. Avrebbe potuto diplomarsi entro un anno se avesse scelto di entrare nella Guardia Cittadina, Barghest, come quasi tutti decidevano di fare, ma lui aveva da sempre avuto un altro obbiettivo.
Alicanto.
La Squadra di Ricognizione e Recupero era ciò a cui aveva puntato dal momento in cui era stata istituita, circa due anni dopo l’Alba d’Argento e un anno dopo la costruzione di Wall Elizabeth, la muraglia alta cinquanta metri che ora sigillava il centro e la zona settentrionale della vecchia Londra.
Da Clapham fino a Turnham Green a ovest, tagliando a metà Canary Wharf a est, estendendosi a nord verso Stratford, Tottenham, Turnpike Lane, Finchley, Hampstead, Willesden, e Acton. Chilometri e chilometri di muraglia costruita in fretta e furia sacrificando ogni grammo di ferro e ogni mattone, utilizzando impedimenti naturali pre-esistenti, inglobando case e costruzioni, palazzi e musei, con un numero impressionante di perdite fra i costruttori, fra i quali anche ragazzi appena maggiorenni. Per costruire Wall Elizabeth erano state abbattute le abitazioni circostanti e utilizzati fino all’ultimo dei materiali edili che esse potevano fornire, con il risultato che i quartieri che si erano salvati dall’esplosione erano stati rasi al suolo per opera dell’uomo.
Tutto, pur di difendersi dalle bestie.
Mesi dopo quello che era stato chiamato, a ragione, l’Esodo, il Governo era crollato e il potere era passato definitivamente in mano all’Esercito. Era stata istituita una Monarchia Militare e mentre i londinesi sopravvissuti si stabilivano nei territori a sud della città, occupando la zona di Sydenham Hill e ricostruendo il vecchio Crystal Palace1 come nuova abitazione della famiglia reale, il regime appena sorto aveva adottato una politica di trasparenza (poi presto dimenticata) e aveva messo al corrente la popolazione di cosa fosse realmente accaduto alla città.
Nelle segrete sotto il London Bridge, costruite in tempi antichi ed utilizzate negli ultimi anni come base si ricerca scientifica sul potenziale della nano-meccanica cellulare, un reattore di contenimento era esploso facendo letteralmente sprofondare il centro città e liberando nell’aria quella che fu ribattezzata “La Nube”, ovvero un insieme di Nanomacchine delle dimensioni di una cellula – o poco più – che attaccarono ogni forma di vita sul loro cammino, trasformandola in... qualcos’altro.
Mutando. Dilaniando. Creando incroci genetici improbabili fra animali e uomo, fra insetti e mammiferi, fondendo e modificando, scatenando il caos, sconvolgendo l’ordine naturale delle cose. Le bestie così mutate non avevano alcuna umanità, alcun sentimento, alcuna ragione: erano tornate ai primordi dell’evoluzione, dove la caccia era sopravvivenza, dove il forte trionfava sul più debole. Secoli di evoluzione e cultura spazzati via nel giro di ventiquattrore. Esseri che un tempo erano stati uomini ora attaccavano altri uomini per mangiarseli.
E crescevano, mutavano, evolvevano.
Fu il Regime a ordinare la costruzione di Wall Elizabeth a protezione del nuovo insediamento, successivamente nominato Crystal London. Una città dove da subito i ricchi ebbero molto e i poveri ancora meno di prima.
Il concetto di libertà divenne relativo, quello di giustizia arbitrario. Ogni abitante della città che non aveva nazionalità inglese fu espulso, quelli che la possedevano furono marchiati con un codice a barre sul collo, un numero di serie che identificava ogni essere vivente in ogni luogo andasse.
A quartieri ricchi e lussureggianti si alternavano zone della città puntellate di condomini di venti piani coperti da una nube perenne di smog, dove le persone vivevano in appartamenti tutti uguali in una struttura a nido d’ape. Intorno ad essi, poi, si formò quella che l’opinione pubblica – sempre che ne esistesse davvero una – chiamava “il Bassoborgo”, ovvero una serie infinita di piccole casette a schiera una di fianco all’altra, sottili e basse, sfruttanti ogni metro quadro possibile, in cui gli abitanti vivevano pressati come sardine in mezzo al cemento e senza un briciolo di verde.
John era cresciuto in una di quelle case.
Si era arruolato per rabbia, principalmente, ma anche per necessità. Aveva venduto la sua vita all’Esercito per sfuggire da un quartiere piccolo e malfamato, da una casa in cui sua madre era morta piangendo e sua sorella viveva nell’acool, da un angolo di una città che non ricordava nemmeno vagamente lo splendore della vecchia Londra, le sue vie pulite e serene, i suoi parchi verdi e rigogliosi. Un’immagine che gli era mancata per tutta la vita come gli era mancato suo padre, morto per farli fuggire.
Probabilmente, se avesse potuto prevedere dove sarebbero finiti, avrebbe lasciato che la sua famiglia morisse con lui.
Il Regime rifiutò ogni aiuto dalle città confinanti e obbligò i cittadini a rimanere all’interno di Crystal London riempiendone il perimetro di sensori a infrarossi che avrebbero rilevato ogni codice a barre in transito oltre il confine, attivando così le armi di difesa. Dispiegò poi gli Huginn, la Squadra di Difesa, in avamposti su ogni strada e ogni ponte di confine con l’ordine di sparare a vista.
A prezzo della morte, gli abitanti furono rinchiusi in trappola.
John odiava quella città. Odiava tutto, di quella città. L’aria intrisa di umidità, la perenne nebbia scura che circondava il Bassoborgo, la politica restrittiva del Regime e la casata reale stessa, specchio per le allodole di un popolo che non aveva rimasto niente in cui credere. Odiava l’Alba d’Argento e chi l’aveva provocata. Odiava non esserci nato, a Crystal London, perché se non avesse avuto ricordi della vecchia Londra, dei primi sette anni della sua vita passati giocando nel parchetto dietro casa, probabilmente quel disfacimento sarebbe stato più facile da tollerare.
Invece niente. Doveva cercare nel rancore la ragione per andare avanti, la ragione per non distruggersi (come da anni tentava di fare sua sorella vivendo nella miseria).
Sospirò mentre rifaceva gli angoli al lenzuolo, sistemando poi la coperta sopra di esso. Attraversò la stanza verso il proprio armadietto, esattamente di fronte al letto, aprendolo e tirandone fuori la divisa da cadetto che indossò velocemente, con movimenti abituali e precisi, attento che ogni bottone fosse al proprio posto e non ci fosse la minima piega. Maglietta bianca di cotone, pantaloni e stivali neri, blusa bianca a collo alto. Fissò la spilla a forma di croce rossa, simbolo che dimostrava la sua appartenenza all’Ordine dei Medici, sulla parte sinistra del petto, sopra al cuore, con mani ferme. Una volta terminato, tornò ai piedi della sua branda e rimase lì, pronto a scattare sull’attenti al comando dei superiori.
Gli studi dell’Accademia duravano in media due anni e si dividevano a seconda della squadra operativa per la quale il cadetto faceva domanda all’atto d’iscrizione. La squadre erano in tutto quattro.
La maggior parte dei cadetti faceva domanda per Barghest, la Guardia Cittadina. Con il simbolo di una testa di lupo nero sul gagliardetto, era quella che poteva essere paragonata alla vecchia polizia. Se si era abbastanza fortunati (e abili) si poteva essere mandati nei quartieri alti e, di conseguenza, migliorarsi notevolmente la vita. Era l’unica squadra per la quale era previsto un solo anno di addestramento e quelli che non riuscivano ad entrarvi, perché dichiarati non idonei o con voti insufficienti, venivano fatti forzatamente proseguire per un altro anno, in modo da entrare in una delle altre tre squadriglie.
Ifrit, la Guardia Reale, era quella più segreta. Nessuno sapeva davvero in cosa consistesse il loro lavoro ma vi venivano ammessi solo coloro che avevano ricevuto i voti più alti in tutti i corsi. Ergo, le persone accettate in Ifrit erano sempre pochissime per anno. Il loro stemma era una fiamma dentro una corona d’oro.
Gli Huginn, chiamati anche “Ultima Difesa” o “Corvi”, erano la squadra incaricata di proteggere il perimetro esterno della città sia da chi cercava di entrare sia da chi cercava di uscire. Venivano specificamente scelti tra le persone più brutali e insensibili dell’Accademia. Il loro stemma rappresentava un paio d’ali nere incrociate verso il basso.
Per ultima Alicanto, la Squadra di Ricognizione e Recupero. Un gruppo di uomini che venivano mandati all’interno delle mura della vecchia Londra per recuperare dati e ricerche tenuti al sicuro nelle altre filiali del laboratorio di ricerca di London Bridge. Il loro stemma erano un paio d’ali, una d’argento e una d’oro, incrociate verso l’altro.2
John desiderava far parte di Alicanto da quando aveva compiuto dieci anni. Il suo desiderio più grande era rimettere piede a Londra e uccidere qualunque creatura li avesse attaccati, rivedere la sua città anche se in rovina, ricordare com’era vivere liberi.
Forse così avrebbe superato il rancore e placato la sua rabbia. Forse.
La porta della camerata sbatté con un forte tonfo e tutti i soldati, ormai vestiti e con le brande rifatte, si posizionarono ai piedi dei letti. Il capofila diede l’attenti e loro, sbattendo i tacchi e alzando i menti, guardando fisso avanti a sé.
Il Sergente Maggiore Lafayette entrò a passo lento ma pesante, la sua solita espressione impettita nella divisa nera da soldato con il colletto alla coreana, i gradi scintillanti sotto le luci al neon. Molti cadetti dicevano che passasse buona parte del suo tempo libero a lucidare i suoi gradi e John non poteva essere più d’accordo.
Lafayette poteva essere molto stronzo ma anche molto svogliato. Quella mattina sembrava un pericoloso misto dei due, dato che schioccò le dita invece di parlare per ordinare al sottoposto che lo seguiva di estrarre il verificatore olografico.
« Oggi è giorno di conta, cani dell’esercito » cominciò scocciato, mettendosi i guanti di pelle come se l’esistenza di ogni singolo soldato in quella camera non fosse minimamente affar suo: « vediamo se siamo tutti presenti o qualcuno se l’è svignata senza avvertire » concluse. Alzò poi il volto, fissando a caso uno di loro, prima di gridare: « IN GINOCCHIO! ».
I cadetti, automaticamente, si inginocchiarono sul ginocchio sinistro.
« Fate vedere i vostri collari » sghignazzò Lafayette.
I cadetti, John compreso, piegarono il volto verso sinistra per mettere in mostra il codice a barre, inciso sulla pelle appena sotto l’orecchio destro. Il sottoposto, quando tutti furono in posizione, cominciò a passare uno ad uno gli aspiranti soldati, facendo scorrere il laser del verificatore – un piccolo apparecchio bianco simile ad un portacipria – e attendendo la conferma del nome che automaticamente appariva sul piccolo schermo olografico che l’oggetto proiettava.
Quella era routine almeno due lunedì al mese. Alcuni cadetti che uscivano in licenza per il fine settimana – tassativamente oltre il primo anno di corso altrimenti era vietato avere licenze – lasciavano il posto a persone che non avevano superato le selezioni che si facevano passare per loro (pensavano davvero di ingannare l’Esercito in quel modo? Quando hai un numero di serie che ti identifica senza fallo su qualsiasi sistema informatico di Crystal London?) oppure tentavano, per lo stesso motivo, di contraffare i codici a barre. Inutilmente, dato che erano come cicatrici nere e non semplici tatuaggi. Avrebbero dovuto saperlo.
O almeno, forse avrebbero dovuto almeno evitare di fingere di averlo dimenticato.
Quando il verificatore arrivò a lui, la sottile linea rossa del laser ci mise poco per far comparire la sua storia sul proiettore olografico.
« Nome, cadetto? » domandò il sottoposto.
« Watson, John Hamish » rispose.
« Anno di corso e Ordine? ».
« Secondo, Ordine dei Medici ».
« Numero di matricola? ».
« Alfa-Charlie-1-2-5-6-9-Zulu ».
« Bene ».
E passò oltre. La stessa cosa si ripeté per tutta la fila finché, arrivato all’ultimo uomo, il sottoposto di Lafayette chiuse il verificatore olografico e disse a voce alta: « tutto in regola, signore ».
Lafayette annuì. « Potete andare a fare colazione, cadetti » disse poi rivolto a loro con tono di sufficienza, uscendo dalla porta a passo svelto per infilarsi nella camerata adiacente.
Per fortuna, pensò John una volta che fu libero di rialzarsi, che non tutti gli istruttori erano pomposi come lui.
 
