Serie TV > Dr. House - Medical Division
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Autore: Kimmy_90    13/01/2008    2 recensioni
[SOSPESA] [ma l'autrice è carica di buoni propositi, e quindi promette che entro il 21 12 2012 la finirà.]
Daisuke e House: legati da un certificato di nascita che fa del primo il figlio dell'altro. Poi una porta sfondata, perchè House è sempre House, non si piegherà di certo al primo che esibisce un foglio e gli chiede ospitalità. Soh, bimbetto che l'inglese non lo capisce ma si diletta ben in altro modo, e Hector, che rimane pur sempre un cane ultracentenario. Cameron, l'eterna crocerossina, e Cuddy, che si lascia investire dal suo istinto materno. Infine Wilson, l'unico che tenta di far funzionare la baracca, che prova a far ragionare la gente e, al solito, ci rimette.
E poi il Vicodin.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Greg House, James Wilson, Lisa Cuddy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Seconda stagione
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[Edited, with thanks]
Lo sapevo, con House sono particolarmente arrugginita. Grazie a Niky87 per le dritte, in effetti andavo facendo un bel po' di confusione. Spero di aver aggiustato tutto! Se ci sono problemi, riprendetemi pure :3

*Preambolo dell'autrice
Seh, seh. E' una storia contorta, ma che vedrò di far corta. E' da molto che non inserisco personaggi nuovi in un ambiente già fissato, quindi non ho dea di cosa possa uscirne fuori: ho la cattiva abitudine di darmi alle MarySue.
Mi accingo per la prima volta a solcare il mare del FanDom di DottorHouse...
Che il vento mi sia favorevole!

*Ambientazione Temporale.
Ora, correggetemi se sbaglio, ma il periodo dovrebbe essere questo:
Foreman è prossimo a cambiare lavoro, il polotto scassamaroni è sistemato, House ha fatto tutti quei casini per placcare Foreman ma niente da fare. Per il seguito.. cancelliamo.


*Noticine di lettura
Volevo scrivere alcuni pezzi in giapponese, ma poi mi sono resa conto che erano troppi, che il mio giapponese è paragonabile a quello di un bradipo, che non posso appellarmi continuamente al dizionario, che non tutti voi possedete un dizionario e , soprattutto, che tanto non ci avreste capito una mazza comunque. Quindi, salutate il valore assoluto: ovvero, “|Addio|” sta per “Sayonara”.
I titoli sono prime persone dei personaggi, a voi capire chi sta parlando (titoletto e titolo hanno lo stesso pg :P)
Daisuke si pronuncia Dài'ske, giusto per fare pignoleria.


E bon, dopo avervi rotto le palle con le mie seghe mentali, procediamo.





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Fuoco Mangia Fuoco

Uno, Giusto per Chiarire:
Io e il Mio Mascara



Era appoggiato al lavandino dell'aereoporto, totalmente inclinato verso avanti, la bocca aperta, la pelle del volto tesa. L'angolo di marmo gli premeva sul ventre, ma sopportava, preoccupato di ben altro: faceva scorrere il pennellino nero sulle ciglia con maestria. Piccoli colpetti secchi e precisi, tipici di chi ha il polso saldo ed è molto avezzo al gesto.
Ogni tanto, qualche viaggiatore lo scrutava indispettito, per poi allontanarsi fugacemente dal giovane.
“Yoss.. Soh!”
Si staccò dalla postazione, ammirando un istante, compiaciuto, il proprio operato, e dunque chiuse l'aggeggio per gettarlo nella sacca appoggiata per terra.
“Socchan!”
A lui si avvicinò un frugoletto che serrava fra le mani uno zainetto a forma di tigrotto. Si mise a fissare l'altro dal basso, immobile se non per il respiro.
“|Avanti, Soh. Ho finito, possiamo andare. Su'|”
Poggiò una mano sulla testolina di quello e lo spinse leggermente per direzionarlo verso l'uscita del bagno.


