CAPITOLO
SEI – CALLARY, TUTTO HA INIZIO
Perfetta
così questa nostra stagione
di giorni insieme ad esplorare noi.
(Questa
nostra stagione, E. Ramazzotti)
Un
vecchietto dalla faccia cadente e mezzo ripiegato
su se stesso aprì il pesante portone di legno e
strizzò gli occhi per vedere i
due uomini che avevano bussato.
Il St. Mary’s Patron si presentava come un edificio di
dimensioni notevoli,
però piuttosto vecchio e dai muri scrostati. Il tetto era
stato riparato in
alcuni punti con un lavoro piuttosto improvvisato e alcune finestre
avevano delle
assi di legno inchiodate. Era situato a mezz’ora di strada
fuori Cardiff, in
mezzo a un paesaggio brullo ma pittoresco.
Eppure non era disabitato, ci vivevano una trentina di bambini, tutti
senza
genitori, con alcune suore che si prendevano cura di loro e
provvedevano alla
loro istruzione.
Quella
mattina uggiosa Jack e Ianto si erano
presentati alla loro porta, dopo aver ricevuto una chiamata anonima da
un
numero proveniente da lì.
Il
Capitano aveva aperto la bocca per presentarsi,
ma il vecchio che aveva aperto loro la porta lo precedette.
“Salve, voi dovete
essere del Torchwood”. Aveva un tono basso, però
parlava piuttosto chiaramente.
“Siete arrivati presto”.
“Sì,
ehm…”, iniziò Ianto, senza sapere che
cosa dire
di preciso. “Siamo qui, pronti ad aiutarla”.
Lanciò un’occhiata in direzione
del compagno con un punto di domanda stampato in fronte. Jack, allora,
prese in
mano la situazionec come sapeva fare. “Io sono il Capitano
Jack Harkness e lui
è Ianto Jones. Ci fa entrare?”
L’anziano
signore, molto lentamente, si spostò e
spalancò la porta per farli passare.
“Venite,
non voglio parlare qui”, disse loro quando
si furono ritrovati in un corridoio poco illuminato.
“Ci
può dire chi è lei?” chiese allora Jack
che
aveva già intuito che in quel posto tirava una brutta aria.
E quel vecchietto
era piuttosto strano. Forse era dovuto solo al suo aspetto,
però… sì,
effettivamente c’era qualcosa che non andava nel suo aspetto.
“Oh,
sì scusate. Io sono Timothy Narborough e sono
il custode di questo orfanotrofio. Adesso vi pregherei di
seguirmi”.
Jack
strinse la mano di Ianto nella sua ed entrambi
lo seguirono. Il vecchietto camminava piuttosto lentamente,
appoggiandosi a un
bastone e, visto da dietro, la sua gobba sembrava ancora più
prominente.
Giunsero fino al fondo del corridoio e il custode aprì
un’altra porta, questa
volta più piccola, che dava accesso a una specie
di… stanzino o ripostiglio.
Vicino ai muri erano stipati degli scatoloni, tanti scatoloni, mentre
al centro
vi erano un tavolino e una sedia, entrambi di legno. C’era
solo un muro libero
da quelle scatole di cartone, dove si apriva una piccola finestra con i
vetri
opachi per la sporcizia.
Insomma, era praticamente un buco quella stanza. Adesso Jack e Ianto
sapevano
come si sentiva un pesce intrappolato in una boccia di vetro.
L’anziano
si buttò pesantemente sulla sedia e tirò
un sospiro di sollievo. Sembrava che camminare gli costasse parecchia
fatica.
Guardandolo meglio e con la poca luce del sole che filtrava dalla
finestra, i
due uomini notarono solo ora quanto la sua vecchiaia fosse avanzata. Il
volto
era pieno di rughe, gli occhi piccoli e scuri erano semichiusi dalla
palpebre
cadenti e la pelle cascante sulle guance gli aveva formato un doppio
mento. I
capelli erano bianchi e radi, quelli in cima alla testa erano tutti
caduti.
Gli avrebbero dato almeno novant’anni, eppure…
“Noi
abbiamo ricevuto uno chiamata questa mattina…”,
iniziò Ianto guardando il signore. C’era qualcosa
che gli impediva di spostare
lo sguardo da lui.