 
La mensa era, come ogni giorno, così bianca, asettica e spoglia da far male agli occhi.
Muri bianchi leggermente ingrigiti – a causa della mano di vernice negata di cui avrebbero ben giovato – dalla polvere, lunghe tavolate d’alluminio fornite di panche che correvano lungo tutta la lunghezza della stanza, ventilatori (tre, ora fermi) che pendevano dal soffitto intervallati da lampade al neon (l’unico tipo di luce esistente in tutto l’istituto, a quanto sembrava). Sulla sinistra appena entrati, una rientranza nel muro forniva lo spazio strettamente necessario ai banconi del self-service, dove i cadetti di turno in cucina servivano per colazione, pranzo e cena sempre le solite sbobbe.
Trattenendo un sospiro esasperato, John si mise in fila con gli altri e prese un vassoio e una busta di posate di plastica da una lunga pila all’inizio del self-service. Il mormorio continuo dei cadetti già seduti ai tavoli era, alle sue orecchie, abituale e noioso come la vista delle loro divise tutte uguali.
Fu raggiunto da Mike Stamford, un suo collega dell’Ordine dei Medici, giusto prima che gli venisse posata sul vassoio una ciotola di porridge simil-colla.
« John » salutò quello, mettendosi in fila dietro di lui e passando conseguentemente avanti ad altre reclute. Nessuno si lamentò. Dopotutto, nessuno aveva fretta di mettersi in bocca quella schifezza.
« Mike » salutò John a sua volta.
« Hai già dato un’occhiata a chi proseguirà per la Specializzazione? » domandò subito quello, prendendosi a sua volta una porzione di porridge e una mela. John integrò il pasto con una tazza di tè e un paio di toast, Stamford con una bottiglietta d’acqua.
No, John non ci aveva guardato. Sapeva benissimo che sarebbero stati in pochi, e che almeno due di loro sarebbero diventati suoi compagni di squadra, ma non aveva avuto voglia di andare in giro a chiedere chi proseguisse o meno, soprattutto agli altri Ordini.
Gli anni di studio all’Accademia si dividevano in tre tappe simboliche.
Il primo anno, che era uguale per tutti, consisteva nell’insegnamento di tecniche di combattimento, antisommossa, sopravvivenza, pianificazione e uso delle armi. Ogni corso prevedeva una valutazione finale e il totale complessivo delle valutazioni decretavano non solo il livello oggettivo del cadetto, ma anche quante possibilità si potevano avere di continuare gli studi. Le valutazioni erano pubbliche e venivano appese in bacheca complete di nominativo e numero di matricola.
Superato l’anno condiviso, la maggior parte dei cadetti faceva domanda d’ingresso in Barghest, la polizia interna. Coloro che puntavano ad altro proseguivano per un altro anno ed entravano in un Ordine.
Gli Ordini erano 4: l’Ordine dei Medici, di cui faceva parte John, addestrava al primo soccorso e alla chirurgia d’urgenza e i suoi allievi erano identificati da una spilla a forma di croce rossa; l’Ordine dei Tiratori addestrava al tiro di precisione con armi da fuoco e il suo stemma era una punta di freccia; l’Ordine dei Condottieri addestrava soldati di prima linea e d’assalto preferendo le armi bianche, il suo stemma erano due spade incrociate; l’Ordine degli Strateghi, ultimo ma non meno importante, addestrava alla pura strategia d’attacco e difesa, il loro stemma era la corolla di una rosa blu.
Guardandosi intorno, John poteva vedere alcuni degli stemmi degli Ordini brillare sulla giacche degli altri cadetti.
Una volta entrato in un Ordine l’addestramento proseguiva per nove mesi, fino al Diploma di Specializzazione. Da quel momento, sia Barghest che Ifrit erano disponibili ad accettare soldati per rimpolpare le loro linee.
Ma se si voleva entrare in Alicanto o Huginn, bisognava passare altri tre mesi di addestramento intensivo e arrivare al Diploma di Abilitazione. Consisteva in un addestramento speciale e più che altro fisico di cui nessuno sapeva davvero niente, perché chi ci era passato manteneva un ferreo silenzio in proposito. Giravano solo voci di corridoio che cambiavano con le stagioni, dunque non c’era da fidarsi molto.
Ma John non aveva affatto paura.
« No, non ho chiesto » disse semplicemente a Mike, sedendosi in una zona vuota del tavolo centrale. Stamford lo imitò, sedendosi accanto a lui.
« John... forse faresti meglio ad informarti. C’è la possibilità che diventino tuoi compagni di squadra » rispose Mike.
« Lo so. È solo che non mi interessa, davvero » rispose lui, mettendosi in bocca una cucchiaiata di porridge.
Ingoiò nel più completo silenzio dell’amico e, quando rialzò gli occhi, notò l’espressione con cui lo stava guardando. La stessa di uno che non crede ad una singola parola di quello che dici o, anche se ci crede, in ogni caso crede che tu sia un idiota.
John sospirò. « Va bene, va bene. Aggiornami » si dichiarò sconfitto.
Mike lo ripagò con un rapido cenno del capo e cominciò a guardarsi intorno.
« Là, vedi quello? » disse, indicando con il capo una persona seduta ad una decina di persone da lui nel tavolo subito dietro. John si voltò e, con la coda dell’occhio, individuò un ragazzo con i capelli neri, corti e lisci tirati indietro sulla testa. Aveva gli occhi scuri, a quanto poteva vedere da quella distanza, e stava sorridendo in modo equivoco ad un paio di cadetti che stavano parlando con lui. La rosa blu appuntata sul petto lo distingueva come appartenente all’Ordine degli Strateghi.
« James Moriarty » lo identificò Mike: « mente brillante, ha preso il massimo in quasi tutti i corsi. Durante l’addestramento base con le armi ha quasi spezzato il collo di un commilitone a mani nude. Si vocifera che i Corvi lo abbiano puntato ».
« I Corvi? Dev’essere un elemento da non sottovalutare, allora... » disse John.
Mike annuì in modo grave, ricominciando però a guardarsi intorno. « Ah, eccolo là » esclamò poi a bassa voce, facendogli un cenno del capo verso una persona seduta al tavolo direttamente di fianco al loro, subito dietro Mike. « Quello con i capelli brizzolati » disse per indicarglielo.
« Sì ».