Fuori dall'aereoporto c'era una brezza primaverile da far venire voglia di buttarsi in fiume. Peccato che di fiumi non ce ne fossero, e che lui avesse altro da fare: non poteva di certo far rientrare una gitarella in campagna fra le sue priorità, che ora erano ben più alte.
Certo che la voglia restava.
Si appoggiò al muro, lanciando continue occhiate verso Soh, mai che gli girasse di fare qualcosa di strano. Levò leggermente il capo, intento ad annusare l'odore di primavera, che veniva drasticamente cancellato dallo smog.
Non aveva nulla da fare, pensò. Dovevano aspettare fin troppo tempo, il pullman se ne sarebbe arrivato con tutta la calma del mondo. Che Noia.
Chi passava di lì notava due esseri piuttosto anomali, anche se non del tutto incontemplati dal mondo. Uno era un bimbetto di forse cinque anni, i capelli neri, come gli occhi, il naso minuscolo e le guanciotte abbondanti, la carnagione color biscotto: aveva dei vestiti larghi, comodi, perfettamente proporzionati e colmi dei più teneri scarabocchi.
L'altro, intento a prender sole appoggiato ad un muro, sembrava in qualche modo tener conto del più piccolo, sebbene non apparisse particolarmente sicuro, come balia: condivideva con l'altro il colore della pelle e quello dei capelli, nonostante questi si presentassero con ciocche bionde e fortemente ricoperti di gel per costringerli in una posizione assurda: pesanti sul davanti, sparati sulla nuca. Indosso una camicia bianca e nera, a righe verticali, rilucente, con una cravatta rossa intenta a svolazzare allegra; i pantaloni erano corti e strappatissimi, sotto, una calzamaglia nera, a chiudere con i calzetti nuovamente a righe, questa volta orizzontali, che strabordavano da stivali scuri. Le dita con svariati anelli, i polsi e le caviglie ornate di bracciali; al collo pendagli d'ogni genere, argentati e sinuosi, a rappresentare spade e tribali; sulla vita catene che penzolavano non senza fare un certo rumore. I lineamenti erano netti e lisci, dolci, tanto da lasciare un vago dubbio riguardo la sua età e, forse, anche sul suo genere, per quanto gli zigomi possenti e la mascella angolare lasciassero intendere una forte mascolinità. Per i suoi connazionali si sarebbe potuto erigere a monumento del perfetto ragazzo orientale, amato e bramato da qualsiasi femmina: se non fosse stato per quegli, stonatissimi, occhi.


“No”
Stava diventando Routine, e ne' lui, ne' lei, potevano farci niente.
Non solo la richiesta non sarebbe mai e poi mai mutata, ma nemmeno la risposta aveva alcuna speranza.
Rimaneva solamente il contratto: e, ormai, erano giunti al punto di rottura.
“Quattro?”
“Sei!”
“Quattro.”
“Sei.”
“Sei una lagna”
“SEI ORE!”
“Cinque, prendere o lasciare.”
“SEI, o ti licenzio.”
House spostò lo sguardo sul pavimento. Poi lo rialzò.
“Lo fai apposta. Guarda che lo so”
“Sono meno di quelle che spettano agli altri, e già questo non è perfettamente coerente, quindi, SEI, e vattene via prima che ti incateni in ambulatorio.”
“Adesso fa l'agressiva, ma poi le passa.”
Il cane fissò House quasi avesse capito, per poi andare a nascondersi dietro la scrivania della Cuddy.
“E portati via questo stipudo cane!”
“Non è mio, è di Wilson”
“Ma il cane di Wilson ce l'avevi tu”
“Nego l'evidenza. Che se lo riprenda il suo legittimo proprietario”
“PORTALO VIA!”
Il cane rimaneva accucciato, lanciando, ogni tanto, qualche mugolìo.
“Guarda, lo fai piangere.”
“House!”
“Wilson!”
“Non mi interessa!”
“Non posso farci niente, non è colpa mia.” Era un tono di pura ovvietà.
Cuddy, infastidita, guardò il cane. Il Cane guardò la Cuddy, poi tornò a mugolare, depresso.
”Per favore! Non so neanche come ci è entrato, qui”
“E perchè la cosa dovrebbe riguardarmi?”
“Sono il tuo Capo.”
“Ma io curo gii uomini, mica gli animali, hu.” Levò le sopracciglia, gli occhi cerulei larghi, sulle fronte la tipica schiera di rughette: il tono quasi infantile.
“Cosa c'entra!?”
“Cosa c'entro io, semmai”
“Ce l'avevi tu, il cane di Wilson!”
“Cosa c'entra!?”
Cuddy era lì lì per disperare, terrorizzata dal cane, che ormai piangeva, a sua volta terrorizzato dalle urla dei due.
“Ti tolgo un'ora di ambulatorio, VA BENE? SEI CONTENTO?”
House si poggiò sul bastone, esibendosi in un sorriso ebete, soddisfatto e schernidore.
“No.”
Volse le spalle alla Primaria, zoppicando, soddisfatto, fuori dal suo ufficio. Cuddy rimase immobile al voltafaccia dell'altro, che aveva preferito un'ora di pallosissimo ambulatorio al portare via il cane di Wilson dal suo ufficio.
Il cane starnutì.


