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Autore: Phoenixstein    29/06/2013    3 recensioni
Il portello si aprì e venne accostata la scaletta mobile. Le persone in attesa, un certo Milkovich musone compreso, si accalcarono verso i primi uomini che scendevano. Le mani di Mickey erano umidicce per l’emozione. Si sentiva accaldato come una cazzo di adolescente ma si disse che non poteva farci niente e che, in fondo, poteva permetterselo: non vedeva il suo compagno da quattro fottuti mesi, troppo.
/// GALLAVICH WEEK - Day 7: FUTURE GALLAVICH /// aka "quando Ian torna dalle missioni di pace"
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ian Gallagher, Mickey Milkovich, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Gallavich Week - Giugno 2013'
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Gallavich Week. Day 7 (June 29th) - Future Gallavich

(let’s share our hopes for the boys’ future)

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Bene, l'avventura volge al termine.

Quella di oggi è la mia one shot preferita,
quella di cui vado fiera.
Spero che piaccia anche a voi ^^ 

 

 

 

 

 

The soldier’s wife

 

 

 

Missioni di pace un cazzo. Mickey passava giorni e notti nel puro terrore di accendere la tv e sentire al notiziario il nome di Ian Gallagher morto da eroe per mano di qualche fondamentalista troglodita figlio di puttana. Puntualmente, prima delle partenze, il soldato gli prometteva “Nessuno mi farà il culo. Sono un Gallagher.” e Mickey lì per lì ci credeva. Famiglie dei bassifondi, già, ti fanno la pellaccia dura. Ma comunicare con lui che era all’altro capo del mondo non era sempre possibile; così, quando gli impegni militari tenevano Ian lontano da una connessione internet, Mickey ricominciava ad aver paura. Chi gli garantiva che durante quei giorni di silenzio non avevano piazzato qualche ordigno nei pressi della base e magari a Ian non era saltata una mano, una gamba o chissà cos’altro?

 

Quel giorno il reparto di Ian rientrava in patria; il volo speciale AX-03 sarebbe terminato al Chicago O'Hare International Airport, con atterraggio previsto per le sei di pomeriggio.

Attraversata la struttura, Mickey varcò la soglia che conduceva alla pista, fermandosi entro il limite consentito. Si scoprì poco entusiasta di non essere lì da solo. Le compagne di altri soldati aspettavano come lui di poter riabbracciare i loro uomini e questo lo metteva un tantino a disagio. Che cazzo ci faceva lui in mezzo alle donne? Non potevano levarsi, ingannare l’attesa un po’ più in là? Giusto pochi metri? No, si erano piazzate giusto dove stava lui. E andiamo, era arrivato per primo! Si spostò di qualche passo a destra, prendendo le distanze da loro. A braccia incrociate si strinse nella giacca di pelle e si godette il suo angolino di solitudine osservando le piste d’atterraggio che si estendevano a perdita d’occhio, con il cielo che esplodeva di colori caldi e il tramonto a bruciare fra rade nuvole violacee.

Durante l’attesa, un bambino che era rimasto per una buona fetta di tempo attaccato alla gonna della madre, annoiato dai discorsi che sentiva attorno a sé (decisamente poco attraenti per la sua curiosità) decise di stringere amicizia con lui. Non appena gli si parò davanti con quegli occhialini tondeggianti e il sorrisetto da monello, Mickey lo classificò immediatamente come “nanetto biondiccio”. Non che lui stesso fosse molto alto, poi, ma lo scricciolo gli arrivava sì e no alla vita. Il piccoletto cominciò a squadrarlo dalla testa ai piedi. Dapprima Mickey fece finta di niente e continuò a guardare dritto davanti a sé, ma quegli occhietti vispi lo fissavano con insistenza. Allora, quando lo sconosciuto meno se l’aspettava, il giovane uomo dirottò lo sguardo su di lui e gli fece una smorfia alla Milkovich. Il suo obiettivo era di essere vagamente spaventoso, ma fallì nell’intento, considerato il fatto che il bambino si portò le manine alla bocca e cominciò a ridacchiare.

«Ehi, nanetto. Ridi di me? Come ti chiami?» chiese Mickey in un sospiro, perplesso per il modo in cui il piccolo sembrava fidarsi di lui ma anche intrigato da ciò. Intavolare una specie di conversazione era pur sempre un modo per far trascorrere i minuti più velocemente.

«Bil-lie. Billie Jameson.» sillabò quello, ciondolando sulle Converse blu elettrico.

Proprio in quel momento la madre lo richiamò, scuotendo la testa. «Williaaam! Lascia stare il ragazzo, gli dai fastidio!»