« Greg Lestrade. Era entrato nei Barghest ma ad un certo punto ha chiesto di poter tornare in Accademia ed è rientrato per proseguire gli studi, per questo ha un anno in più di noi » disse, prendendo una cucchiaiata di porridge per dissimulare disinteresse. « Si dicono cose strane su di lui. È entrato nell’Ordine dei Condottieri perché nei voti finali non è andato benissimo, ma si dice che se la sappia cavare bene nel combattimento. Pare che si sia scontrato con un... sai... mentre era arruolato in Barghest » balbettò improvvisamente Mike.
John aggrottò le sopracciglia. « Un...? ».
« Un... dai, lo sai ».
« Un mutante? » domandò Watson.
Stamford annuì. « Anche se sembra molto X-men, a chiamarli così ».
« Beato te che lo ricordi, quel fumetto » commentò Watson, arrendendosi a metà scodella di porridge-colla e sorseggiando un po’ di tè.
Quelli che il popolino aveva cominciato a chiamare “mutanti” non erano altro che i mostri che vivevano dentro Wall Elizabeth, ovvero le entità divorate e trasformate dalla Nube quattordici anni prima.
Pari, madri, bambini, animali, amanti, fattorini, pizzaioli, politici, gioiellieri, banchieri... cani, gatti, piccioni, insetti. Mutati in bestie, veri e propri incubi. Tutti. Tutti coloro che non erano riusciti a fuggire in tempo, tutti coloro che erano rimasti.
Suo padre. Nei suoi sogni, John lo vedeva mentre, con la bocca insanguinata e gli occhi bianchi, somigliante ad uno zombie e con la pelle delle braccia e del torso a brandelli, lo attaccava cercando di divorarlo.
Era per questo che i ricordi piacevoli che conservava di Londra non sortivano alcun effetto calmante, su di lui.
Non diede a vedere la sua ansia, preferendo che Mike non se ne accorgesse. « È strano per un ventitreenne avere i capelli così brizzolati » commentò distrattamente.
« Si dice che gli siano venuti bianchi per la paura » disse Mike con noncuranza.
« Io direi più che è un raro residuo genetico ».
« Quello che è » tagliò corto Mike, indicandogli un’altra persona con un cenno della mano: « la ragazza alla fine della nostra tavolata, quella con i capelli lunghi e mossi » disse.
« Irene Adler » lo anticipò John. « Ha una certa... – si schiarì la voce – ...fama ».
Stamford si espresse in un sorrisetto pieno di sottintesi che andava da un orecchio all’altro. « E bravo il nostro “Tre Continenti” Watson! » esclamò battendo le mani.
A John andò di traverso il tè. « Piantala con quel nomignolo! » esclamò a mezza voce: « questa volta non centra niente » disse.
« E allora come... ? ».
« Sono in camerata con altri nove uomini, secondo te di cosa si parla la sera? » domandò retoricamente.
« Effettivamente... » concordò Stamford: « in ogni caso, anche la Adler ha un cervello niente male, anche se è più furba che intelligente. Nei test ha preso quasi il massimo dei voti. Ordine degli Strateghi, come Moriarty. Sa molte cose che altri non sanno e tutti dicono che ha le sue fonti in mezzo agli ufficiali e agli istruttori. Sa come farsi... ben volere, non so se capisci cosa intendo ».
« Immagino di sì » commentò John.
« Ah, il ragazzo che è appena entrato. Quel colosso biondo con la cicatrice » disse Stamford.
John voltò il capo verso l’ingresso e guardo l’interessato con la coda dell’occhio. « Sebastian Moran » disse dunque, tornando con lo sguardo sul proprio vassoio: « io e lui abbiamo avuto le valutazioni più alte nel corso di tiro di precisione, so che è entrato nell’Ordine dei Tiratori » disse.
« Corretto. È anche uno dei più bravi » rispose Mike. « Ma adesso arriva la parte più interessante » aggiunse poi, indicando con la mano due persone, una ragazza e un ragazzo, seduti parecchio distanti da loro; lei, capelli castani e lunghi legati in una coda, chiacchierava imbarazzata dando loro le spalle, mentre era palese che lui, capelli ricci e corti e occhi di un azzurro tendente al grigio, le desse nemmeno la metà dell’attenzione che avrebbe riservato a chiunque altro, giochicchiando con la buccia di una mela.
« Lei la conosco » disse John: « Molly Hooper. È nell’Ordine dei Medici con me. Non sapevo che avrebbe continuato » disse.
« Lei continua perché lo fa lui » intervenne l’amico, arricciando le labbra in un sorrisetto. « Sherlock Holmes. Persona brillante, davvero brillante. Ordine degli Strateghi, ha ottenuto il massimo dei voti in tutti i corsi e supererebbe in intelligenza me e te messi insieme senza nemmeno battere ciglio. Gli unici che possono competere con lui sembrano essere la Adler e Moriarty » disse Mike, fermandosi per bere un sorso d’acqua: « ha un carattere... strano. Poco socievole, o così sembrerebbe, riesce a scoprire con chi sei andato a letto solo guardandoti. Ma la cosa più sorprendente è che è di un anno più piccolo. Ha completato il corso base in sei mesi e la seconda parte negli altri sei... è un mostro » aggiunse, guardando il diretto interessato con la coda dell’occhio. Quando però notò che John non gli aveva risposto, portò nuovamente l’attenzione sul medico. John?
Ma Watson aveva lo sguardo fisso su Sherlock Holmes. Lo osservava con le labbra strette ma lo sguardo pacato, calmo come potrebbe essere il mare prima di una tempesta.
« John? » ripeté di nuovo Mike, ora un po’ più preoccupato.
« “Holmes”... » ripeté però lui, aggrottando le sopracciglia come per ricordarsi qualcosa. « Non era il cognome di uno dei principali responsabili del sito di London Bridge? » domandò.
Stamford sussultò. « John, non possiamo parlar– ».
« Rispondi e basta ».
Mike trattenne il fiato, guardandosi attorno, poi sospirò. « Sì, lo è » affermò a bassa voce: « ma ci sono milioni di persone che portano il cognome “Holmes”... » tentò.
« Mh... è vero » ammise John.
Ma Stamford non si fermò. « Anche se fosse? John, non avrai in mente di stuzzicare quel ragazzo, vero? Vero? » domandò, parlando a bassa voce con tono agitato.
John lo fissò. « No » rispose. « Anche se fosse, non incolpo il figlio per i peccati del padre » disse.
Mike sospirò, ora molto più tranquillo. « Meno male, John. Conoscendoti... »
« Andiamo » lo interruppe però il medico, alzandosi da tavola: « il tempo per la colazione sta finendo ».
 
