Hilf Mir fliegen…. Fünf
Die Dank dann…
Due minuti. Lo vidi
tornare. Era ancora rosso in viso. Ma anche io, molto probabilmente, non ero da
meno. Varcò la porta per la seconda volta, si fermò, spiazzato ad osservarci,
poi sorrise.
Tom, seduto alla mia
sinistra parlava animatamente. Georg, di fronte a me, ascoltava con vivo
interesse quello che diceva il suo amico. Gustav, appoggiato alle nostre spalle
contro l’armadietto della cucina, era perso nei suoi pensieri. Io invece, mangiavo
pane e marmellata, lottando contro quella famosa legge secondo la quale,
chiamalo caso o sfiga, non appena cerchi di sembrare calmo e rilassato, non
riesci a tenere nulla in mano. Il mio tentativo di limitare il danno,
afferrando il pane al volo, ovviamente non fece che peggiorare la situazione.
Splash!
Georg e Tom risero. Io arrossii ancora di più. Gettai un occhiata a Bill, ancora sulla porta. I nostri occhi si
incontrarono. Pochi secondi. Entrambi scoppiammo a ridere. Gustav girò il viso
verso di noi, un lieve sorriso sulle labbra, ma non disse nulla.
Gli occhi pieni di
lacrime per il troppo ridere, osservai Bill tenersi lo stomaco. Sembrava un
altro. Come se il ragazzo del giorno prima fosse a miglia di distanza. Solo un
brutto ricordo.
Impiegammo cinque
minuti per calmarci. Alla fine Bill si avvicinò a Gustav e si versò il caffè in
una grossa tazza. Si voltò verso di noi e si sedette al tavolo.
“Dove pensi di andare
oggi?” chiese all’improvviso Tom a Georg, mentre guardava intensamente Bill.
“Io? Ho
promesso di vedere degli amici…” rispose l’altro, ridendo senza alcun motivo
apparente.
Sul volto di Tom
apparve un sorriso accattivante. Continuava a fissare suo fratello. “E’ davvero
un peccato…perché io ho un appuntamento e Gustav deve assolutamente tornare a
casa…Bill, tu sei libero giusto?”
Bill abbassò la tazza
di caffè. “Si, perché?” rispose ingenuamente, gli
occhi sgranati.
“Perfekt!” concluse
Tom, strizzando l’occhio a Georg. “Allora noi possiamo andare…”
Si alzò e, dopo aver
lasciato le tazze nel lavandino, si avvicinò alla porta.
“Aber…Tom!” lo chiamò
Bill, attirando la sua attenzione “ich verstand nicht!”
Tom si girò. Scrutò
Bill a lungo, poi spostò il suo sguardo su di me. Intuì che suo fratello non
era l’unico che non avesse capito.
“Die Dank dann!” disse
soltanto. I ringraziamenti poi… Un sorriso malizioso comparve sulle sue labbra.
Uscì.
Io e Bill ci scambiammo
un occhiata, sempre più perplessi. Poi, all’unisono,
ci voltammo verso Georg che si era appena alzato. Lui se ne accorse, rise e
rispose, anticipando la domanda “Ich weiß nichts!” e si affrettò a scaricare le
stoviglie nel lavandino e a fuggire mentre io e Bill urlavamo
contemporaneamente “Georg!!!”
Di nuovo tornammo a
guardarci in volto, più confusi di prima. Un attimo dopo, cercai con lo sguardo
Gustav, vedendo in lui l’ultima possibilità di comprensione. Si stava allacciando
un grembiule intorno alla vita, una scritta sul davanti. “Die Hausfrau küßt”. Non
si accorse nemmeno che lo stavo osservando mentre, spugna in mano, fregava la
tazza dove Tom aveva bevuto il caffè. Capii che era inutile chiedere…
Ist ein
Abschied?
Solo. Uscii dalla mia
stanza. La casa era completamente immersa nel silenzio. Anche Gustav, finito in
cucina, deve essersene andato, pensai. Passando, notai qualcosa alla mia
sinistra, mi voltai ad osservare meglio.
Lei. Seduta in terra su
una coperta, la schiena appoggiata contro il muretto del balcone. Fumava. La
musica nelle orecchie. Il viso sollevato verso l’azzurro cielo d’Amburgo. Gli
occhi chiusi.
Sentii qualcosa
all’altezza dello sterno, e poi più sotto, alla bocca dello stomaco. Un
qualcosa che non aveva spiegazione razionale, ma era reale.
Inspirai e, rosso in
volto, i battiti accelerati, mi avvicinai alla portafinestra. La aprii, lei non si mosse. Per un momento, finché non portò la
sigaretta alle labbra, gli occhi perennemente serrati, temetti che fosse caduta
di nuovo nel “torpore” del giorno precedente. Se ieri non fosse accaduto nulla,
probabilmente non avrei nemmeno badato alla sua esistenza… mi dissi. Anch’io
sollevai il volto verso il cielo e, senza sapere perché, provai il desiderio di
ringraziare, un qualcuno della cui esistenza sono profondamente scettico.
Mi piegai davanti a
lei, appoggiando la mano sul suo ginocchio. Immediatamente spalancò gli occhi,
mi vide, sorrise.
“Ha! Hallo, Bill! Ich hörte dir nicht ankommen...”
Risposi al suo sorriso.
“Tranquilla. Anche a me è successo di non sentirti ieri,
alla statua di Bismarck…” iniziai.
La vidi arrossire ma
non ne capii il motivo. Poi cambiò argomento. “Sei qui per riportarmi alla
statua…” chiese, gli occhi scuri fissi nei miei “…o c’è un altro motivo?”
La guardai sbigottito,
poi mi diedi dell’idiota. Com’era possibile che non mi fosse nemmeno passato
per la mente che lei dovesse andarsene?!? Che potesse
esserci un luogo dove dovesse tornare? Magari anche un qualcuno… Sentii il mio
cuore rallentare.
Lei
sgranò gli occhi preoccupata “Stai male? Improvvisamente sei
diventato pallidissimo!”
“Nein…” risposi,
cercando di suonare convincente “Es geht mir gut…” la rassicurai. Poi mi alzai
e, mentre cercavo di calmare l’ansia che ora mai aveva preso il controllo di me,
le porsi la mano sinistra.
“Gehen wir?”
Lei l’afferrò,
sorridendo.
Per la “gentile”
signorina che ha commentato il capitolo precedente: Non mi pare di aver
obbligato nessuno a leggere la mia storia. Se piace alle persone mi fa piacere.
Se a te però non piace…smetti di leggerla. Io andrò avanti comunque.