Mickey, spinto suo malgrado a confrontarsi col gruppetto vociante, alzò una mano come per dire “si figuri” e disse: «Nessun problema. Io e l’ometto qui inganniamo il tempo.» L’aveva detto per davvero? Si meravigliò di se stesso. Di solito non faceva una buona impressione sulla gente, perciò ritenne di dover dare una possibilità a quel Billie. Era così da diciotto anni e c’era abituato, se si toglievano i primi sei in cui agli occhi del mondo risultava ancora una creaturina adorabile…

La donna, una brunetta che reggeva una borsa quasi più grande di lei e aveva tutta l’aria di essere cordiale, agitò la testa boccoluta tutta contenta. «Oh, bene, allora.» E tornò a chiacchierare fittamente con le altre.

«Quindi, uhm… Stai aspettando tuo papà?» domandò Mickey al biondino, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans e imitando il movimento ondulatorio del bambino che si slanciava sulla punta delle scarpe e poi ricadeva sui talloni.

Billie si accorse che lui gli faceva il verso e smise immediatamente. «Sì.» rispose, e si grattò la testa «La mamma ha detto che domani per festeggiare andremo allo zoo!»

«Allo zoo? Ti piacciono gli animali?»

«Ah-ah.»

«E qual è il tuo preferito?»

«Il rinoceronte, perché può infilzare quelli che lo fanno arrabbiare!» esclamò il bambino con convinzione.

Mickey scoppiò a ridere. Ora intuiva perché fra lui e Billie si era instaurato un certo feeling naturale. Tuttavia non sapeva cos’altro dire per intrattenerlo perché: 1) non era mai stato un tipo definibile loquace; 2) con i bambini non aveva di solito molto tatto.

Fortunatamente Billie non si lasciò scoraggiare dal silenzio che era calato fra loro e si aggrappò alla manica della sua giacca dandogli un leggero strattone. «E tu invece chi stai aspettando?»

«Oh, bimbo. Non mi tirare la giacca, cazzo.» Mickey gelò sul posto e rispose in maniera brusca. Billie mollò immediatamente la presa e gli diede le spalle, offeso. L’altro si pentì immediatamente, aprì la bocca e aggrottò la fronte. Finì col non dire nulla e con lo sfregarsi nervosamente la guancia in cerca di ispirazione. Con la coda dell’occhio notò che il bambino continuava a tenergli il broncio.

Sentendosi in colpa, un tipo di sensazione che detestava, Mickey impiegò un bel po’ solo per un: «Si chiama Ian.»

«Oh, stai aspettando… Ian. Okay.» ripeté il piccolo, mostrandosi, per ripicca, per niente impressionato.

«Ehi, guarda là!» esclamò Mickey, puntando il dito verso il punto bianco che si espandeva nel cielo e veniva verso di loro. Ottimo tempismo. Billie saltava come un pazzo, così Mickey lo prese in braccio a sorpresa e gli urlò nell’orecchio: «Saluta tuo papà! Salutalo! Forse già ti vede!»

Il bambino non se lo fece ripetere due volte e cominciò a menar le mani per aria, allegro e sovreccitato. Mickey poteva dire di essere felice esattamente allo stesso modo, sentiva il cuore spaccargli il petto per la gioia. Il rumore crescente si propagò nell’aria. L’aereo si avvicinò pian piano e quello che all’inizio era un ronzio si tramutò in un boato assordante. L’apparecchio si abbassò con eleganza, il meccanismo fece scattare gradualmente le ruote all’infuori e il bestione di metallo toccò terra scivolando sulla pista come se fosse leggero. Billie prese a sgambettare e Mickey lo mise giù, scaldato da una dolce percezione di empatia mentre lo vedeva correre a strillare dalla mamma.

Il portello si aprì e venne accostata la scaletta mobile. Le persone in attesa, un certo Milkovich musone compreso, si accalcarono verso i primi uomini che scendevano. Le mani di Mickey erano umidicce per l’emozione. Si sentiva accaldato come una cazzo di adolescente ma si disse che non poteva farci niente e che, in fondo, poteva permetterselo: non vedeva il suo compagno da quattro fottuti mesi, troppo. Intorno a lui alcune donne stavano già baciando mariti e fidanzati, e perfino Billie era già fra le braccia di suo padre.

“Scendi, scendi, scendi. Ti amo. Scendi.” si ripeteva ossessivamente Mickey, con un’angoscia irrazionale a montargli nello stomaco. Se fosse successo qualcosa a Ian l’avrebbero avvisato, no? Era tutto a posto. Era ovvio che fosse tutto a posto. Lui era solo impaziente e il suo cervello non faceva che sbattergli in faccia paure che in quel momento non avevano senso di esistere…

E finalmente, eccolo, lo vide. I cortissimi capelli rossi erano un incendio sotto i raggi morbidi di sole cinabro del tardo pomeriggio. Mickey pensò che fosse uno spettacolo, che meritasse una foto.

«Ian Clayton Gallagher!» chiamò a gran voce e, non appena il soldato sentì il proprio nome, s’illuminò di un sorriso commosso, radioso. Quello accelerò il passo, lasciò cadere a terra il borsone in un tonfo e abbracciò il suo uomo talmente stretto da fargli male. Mickey ignorò il dolore alle costole, si morse le labbra, si concesse di dargli un’effimera occhiata e poi lo baciò di fronte a tutti, ora che nessun mostro dotato di patria potestà poteva sopprimere quello che provava per lui. Fu uno sferzante e repentino scontro di lingue, interrotto giusto dall’esclamazione sbigottita di Billie: «Voi due siete fidanzatiiii?»