 

***

 
 
L’aula era silenziosa senza il vociare di decine e decine di studenti intenti a chiacchierare sommessamente prima dell’inizio delle lezioni teoriche. Era stato sempre così da che era entrato in quell’Accademia: una miriade di sussurri intervallati da risatine a labbra strette, per non fare troppo rumore senza rimanere completamente in silenzio.
Ma ora era tutto diverso.
Il giorno prima si era tenuta la cerimonia di Diploma di Specializzazione.
Nessun parente, nessun discorso commemorativo, nessuna parata, nessuna soddisfazione. Solo una lunga sfilza di nomi, un foglio arrotolato chiuso con una ceralacca e il sigillo della Famiglia Reale, il saluto e una rigida stretta di mano con l’ufficiale incaricato della consegna. Punto.
Al nuovo Governo Militare non servivano le cerimonie, i festeggiamenti (gli incoraggiamenti). Ad un uomo basta solo quello: una stretta di mano. Un cenno del capo.
John era disgustato dalla tristezza che tutto ciò emanava. Suo padre era stato un soldato e ricordava le medaglie, le foto di gruppo con i commilitoni, quelle ufficiali in alta uniforme e il sorrisetto soddisfatto sotto i baffi.
Ora certi usi non esistevano più. Cancellati con un colpo di spugna perché qualcuno, da qualche parte e ad un certo punto, si era svegliato con il piede sbagliato e aveva deciso che non serviva più. Stop.
Appena arruolato, John ci era rimasto male. Ora stava persino dimenticando l’amarezza della consapevolezza.
I raggi del sole di un mattino particolarmente clemente entravano dalle alte finestre, inondando di luce grigiastra (era il sole di Londra e almeno quello non cambiava mai) i lunghi banchi in legno disposti a gradoni dal basso verso l’alto e fiancheggiati da un paio di scalinate. La cattedra con dietro due grandi lavagne era al centro in basso, vuota, e loro in attesa del professore.
Erano poco più di 20. Fra loro, tutti quelli che Mike aveva nominato.
Oltre a lui vi era Sebastian Moran – seduto poco distante – poi James Moriarty, Irene Adler, Greg Lestrade, Molly Hooper, Sherlock Holmes.
Sherlock Holmes.
John non riusciva a togliersi dalla testa quel nome e, di conseguenza, quel ragazzo.
Teneva la testa appoggiata alle mani con i gomiti puntellati sul tavolo, al suo fianco solo Molly che sembrava non sapere se parlare o meno o di cosa, gli occhi fissi sulla lavagna ma la mente altrove.
Watson si chiese dove. Non lo sapeva. L’unica cosa di cui poteva essere certo era dove fosse la propria, di mente, ed essa era tutta rivolta al suo cognome.
“Holmes”.
Siger Holmes era stato uno dei responsabili del sito di London Bridge. Era considerato un criminale e, da quello che ne dissero i giornali prima che la libertà di stampa cominciasse ad essere un po’ troppo libera per i gusti del nuovo Governo, pochi anni dopo la tragedia si era messo una pistola in bocca e aveva premuto il grilletto.
John aveva sorriso, quel giorno. Dopo anni, e problemi, e lacrime, aveva sorriso.
“Ben gli sta” aveva pensato. “Ben gli sta”.
Oggettivamente parlando, una vita come quella di Siger Holmes dopo l’Alba d’Argento non l’avrebbe desiderata nemmeno per il suo peggior nemico. Costretto all’isolamento e a chiudersi in casa per via dei giornalisti, del Governo, della Polizia, della gente. Di quelle persone che, come John, incolpavano lui per la perdita di un padre, di una madre, di un fratello, di una sorella, di uno zio, di una cugina, di un amico... di qualcuno o qualcosa, non era importante, purché fosse perso, perso per sempre.
Crescendo, John si era reso conto di essere stato una cattiva persona. Anche quell’uomo doveva avere una famiglia. Anche lui era umano, ed essendo tale poteva sbagliare. Anche Siger Holmes si sarà pentito, si era detto una volta divenuto adulto, se ha deciso che la morte era meglio della colpa.
John aveva capito, alla fine. Ma il perdono era un’altra cosa.
Per questo non avrebbe incolpato Sherlock Holmes, se fosse stato davvero figlio di Siger Holmes. Si dice sempre che gli errori dei padri non devono ricadere sui figli, ma anche se in realtà i figli pagano il doppio John voleva essere superiore. Voleva far sì che il detto divenisse realtà.
Avrebbe giudicato Sherlock Holmes per quello che era. Poi avrebbe fatto il possibile per evitarlo.
Perché il suo rancore era davvero troppo grande.
Fu con piacere che accolse l’entrata dell’insegnante. Distolse lo sguardo da Holmes pochi istanti prima che il giovane si accorgesse del suo, così che potesse fingere che fosse un’occhiata casuale. Pulendosi la mente da qualsiasi altra cosa, prestò la completa attenzione al Sergente Istruttore.
« Buongiorno » salutò quello.
« Buongiorno signore! » risposero tutti loro all’unisono.
Quello annuì. Sembrava una persona seria, nella sua divisa scura da soldato. A John piacque subito.
« Se siete presenti in quest’aula oggi, significa che siete il meglio del meglio » disse, prendendo una piccola pausa. « Specialisti. I migliori dei rispettivi Ordini o in singole discipline degli stessi. Se siete qui, significa che i vostri precedenti istruttori vi hanno ritenuti degni di far parte delle due squadre più capaci dell’intero Esercito: Huginn e Alicanto » disse.
Le teste ritte dei cadetti si alzarono un po’ di più. John sapeva che l’Istruttore stava esponendo solo dei dati di fatto, ma soldati che non erano abituati a ricevere alcun tipo di gratificazione scambiavano facilmente quelle parole come tali.
« Nei prossimi tre mesi, il mio compito è fare di voi dei soldati degni di queste due squadre. So che nessuno vi ha mai detto in cosa consista l’addestramento, ma lo farò io oggi. Il mio nome è Darius e sarò il vostro mentore fino al Diploma di Abilitazione » disse.
Darius fece poi schioccare le dita di una mano, chiamando con quel gesto uno dei due sottoposti che lo avevano accompagnato ed erano ancora in piedi a lato della porta. Uno di loro aveva un camice sopra la divisa nera e, scendendo i gradini con cautela, porse una piccola valigetta di metallo lucente all’istruttore. Darius la prese con cura e la appoggiò sulla cattedra, aprendola.
« C’è un motivo per cui chiunque lascia questo corso speciale, o chi lo supera e diviene un soldato di Huginn e Alicanto, non parla del suo addestramento nemmeno sotto tortura. Viene loro vietato. Così come, da questo momento, è vietato a voi » disse.
I cadetti si guardarono l’un l’altro per alcuni istanti.
L’istruttore riprese a parlare piano. « Tutto per via di queste » disse, sollevando una fialetta contenente un liquido denso e color giada somigliante a mercurio.
John si irrigidì, chiudendo inconsciamente le mani a pugno e stringendo talmente forte che le unghie gli si conficcarono nei palmi. Alcuni dei suoi colleghi trattennero il fiato o si alzarono in piedi per riflesso condizionato.