“Nii-chan.”
Sul tavolo che divideva i due, una piantina spalancata ed una manciata di fogli sparpagliati.
“Onii-chan...”
Sul pavimento, due grossi borsoni pronti all'esplosione da sovraccarico.
“Daisuke-niichaaan!”
Daisuke si decise a levare lo sguardo dalla carta, guardando il fratellino, che lo fissava imbronciato e contrito.
“|Scusami, Socchan. Che c'è, hai fame?|”
D'altro canto, erano in un McDonalds. Il bimbetto annuì, esasperato.
“|Già. Giusto. Cosa vuoi?|” domandò il ragazzo, resosi conto di essere lì da quasi un quarto d'ora e non aver comprato ancora niente: le ragazze del bancone stavano iniziando a guardarlo male. Soh non rispose.
“|Va bene, ho capito come va a finire. Aspettami qui, va', e vedi di non muoverti, che ci manca solo che ti rincorra per tutta New York.|”
Soh annuì impercettibilmente, ma per Daisuke era sufficiente: si avvicinò al bancone, subendo una serie di occhiate per il suo aspetto stravagante, senza mancare di catturare l'attenzione delle più giovani, per dunque ritrovarsene una buona manciata intente a contemplarlo, dimentiche del proprio lavoro.
“Due Big Mac ed un the alla pesca. Grande.”
Pronuncia impeccabile, parlata leggermente scolastica. Quelle che si erano improvvisate sue fan furono lì per svenire sentendo la voce dall'intonazione a metà fra il grave ed il leggerissimo, molto distante dalla voce media Americana. Nemmeno perfettamente Giapponese.
“E un Happy Meal, per favore.”
Se ne tornò dopo aver lasciato alla commessa una montagna di monetine da smistare, per nulla intenzionato a sprecare le preziose banconote. Porse il cibo al bambino che iniziò a mangiare, muto, ma dall'aria felice.
“|La prossima volta si va in supermercato, che non ti faccia strane idee, Socchan.|”
Quello addentò le patatine oleose.
“|Se no finisce che ti ammazzi. Non siamo abituati 'ste cose, noi. E temo che non vedremo Nikomi Udon per un bel po'.|”
Soh si bloccò, fissando il fratello, implorante.
“|Poi qui costa una marea.|”
Ma Soh pensava ai Nikomi Udon, penando per la loro annunciata assenza nella sua dieta, e continuava a guardare il fratello in attesa che quello si smentisse.
“|Socchan, dài, non fare quella faccia. Vedrai che ti abituerai, non è mica un dramma.|”
Ma per Soh era un dramma.
Daisuke temette di averlo traumatizzato, come se quello che era accaduto fino ad allora non bastasse. Si pentì delle sue parole.
“|Da qui al New Jersey non è corta, vedrai che qualche ristorante giapponese lo troviamo, prima o poi.|”
Sapeva di starsi arrampicando sugli specchi, ma a Soh bastò: si attaccò alla cannuccia del the, cancellando il problema.
Daisuke si chinò nuovamente sulla carte, controllando gli orari delle varie linee per riuscire ad arrivare il prima possibile. Si poggiò la mano sul fianco, esausto, stanco di tutto quel progettare e trafficare con venticinquemila cartine diverse dell'America. Sul mappamondo gli era sempre sembrata meno temibile di quanto non lo fosse adesso.
Sui pantaloni, però, venne colpito dall'assenza di qualcosa. Iniziò a guardarsi attorno: non era per terra, ne' sul divanetto.
Oddìo.
Soh si era messo a giocare con la sorpresina dell'Happy meal, quando Daisuke andò a guardare terrorizzato il piccolo.
“|Hm... Socchan...|”
“|Zaino|”
Rispose lui, con la vocina acuta. Daisuke si scagliò sullo zaino ed iniziò a ravanarci dentro. Quando ricomparve da sotto il tavolo, esibì il mascara con una certa fierezza: ma Soh era molto più interessato dalla macchinina. Si mise l'oggeto ritrovato in tasca, facendo pat-pat con il palmo della mano sui jeans, come gesto scaramantico perchè rimanesse lì dove era, al sicuro.
Ma tanto era una battaglia persa: lo avrebbe imbucato di nuovo, ne era certo.






   
 
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