La faccia di Ian si arricciò in un cipiglio sorpreso e divertito mentre Mickey, arrossendo, rideva e guardava per terra. «Sì, piccolo. Vuoi dirmi che non siamo più amici?» domandò, facendo spallucce.

La mamma e il papà di Billie cercarono di scusarsi per l’importunità dello scricciolo ma quello, nella sua simpaticissima arroganza infantile, li zittì: «Sssssshhh.» Corse poi dal suo Mickey e assunse una posa terribile: pugnetti chiusi sui fianchi, pronto al rimprovero. «Guarda che siamo ancora amici. Anche se prima ti sei arrabbiato con me e non mi hai neanche chiesto scusa perché hai detto una parolaccia.»

«Mickey! Sul serio?» il rosso finse d’indignarsi e tese la mano al piccolo. «Piacere, Ian Gallagher. Lascia stare, lui…» ammiccò in direzione del suo ragazzo «…è sempre antipatico.»

«Conosci il mio papà?» Billie starnutì e fece un gesto per indicare alle sue spalle.

«Sì, certo. È un grande il tuo papà, devi essere orgoglioso di lui.» spiegò Ian, accennando un saluto verso il collega.

«Sì, lo sono. Però mi manca tanto quando va via. Mi viene da piangere. Io vorrei che restasse sempre con me. Quando lui non c’è, mi sento vuoto e triste perché non c’è nessuno che giochi a baseball con me.»

Lo sguardo di Mickey e quello di Ian si congiunsero. Il rosso alzò gli occhi al cielo come a dirgli “Che aspetti?” e all’altro partì un labiale del tipo “Io? Mi prendi per il culo?”. Poi il bruno guardò Billie che si stropicciava la maglietta, ripensò alla faccenda del rinoceronte e alle sue manine che gli tiravano la giacca. «Se per i tuoi genitori va bene, quando tuo papà parte io posso venire a giocare con te.» azzardò, facendo su e giù con la zip della giacca.

«Dici sul seriooo?» trillò il bambino, zompando con enfasi appeso al suo braccio.

«Sì,sì, per la miseria… Non farmi fuori prima, eh.» ridacchiò Mickey.

Billie si precipitò da mamma e papà per domandare il permesso, mentre Mickey digrignò i denti contro Ian.

«Mi hai incastrato, firecrotch. Ora mi toccherà fare il babysitter! Io? Mi ci vedi, cazzo?»

«Guarda che hai fatto tutto da solo!» l’altro si difese con nonchalance e alzò le mani «Anzi, sai cosa penso?»

«Sentiamo.»

Il rosso abbozzò un ghignetto e scosse la testa. «Che lo vorresti un bambino. Un bambino nostro.»

«COSA?» Mickey si batté i palmi sulle cosce e cominciò a schernirlo «Oh mio dio. Amico, hai le visioni. Passi troppo tempo in quei cazzo di posti strani. Sai cosa voglio?» Afferrò Ian per l’uniforme mimetica, a piene mani, e gli respirò in faccia, avido di un tocco che gli era stato sottratto per mesi. Guardò quel viso segnato dalle fatiche e dalla polvere del deserto. Avrebbe voluto che non partisse mai più. Avrebbe voluto che lui non dovesse più custodire un orrore nascosto, come un velo, nelle iridi cinerine. Avrebbe voluto smetterla di far parte delle “mogli” ogni volta che andava a prenderlo in aeroporto. Avrebbe voluto svegliarsi sempre accanto a lui al mattino. Avrebbe voluto essere costantemente felice come lo era in quel preciso istante. Avrebbe voluto tante cose, molte delle quali ancora non aveva il coraggio di desiderare a voce alta. «Voglio che mi scopi in macchina, adesso. Perché fino a casa, sai, non c’arrivo.»

 

 

 

 

Ma è finita davvero questa settimana? Sigh :’(
Spero solo di non avervi annoiato,
e soprattutto che Mickey e Ian non vi siano sembrati OOC.

Un bacio a chi mi è stato vicino in questi pazzi pazzi giorni
(senza dirmi "magari dovresti studiare per la maturità, eh!"),
un bacio a chi vedrà Shameless perché gliel’ho detto io,
un bacio a chi ha letto/commentato queste mie piccole creature,
un bacio a Ceci che ha fatto tantissimo per me,
un bacio a Federica per la Gallavich as Kurtofsky,
un bacio a Ilaria che ha partecipato alla week perché io insistevo,
un bacio a Frà che ha letto per prima "Shot through the heart".

E niente, se non si fosse capito, mi piace troppo quando Mickey
chiama Ian firecrotch.

Se vi va, raggiungetemi qui: 
Phoenixstein

   
 
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