Nanomacchine.
L’ultima volta che le aveva viste erano color argento, ma era indubbio che fossero Nanomacchine. Avrebbe ricordato per sempre la loro consistenza come sottilissima sabbia impalpabile, sparsa per il cielo di Londra come nebbia o come finissimi cristalli di neve.
Dopo un momento di sorpresa i cadetti ripresero il controllo e i loro posti.
Darius non abbassò la fialetta. « Le vostre reazioni sono comprensibili » disse calmo: « c’è una cosa importante da sapere per comprendere la differenza fra le Nanomacchine che causarono l’Alba d’Argento è quelle che ho in mano in questo momento. Ma cominciamo per gradi: qualcuno di voi sa dirmi in poche parole cos’è una Nanomacchina? » domandò.
Un istante di silenzio, poi una voce.
« Associato alla Nanotecnologia, si può descrivere una Nanomacchina come una costruzione sintetica di livello molecolare i cui compiti variano a seconda della programmazione della suddetta ».
John voltò il capo, associando la voce bassa e profonda a Sherlock Holmes.
Darius annuì. « Qual è il tuo nome, cadetto? ».
« Sherlock Holmes, signore ».
L’istruttore alzò un sopracciglio. « Fratello di Mycroft Holmes? » domandò.
Il ragazzo annuì.
« Non mi stupisco che tu ne sappia qualcosa, allora » commentò Darius, e John non ebbe più dubbi.
Mycroft Holmes era una sorta di politico ed era conosciuto per essere figlio di Siger Holmes. Di conseguenza, si poteva dire con sicurezza che lo fosse anche Sherlock.
Apparteneva a quegli Holmes.
John scostò lo sguardo, tornando a fissarlo su Darius. Deglutì e strinse forte i denti dietro la labbra serrate.
« Il vostro collega ha sottolineato un concetto importante: quello della programmazione » continuò poi l’istruttore: « le Nanomacchine sono, basicamente, macchine ingegneristiche costruite a livello di nanometri, cioè di dimensione cellulare. Sono come piccoli computer che devono venire assemblati e programmati a compiere un determinato compito all’interno di un organismo ospite. Usate in medicina, le Nanomacchine sono in grado di prendere il posto di cellule morte o danneggiate, di ricostruire tessuti lacerati, di sostituire processi che cromosomi incompleti o assenti hanno precluso all’organismo stesso. Quando vengono programmate, o in altre parole quando viene dato loro uno “scopo”, viene loro inserito un gene cromatico che le distingue per colore. Queste – e indicò la fialetta che aveva in mano – sono state specificamente programmate per inserirsi all’interno del tessuto muscolare delle gambe e potenziarlo, aumentandone la potenza e la flessibilità. Sono quelle che dovrete imparare ad usare nei prossimi mesi di addestramento e quelle che, fra qualche settimana, vi inietteremo » disse.
John sgranò gli occhi ma, come gli altri, non fiatò. L’idea di avere quelle... cose dentro di sé non lo attirava affatto e adesso cominciava a capire perché molti abbandonavano il corso speciale senza diplomarsi. Ma lasciò da parte le perplessità quando l’istruttore continuò il discorso.
« Il loro colore di base è l’argento. Quelle che hanno reso Londra inabitabile, tanto per capirci, erano Nanomacchine appena formate e non ancora programmate, che spargendosi nell’ambiente ed entrando in contatto con gli esseri più disparati hanno cominciato ad evolvere per conto proprio e copiare funzionalità di cellule già esistenti. I risultati sono state le mutazioni, come tutti voi sapete, e la successiva evacuazione della parte della città interessata dalla Nube sprigionata dal reattore di contenimento esploso » spiegò.
Questo non lo rendeva più tranquillo sulla prospettiva non solo di entrare in contatto con le Nanomacchine, ma di averne alcune addirittura dentro di sé. Erano davvero sicure, una volta programmate? Non avrebbero potuto avere reazioni varie con le cellule dei loro corpi come aveva detto l’istruttore? Il dubbio serpeggiava anche sui volti dei suoi colleghi e, forse notandolo, Darius decise di proseguire il discorso.
« Capisco i vostri dubbi. Ed è giusto che vi avverta che l’operazione di inserimento delle Nanomacchine nei tessuti muscolari delle vostre gambe non sarà né indolore né priva di rischi. Servono 24 ore per impiantarle, durante le quali sarete completamente anestetizzati e tenuti costantemente in un sonno profondo, e una volta svanito l’effetto dell’anestesia passerete almeno 12 ore piegati in due da dolori lancinanti. Successivamente dovrete affrontare i 2 mesi di addestramento al loro uso specifico e quei mesi, signori, saranno i più duri della vostra vita. Ma lasciate che vi dica una cosa importante... » continuò, l’espressione seria: « ...le Nanomacchine sono la nostra sola opportunità di sconfiggere, o almeno di combattere alla pari, con le cose che vivono dentro le mura della vecchia città. In questo caso il fuoco non viene spento con l’acqua, ma viene abbattuto grazie ad un fuoco più forte. Quegli esseri sono veloci, agili, forti. Alcuni hanno esoscheletri duri come granito, altri ossa fatte di titanio. Alcuni volano. Sono tutti diversi ma c’è una sola cosa che li accomuna: sono tutti spietati. Non hanno pietà, o ragione, o senso di giustizia o moderazione; non provano sentimenti e anche se molti di loro hanno una forma vagamente umana o semi-umanoide, anche se assomigliano in modo inconfondibile ad un amico o ad un parente, loro non sono umani. Sono bestie » disse.
Poteva essere sufficiente, si disse John.
Poteva esserlo? Poteva davvero accettare di utilizzare ciò che aveva cambiato la sua vita – così come quella di molti – per combattere ciò che di quel cambiamento era rimasto? Poteva sacrificare tutto per la causa, qualunque essa fosse?
Sì. La risposta era sì.
La sua vita non aveva scopo se non combattere. Da quando era giovane la sua unica e sola possibilità era stata Alicanto. Non poteva tornare dal fantasma di sua madre e dalla sua sorella alcolizzata, in quella casa fatiscente nel Bassoborgo che non aveva mai imparato a considerare tale.
Se c’era bisogno delle Nanomacchine per combattere, le avrebbe usate. Dopotutto, da quando aveva firmato il proprio arruolamento, nemmeno la propria vita gli apparteneva più. Era tutto proprietà dell’Esercito.
L’istruttore posò delicatamente la fialetta all’interno della valigetta in metallo, richiudendola e restituendola al sottoposto con il camice. Prese un gesso poi e, puntandolo contro la lavagna, osservò la ventina di persona presenti con un lieve sogghigno.
« Avete tre settimane per imparare tutto ciò che c’è da sapere sull’uso tecnico e tattico delle Nanomacchine » disse: « quindi, cominciamo ».
 
 

***

 
 
Fu la tromba dell’adunata a svegliare John di soprassalto quella stessa notte, provocandogli una scarica d’adrenalina non indifferente e uno spavento più che altro dovuto alla fase REM bruscamente interrotta.
Subito, la mente corse al peggio. Una breccia nelle mura. Un fuggitivo di Londra che i Corvi non erano riusciti a fermare. Una fuga di Nanomacchine dai laboratori. Respirò velocemente cercando di capire cosa stesse succedendo ma finché rimaneva da solo, nella camerata da dieci ora vuota tranne che per le sue cose, non poteva saperlo. Le imposte erano chiuse e la stanza era immersa nel buio se non per la luce nel corridoio che filtrava da sotto la porta.
Quando finalmente trovò la prestanza di spirito per capire almeno cosa dovesse fare, saltò giù dalla branda e si infilò la divisa alla bene e meglio, caricando la pistola d’ordinanza – una Browning L9A1 che veniva consegnata a tutti i soldati già diplomati – e infilandosela nella cintola. Uscì poi dalla stanza a passo svelto, unendosi ai coetanei e ai cadetti degli anni inferiori nell’aula magna dell’istituto.
Lì si infilò in una delle file più alte, affiancando Sherlock Holmes che era già presente e in attesa. Sembrava, a dispetto di tutti gli altri che mostravano ancora i residui del sonno, che il ragazzo non avesse nemmeno toccato il letto.
Lo salutò con un cenno del capo e quello rispose con il medesimo gesto. Non parlarono, rimanendo ognuno chiuso nel proprio silenzio, ma non poterono fare a meno di lanciarsi vicendevolmente piccole occhiate con la coda dell’occhio.
Da vicino dava un’impressione diversa. Aveva sempre quell’aria di superiorità che aveva percepito anche nella voce, forse dovuta all’intelligenza spropositata di cui Mike gli aveva parlato quel giorno a colazione, ma oltre tutto quello, oltre la corte della sua malcelata inavvicinabilità, era... un ragazzo. Occhi azzurri che sembravano non avere mai la stessa sfumatura, capelli ricci e neri, pelle chiara. Aveva l’aria da nobile ma qualcosa negli occhi, nello sguardo che vagava da un punto all’altro della sala e da una persona all’altra senza sosta, gli diceva che non era cresciuto nella bambagia. Ovviamente senza contare la parte del suo passato che era di dominio pubblico.
Quando si accorse che i loro sguardi si erano incrociati, e si stavano guardando già da un paio di secondi, John poté fingere che fosse casuale. Dovette pensare in fretta a come rimediare a quella figuraccia così, girandosi verso di lui, gli tese la mano. « Non ci siamo presentati » disse: « John Watson ».
Holmes attese un istante, assottigliando gli occhi nell’osservarlo, ma alla fine afferrò la sua mano. « Sherlock Holmes » si presentò. « “Sherlock” va bene » aggiunse.
« Allora è “John” » rispose lui. « Sai qualcosa riguardo a quest’adunata nel cuore della notte? ».
Sherlock negò con il capo. « Posso solo ipotizzare che sia successo qualcosa di sufficientemente grave da riunire tutti gli studenti ma non abbastanza da dare l’allarme evacuazione. Dunque è qualcosa di interno all’Accademia » disse.
John annuì. Stava per aggiungere qualcosa – forse per fare un’altra domanda giusto per non far cadere uno strano silenzio fra loro – ma venne interrotto dal Comandante dell’Accademia, tutto impettito e con il volto inamidato in una maschera severa.
Si misero tutti sull’attenti. Quando arrivò alla cattedra e si impadronì del microfono, diede il riposo e tutti si misero con le gambe leggermente divaricate e la braccia incrociate dietro la schiena.
Il Comandante non salutò. Il suo tono di voce risultò freddo e duro quando parlò, solcato da un’ira repressa malamente e da una preoccupazione che non riusciva del tutto a dissimulare.
« La farò breve » cominciò: « questa sera è scomparsa una fiala di Nanomacchine dal laboratorio dell’Accademia. Siamo sicuri che non è uscita dall’istituto ma non abbiamo la minima idea di chi sia il colpevole. Cosa che scopriremo molto presto » disse.
John aggrottò lievemente un sopracciglio, cercando di capire le implicazioni di ciò che il Comandante stava dicendo. Pensò per un attimo ad una esercitazione surreale ma le espressioni dei vari Istruttori al suo fianco, serie e dure a loro volta, non lasciavano spazio a dubbi. Era tutto vero.
Qualcuno aveva rubato all’Accademia e non una cosa qualsiasi: una provetta piena di Nanomacchine.
Solo il Dio in cui aveva smesso di credere poteva sapere cosa una persona esterna all’Esercito – e non solo, a quel specifico ramo dell’Esercito – avrebbe potuto fare con una tecnologia simile.
In cosa si sarebbe potuto trasformare. A quale disastro avrebbe dato il via.
« In questo preciso istante i responsabili dei dormitori stanno perquisendo le camere e i vostri armadietti. Se qualcuno di voi è colpevole è meglio che lo diciate subito, perché altrimenti la pena sarà aggravata dal vostro silenzio » disse.
« Come se non fosse severa ugualmente... » borbottò a bassa voce John. Non era sua intenzione ma non riuscì esattamente ad impedirselo.
Al suo fianco, Sherlock schioccò le labbra. « È stato il responsabile di laboratorio » disse.
John inarcò le sopracciglia. « Cosa? Come...? ».
« L’atteggiamento » cominciò a spiegare Holmes a bassa voce, indicando il diretto interessato in piedi a poca distanza dal Comandante. John si rese conto che era la stessa persona che quella mattina aveva consegnato la valigetta in metallo con dentro una fiala di Nanomacchine all’istruttore che aveva fatto loro lezione.
Holmes continuò. « È da quando ha messo piede nella stanza che continua a guardarsi intorno, direi che sembra nervoso. Il camice è stropicciato sulle maniche, quasi come se avesse dovuto risvoltarle o si siano sollevate oltre i gomiti, e in un laboratorio come quello dell’Accademia è possibile solamente quando si maneggiano le Nanomacchine da dietro il vetro protettivo, in cui è necessario infilare mani e braccia in appositi guanti. Le sue scarpe sono perfettamente pulite, il che significa che non è uscito all’esterno della struttura, dato che piove ormai da qualche ora e si sarebbero per lo meno schizzate, ergo non è andato a casa nonostante non abiti all’interno dell’Accademia ed entra ed esca usando un pass speciale fornitogli dal governo. Questo è un salto nel buio ma oggi a lezione ho notato delle occhiaie sotto ai suoi occhi, segno che non dorme molto e non riposa bene, ma per cosa? Potrebbe essere qualsiasi cosa, problemi in famiglia o sul lavoro, ma chi avendo problemi in famiglia non torna a casa dopo l’orario di lavoro? Questo mo porta a pensare che sia stato lui a rubare il campione e non sia ancora riuscito a trasportarlo all’esterno a causa dell’allarme generale. Se le mie deduzioni sono corrette, e la maggior parte delle volte lo sono, tenterà di uscire dalla porta di rifornimento delle cucine, ovviamente chiuse a quest’ora della notte, ma procurarsi le chiavi è sufficientemente facile quando si ha una relazione con l’addetto alla portineria, consumata di solito nella loro comune pausa caffè in uno degli sgabuzzini al primo piano. E considerando che ha una striscia di vernice bianca sotto al lobo dell’orecchio, suppongo che l’incontro della serata sia già avvenuto, e dunque abbia già le chiavi che gli servono. Basta intercettarlo e coglierlo sul fatto con la fiala fra le mani » disse.
John era completamente sbalordito. Socchiuse le labbra senza accorgersene, girando il capo in direzione del moro che stava ancora guardando dritto davanti a sé, come la posizione di riposo davanti ad un ufficiale comandante prevedeva. Corresse la postura giusto in tempo per non essere visto ma non poté fare a meno di esprimere la propria sorpresa.
« È stato stupefacente » disse.
Holmes sembrò interdetto. « Davvero? ».
« Sì, assolutamente. Fantastico » commentò di nuovo John.
« Non è quello che mi dicono di solito » rispose Sherlock.
« Perché, cosa ti dicono di solito? ».
« “Fottiti” ».
John dovette fare attenzione a non ridere nel perfetto silenzio della sala, sormontato solo dalla voce del Comandante che continuava la sua prolissa lista di punizioni a cui sarebbero incorsi se non si fosse trovato il colpevole in nottata.
Gli sembrò che anche Holmes avesse piegato l’angolo delle labbra in un sorrisetto ma con il volto dritto avanti a sé era difficile capire se lo avesse fatto davvero o se lo fosse solo immaginato.
« Dovresti dirlo, allora » cominciò poi John: « se sei sicuro dovresti farti avanti e mettere fine a questa storia ».
« È una pessima idea » rispose però l’altro. « Come faresti a spiegare le mie supposizioni? Non sono del tutto avvalorate da prove certe, per il momento, e in ogni caso le alte gerarchie dell’esercito tendono a proteggersi fra loro piuttosto che valutare seriamente l’accusa di un cadetto. Si rigirerebbero la mia accusa sul mignolo per rivoltarmela contro e non credo che basti dire l’oro che l’ho dedotto quando mi chiederanno da che basi muovo l’accusa contro il responsabile del laboratorio. No... andrò nelle cucine e lo intercetterò. Quando lo prenderò con le mani nel sacco saranno più propensi a credermi » disse.
In effetti non aveva tutti i torti, ma quel suo piano era da pazzi. Incontrare un potenziale ladro di Nanomacchine da solo, di notte, con il rischio che possa essere armato? Nelle cucine poi, che non forniscono alcuna via di fuga se non la porta d’entrata e quella – chiusa fino a prova contraria – dei rifornimenti alimentari? E poi come avrebbe spiegato il suo trovarsi lì se le cose fossero andate storte?
« È rischioso » si sentì in dovere di dirgli.
« Correrò il rischio » rispose però l’altro.
John lo guardò con insistenza. « È così che ti diverti, non è vero? Rischi la tua incolumità pur di dimostrare che sei intelligente » disse.
Ma Sherlock non rispose, limitandosi a seguire le ultime parole del Comandante e mettendosi sull’attenti al suo ordine. Avevano completato le perquisizioni e non era emerso niente, dunque erano liberi di tornare in branda.
 
 
Nel ritornare in camera – dopo essere passati per una accurata perquisizione corporale – le parole di Sherlock Holmes non volevano sparire dalla sua mente.
Aveva detto che lo avrebbe incrociato nelle cucine e aveva tutta l’intenzione di farlo in nottata, se lo sentiva – l’espressione era quella.
Era rischioso su molti livelli, prima di tutto se qualcosa fosse andato storto. Cosa sarebbe successo se lo scienziato non ci fosse andato? Se non fosse stato lui e Holmes si fosse sbagliato? Lo avrebbero trovato fuori dalla camerata dopo il coprifuoco e l’Esercito non era particolarmente gradevole o riverente nei confronti delle persone trovate fuori dalle brande fuori dall’orario consentito.
Poteva essere punito. Anzi, poteva essere espulso dal corso avanzato.
Si rendeva conto a cosa stava andando incontro?
Senza nemmeno accorgersene, si ritrovò fermo in piedi nel bel mezzo del corridoio deserto. Tutti i suoi commilitoni erano già rientrati in stanza e lui, perso nei suoi pensieri, era rimasto solo.
Sentiva l’arma contro la schiena, ben trattenuta dalla cintola. Pochi diplomati la indossavano in accademia ma lui aveva deciso di farlo non appena avesse avuto la possibilità per abituarsi al peso e alla sensazione. Era carica, pensò con lo sguardo basso sulla piastrelle bianche del pavimento, carica e pronta al fuoco.
L’istinto gli stava urlando di andare. Di dirigersi verso le cucine per... controllare che tutto andasse bene, che Sherlock Holmes non rischiasse il grado (o il collo).
Chiedersi perché fu il passo successivo.
Perché mettere a rischio a sua volta la sua carriera per lui? Per un Holmes? Per quegli Holmes?
Il padre si Sherlock era stato responsabile dell’Alba d’Argento. Aveva condannato a morte un quarto della popolazione londinese. Aveva ucciso suo padre.
Prese un profondo respiro e cercò di fare ordine all’interno della propria mente divorata dal dubbio.
Non gli doveva niente.
Ma avrebbe salvato qualsiasi suo commilitone se si fosse trovato in difficoltà. Non era il significato base dell’Ordine dei Medici? Aiutare il prossimo?
Tuttavia, per un Holmes avrebbe fatto un’eccezione.
Lo avrebbe lasciato morire?
Sì, John– disse una voce nella sua testa – lo lasceresti morire.
No– le rispose lui – io non sono un mostro.
Si voltò, all’improvviso, ritornando sui suoi passi. Poi aumentò il passo, camminando velocemente e a grandi falcate fino a che non si mise a correre, sfrecciando per i corridoi vuoti e scendendo le rampe di scale per tre piani fino al pian terreno.
Oltrepassò l’atrio, altri corridoi, poi la mensa buia. Scavalcò il bancone che si stava preparando ad ospitare la colazione senza farsi notare dall’addetto alle pulizie che puliva i vassoi e disponeva le posate in una catasta ordinata e sgusciò oltre, seguendo il corridoio oltre i banconi in direzione dell’uscita d’emergenza che imboccò con uno spintone.
Fuori l’aria era fredda e la notte stava pian piano trasformandosi in alba. Soffiò fuori un rivolo d’aria e il suo respiro si condensò davanti a lui.
Estrasse la pistola dalla cintola e, facendo attenzione che non ci fosse nessuno in vista, camminò attiguo al muro e fece il giro di quell’angolo dell’edificio, arrivando alle finestre delle cucine.
Erano tutte chiuse ma si poteva tranquillamente vedere facilmente l’interno, anche perché c’era una singola luce accesa: una di quelle lucette gialle incorporate alla cappa di un fornello per poter osservare meglio le pentole.
L’alone chiaro di quella luce insperata illuminava due persone.
Una era indubbiamente Sherlock Holmes. Era di spalle ma ne riconosceva i capelli ricci e la postura dritta del fisico esile. L’altro, a quanto sembrava, era il responsabile del laboratorio e portava con sé una piccola valigetta in metallo il cui contenuto non era difficile da intuire.
Holmes aveva ragione. Era lui il ladro.
Strinse meglio la presa sulla pistola e ne tolse la sicura. Da quella posizione la visuale di tiro non era delle migliori, senza considerare che il vetro avrebbe potuto deviare il colpo, così si piegò sulle ginocchia e procedette silenziosamente in avanti, arrivando quasi dietro ad Holmes, spostato di qualche grado in modo da avere una visuale buona di tiro sul ladro. Non sembrava armato ma non poteva vedere l’altra mano, dunque non poteva saperlo.
Rimanendo con gli occhi a filo del davanzale, John tolse la sicura dalla propria arma e provò a leggere il labiale per capire cosa si stessero dicendo i due uomini all’interno delle cucine, in piedi in mezzo ad una fila di fornelli. Forse Holmes stava guadagnando tempo conscio che i preparativi per la colazione sarebbero cominciati poco dopo l’alba, ma l’altro continuava a lanciare occhiate verso la porta di rifornimento merci e sembrava desideroso di andarsene.
Poi, successe tutto in un attimo.
Per John, abituato al tiro dinamico, fu come se il movimento dello scienziato fosse estremamente lento.
Il balzo all’indietro, la valigetta che cadeva a terra, la mano portata dietro la schiena a raggiungere quella che doveva essere per forza un’arma, probabilmente un coltello.
Holmes era disarmato. Lo vedeva. Non c’erano segni d’armi sotto la divisa né dietro la schiena né al fianco.
John strinse forte la pistola fra le mani, il dito già sul grilletto, il ginocchio che si appoggiava a terra per arrogarsi una posizione di tiro valida e ferma, gli occhi che già correvano alle tacche di mira sulla canna dell’arma.
Lui ha ucciso tuo padre! – gridò una voce nella sua testa.
No. Non è stato lui– fu la sua muta risposta e premette il grilletto.
Il colpo squarciò l’aria come un tuono a ciel sereno.
John non aspettò di vedere il corpo dello scienziato crollare a terra con un proiettile conficcato vicino al cuore, così come non attese che il vetro della finestra, completamente infranto a causa della vicinanza del colpo, crollasse del tutto a terra. Scattò in direzione dell’angolo più vicino pregando che Sherlock non si voltasse e non lo vedesse, nascondendosi dietro al muro giusto in tempo, dato che lo stesso Sherlock si affacciò dall’intelaiatura vuota per cercare di vedere chi gli aveva salvato la vita.
John lo vide con la coda dell’occhio guardarsi intorno un paio di volte poi, quando le luci cominciarono ad accendersi, lo notò rientrare. Probabilmente avrebbe avuto molte cose da spiegare ai superiori, quando sarebbero venuti a conoscenza di questa storia.
Con il cuore ancora in gola, John tornò sui suoi passi e rientrò nell’edificio diretto verso la propria camerata.
E sperò con tutto il cuore che, per vederci chiaro, l’Alto Comando non decidesse di perquisire di nuovo gli studenti in cerca del proiettile mancante che ora era conficcato nell’arteria succlavia di un ladro morente.
 
 
Poche ore dopo, quando ormai il sole era alto e tutti gli studenti riuniti in una mensa rumorosa più del solito, John si alzò dal tavolo e portò il vassoio vuoto della colazione al bancone.
Tutti gli studenti non facevano altro che parlare dello sparo e del ladro finalmente trovato, di Sherlock Holmes e di come l’avesse incastrato, così come discutevano animatamente della decisione dell’Alto Comando di ritirare tutti i caricatori e i colpi ai diplomati per vedere chi avesse sparato, dato che nessuno degli ufficiali, sottoufficiali ed istruttori era coinvolto in quella strana faccenda.
John aveva mangiato con la gola chiusa.
Lo avrebbero scoperto, probabilmente. E non l’avrebbe passata liscia. Anche se la motivazione era ottima – salvare una vita e fermare un ladro – aveva comunque ucciso un uomo su suolo cittadino, per giunta militare essendo l’Accademia, utilizzando un’arma da fuoco senza autorizzazione e in presenza di materiale altamente pericoloso (dato che poteva inavvertitamente colpire la valigetta contenente le Nanomacchine).
Lo avrebbero cacciato dal corso speciale. Anzi, peggio, forse lo avrebbero addirittura congedato e interdetto dall’Accademia. L’Esercito non stava a guardare al fine, in queste cose, ma solo al mezzo e a quante regole venivano infrante nel mentre.
Era condannato.
Deglutì un principio di nausea mentre, stoicamente, attraversava la porta della mensa e si apprestava a percorrere il corridoio per tornare alla propria camerata a prendere caricatori e pallottole per consegnarle in armeria.
Fu lì che incontrò Sherlock Holmes.
Camminava nella direzione opposta alla sua, divisa impeccabile e stemma della rosa blu al petto, occhi puntati su di lui come se lo stesse scannerizzando per carpire ogni suo minimo segreto.
John gli rivolse solo un cenno del capo come saluto. Ma Sherlock non rispose.
Anzi, preferì avvicinarglisi, cambiando la traiettoria sulla quale stava camminando e passandogli accanto. Gli sfiorò la spalla con la sua e, discretamente, gli fece scivolare qualcosa in mano.
« Bel colpo » disse, timbro profondo, senza guardarlo o esprimere alcuna emozione.
Watson non rispose e non smise di camminare. Non alzò o mosse la mano ora stretta attorno al piccolo oggetto che Holmes gli aveva premuto contro il palmo con dita fredde in modo che lo afferrasse saldamente senza lasciarlo cadere.
Non ne aveva bisogno. Sapeva riconoscere un proiettile al tatto.
 
 

***

 
 
Tre settimane passarono velocemente e altrettanto in fretta arrivò il giorno dell’impianto.
Quella mattina, John si presentò davanti alla sezione scientifica alle otto in punto (così’ come gli era stato ordinato) indossando solo la tenuta da campo: una maglietta grigia e pantaloni lunghi sportivi del medesimo colore.
Ad attendere in corridoio vi erano quasi tutti i membri del corso speciale, compresi quelli che già conosceva perché indicatigli da Mike quasi un mese prima.
Sebastian Moran e James Moriarty – che diceva sempre a tutti di chiamarlo Jim con un sorriso che John non poteva descrivere se non con il termine “viscido” – stavano uno di fianco all’altro appoggiati al muro direttamente davanti alle porte dell’ascensore. Jim parlava e Sebastian si limitava ad ascoltare ed annuire.
Quasi la stessa cosa succedeva poco distante, dove Sherlock e Irene Adler sembravano impegnati in una conversazione disinteressata. Ancora più in là, seduto a terra, Greg Lestrade stava guardando Sherlock come se dovesse proteggerlo con gli occhi dalla semplice presenza della Adler mentre, dal lato opposto del gruppo, Molly Hooper guardava a sua volta Sherlock ma con una gelosia timorosa in fondo agli occhi.
John si appoggiò alla parete con un sospiro, in attesa.
Era dall’inizio di quel corso di abilitazione che aveva cominciato a pensare a chi gli sarebbe piaciuto avere in squadra con sé, se fosse stato ammesso ad Alicanto.
Le formazioni di Alicanto procedevano per squadre da tre: un Condottiero in carica della prima linea e alla guida della squadra, un Medico (di solito armato) che si occupava della linea difensiva, e uno Stratega nelle retrovie, il cervello del gruppo, elaboratore di tutte le strategie operative.
Ovviamente i tre membri dovevano provenire dai rispettivi Ordini e la scelta era ampia, in quel caso, dato che erano un gruppo misto in modo omogeneo. Non gli sarebbe dispiaciuto essere in squadra con Lestrade, dato che si era dimostrato un buon commilitone durante le lezioni teoriche, ma se c’era qualcuno che avrebbe preferito evitare come la peste, quel qualcuno era Irene Adler.
E James Moriarty. Per quanto non gli avesse fatto niente di personale, il suo sguardo faceva pungere il suo istinto di protezione verso se stesso, una cosa che non apprezzava.
Non sapeva cosa pensare di Sherlock Holmes. Non sembrava un cattivo ragazzo, assolutamente, e lo diceva nonostante il suo pregiudizio interiore verso la famiglia Holmes che ancora si faceva sentire, ma continuava ad essere il più chiuso e solitario di tutti e, tra l’altro, dopo il caso del ladro non si erano nemmeno più rivolti la parola. Non riusciva a capire se lo facesse apposta o semplicemente non gli interessasse.
Stava per incrociare il suo sguardo quando le porte dell’ascensore si aprirono, rivelando un ufficiale con camice e mascherina bianca sulla bocca. « Seguitemi » disse semplicemente, voltandosi e facendoli entrare tutti nell’ascensore (abbastanza grande da contenere tutti loro e anche qualcuno in più).
In silenzio, tutti i cadetti lo seguirono.
L’ascensore scese in silenzio, oltrepassando probabilmente tre piani interrati, fino ad aprirsi in quella che aveva tutta l’aria di essere un’anticamera spogliatoio. File di armadietti in metallo occupavano entrambe le pareti e le piastrelle del pavimento erano bianche e ruvide come quelle di una piscina.
« Spogliatevi di tutto quello che avete e disponetevi su quattro file da cinque individui » venne loro ordinato.
Ai soldati non doveva dare fastidio la nudità, né essere elemento d’imbarazzo. Capitava spesso di condividere le docce con il sesso opposto, soprattutto dopo le esercitazioni pratiche all’esterno, e anche se i dormitori maschili e femminili erano separati e ai due lati opposti dell’istituto, stare l’uno davanti all’altra senza alcun tipo di vestito non doveva essere elemento di disturbo. Oppure, se effettivamente l’imbarazzo c’era, era compito del soldato dissimularlo.
Il trucco era semplice in realtà: occhi fissi davanti a sé e mente sgombra. Era meglio non focalizzarsi sul seno quasi perfetto di Irene Adler, anche se lei sembrava divertirsi un mondo a restare nuda in un gruppo in prevalenza maschile.
John si spogliò in fretta, ripiegando i suoi abiti alla meno peggio e mettendosi in una delle file centrali. Lo spazio fra una parete e l’altra era largo a sufficienza per ospitare quattro file spalla-a-spalla.
Quando furono pronti, una seconda porta automatica di vetro si aprì davanti a loro e vennero fatti entrare in quella che aveva tutta l’aria di essere una camera di decontaminazione.
Rimasero fermi immobili mentre quattro scienziati in tuta bianca e mascherina passavano fra di loro e verificavano i loro codici con un verificatore laser, a cui associarono la solita domanda ( « Codice personale? » « Alfa-Charlie-1-2-5-6-9-Zulu » ). Una volta terminata la verifica, ordinarono loro di divaricare le gambe e aprire le braccia poi lasciarono la stanza, che si sigillò a tenuta stagna.
Venne spruzzato loro addosso una sorta di getto di vapore freddo e dall’odore vagamente simile al talco, che fece starnutire molti di loro. Poi furono investiti da un getto d’aria calda molto forte e infine, indicato da una fastidiosa luce verde lampeggiante, il processo di disinfezione fu terminato.
Aprirono le porte e furono guidati all’interno di una stanza circolare dalle pareti bianche piena di capsule. Somigliavano vagamente a capsule criogeniche; una sorta di bozzoli di metallo sormontati da ante ricurve in vetro ora aperte, ma che di sicuro li sigillava perfettamente una volta chiuse. Alle pareti subito dietro erano collegati, con fili di diversi colori e spessori, monitor a ologramma per monitorare le funzioni vitali degli ospitati.
Avanzarono di qualche passo e si fermarono in attesa di essere chiamati. Nella camera vi erano almeno quattro tecnici e dieci infermieri qualificati, compresi i due scienziati in camice che stavano caricando nei bozzoli fiale e fiale di Nanomacchine color verde pallido della consistenza del mercurio.
Con un profondo sospiro, John distolse lo sguardo.
Finalmente, una voce maschile chiamò il suo nome. Fu indirizzato verso la capsula numero 9 dove un’infermiera gli fece segno, senza dire nulla, di coricarsi dentro lo strano bozzolo di metallo e fili. L’interno era rivestito di una sorta di gommapiuma traspirante color beije.
John vi si adagiò e subito le mani dell’infermiera cominciarono ad attaccare sul suo petto gli elettrodi per il monitoraggio cardiaco. Gli fu fatta un’endovena di fisiologica e gli fu inserito un secondo catetere intravenoso per la successiva somministrazione di nutrienti. Un terzo catetere, quello più fastidioso, gli venne inserito per le sostanze di scarto che il suo organismo avrebbe prodotto nelle successive 24 ore di sonno.
Una volta terminato, l’infermiera gli attaccò con mani delicate due elettrodi sulle tempie, sorridendogli da dietro la mascherina. « Fra pochi istanti la capsula si chiuderà automaticamente e le verrà iniettato in vena un cocktail di barbiturici, cadetto Watson » disse: « dovrebbe addormentarsi nel giro di un minuto. Quando si risveglierà l’operazione sarà già finita ma avrà in corpo degli antidolorifici, dunque non sentirà dolore. Va bene? ».
Watson annuì.
« Le auguro un buon riposo » disse quella e, scostandosi dalla sua visuale, andò ad occuparsi di qualcun altro.
Non ci volle molto perché il segnale di chiusura fosse dato e la capsula si richiudesse con un lieve rumore idraulico. John guardò il soffitto circolare per l’ultima volta prima di sentirsi le palpebre pesanti. Si addormentò senza pensare a niente.
 
 
 
 
 
 
 
 
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1 – Il Crystal Palace (Palazzo di Cristallo) era una struttura costruita a Londra nel 1851 per ospitare la prima Esposizione Mondiale (EXPO). Fu installato prima ad Hyde Park per poi essere smontato e ricostruito a Sydenham Hill nel 1852. Venne distrutto da un incendio nel 1936.
Quindi no, il nome della città non è relativo alla Crystal Tokyo di Sailor Moon XD
 
2 – Sono tutte creature provenienti da diverse mitologie.
Il Barghest proviene dalla mitologia medievale germanica ed è la versione spettrale di un lupo. Secondo la leggenda perseguita chi in vita ha commesso crimini di grave entità.
L’ Ifritderiva dal folklore arabo ed è un tipo di Djinn (Genio) che comanda il fuoco. Vengono raffigurati come uomini molto avvenenti e si credono superiori alla razza umana.
L’Alicanto invece proviene dalla mitologia peruviana ed è un uccello incapace di volare che cambia il colore del proprio piumaggio in base ai metalli che mangia (di solito oro e argento).
Huginn(e Muninn) sono due corvi presenti nella mitologia norrena associati al dio Odino. Huginn significa “pensiero” mentre Muninn significa “memoria”.
   
 
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