“Sono
stato io a chiamarvi”, rispose il Signor
Narborough. “In realtà nessun’altro sa
che siete qui. Il fatto è che… sono
scomparsi quattro bambini”. Ora li fissava intensamente, come
a volerli
studiare, con quei suoi occhi così vecchi ma estremamente
attenti.
“E
non potevate chiamare la polizia? Forse sono
semplicemente scappati”, ipotizzò Jack, senza
scomporsi.
“Oh
no. Loro… loro non se ne sono andati. Sono stati
portati via”.
“Ne
è certo, signor Narborough?” chiese Ianto.
Sentiva una strana inquietudine addosso. Quell’uomo gli
metteva una certa
soggezione.
“Sì.
Stanno succedendo delle cose strane. Molto
strane. Io le ho sentite”. Il suo tono era molto calmo, come
se stesse parlando
dell’ultima partita a scacchi che aveva giocato coi suoi
amici. Eppure i suoi
occhi posati sui due ospiti erano fissi, immobili, non stava nemmeno
sbattendo
le palpebre.
“Quando
sono scomparsi i bambini?” chiese Jack.
“Due
settimane fa”.
“Cosa?!”
esclamò Ianto spalancando gli occhi. “E
perché non ci avete chiamato prima?”
“Perché
la suora madre non ha voluto. Anche lei
pensa che i bambini siano scappati e
dice che non dobbiamo preoccuparcene”.
“Chi
è questa suora madre? Ci voglio fare una
chiacchierata”. La rabbia aveva fatto scomparire a Ianto
tutta la tensione che
aveva provato prima. C’erano dei bambini, probabilmente
piuttosto piccoli,
sperduti da qualche parte o forse rapiti da qualche individuo
pericoloso, che
non sapevano cosa fare. Questo non gli andava affatto bene.
Jack però gli mise una mano sulla spalla, come a intimargli
di stare calmo e di
non fare azioni di cui poi si sarebbe pentito.
“D’accordo”,
sospirò Jack. “Gli altri bambini dove
sono?”
“Adesso
sono in classe a fare lezione”.
“Possiamo
fare un giro dell’edificio? Per
controllare”.
“Certo.
Però se qualcuno ve lo chiede, non dite che
vi ho chiamati io. La suora madre diventa severa quando qualcuno le
disobbedisce”.
Jack
e Ianto uscirono dalla stanza claustrofobica,
il primo con un milione di pensieri circa quello che poteva star
accadendo in
quell’orfanotrofio e il secondo pensando a quanto gli stesse
antipatica quella
suora madre. E non l’aveva nemmeno conosciuta.
“Ianto,
se ci dividiamo facciamo prima. Tu vai di
sopra, io controllo qui sotto”.
Il
ragazzo annuì e fece come il Capitano gli aveva
ordinato. Salì lentamente le imponenti scale vicine
all’ingresso guardandosi
attorno con fare circospetto. Il posto era pieno di polvere e negli
angoli del
soffitto i ragni si erano intessuti la loro casa.
Ma non c’era nessuno che teneva in
ordine?, si chiese, di certo quel vecchio custode non poteva
fare granché.
Arrivò in un altro lungo corridoio ai cui lati si aprivano
diverse porte e
finestre. L’ambiente era piuttosto silenzioso, nemmeno una
mosca si sentiva
volare. Non c’erano luci accese, se non quella che penetrava
dalle finestre,
che non era comunque abbastanza, sia perché anche quelle
finestre, come quella
nello stanzino, erano piuttosto sporche, sia perché la luce
del sole quel
giorno era debole. Perciò anche quel corridoio era in
penombra.
Ianto
si avviò, camminando sul tappeto grigio e
consunto che copriva le assi scricchiolanti che fungevano da pavimento
e aprì
la prima porta. Si ritrovò in quella che doveva essere una
camera da letto,
piena di brandine di ferro simili a quelle degli ospedali della seconda
guerra
mondiale. Ce n’erano almeno una trentina, tutte identiche e
sulla parete in
fondo era appoggiato un grande armadio di mogano, impolverato
anch’esso. Le
finestre di quella stanza erano leggermente più grandi delle
altre presenti in
quell’edificio e decisamente più pulite. Entrava
più luce lì dentro e Ianto si
sentì già un po’ più
tranquillo.
Girovagò
un po’ per la stanza, sbirciando qui e là,
guardando sotto i letti, restando in ascolto di eventuali rumori
sospetti.
Aveva portato con sé uno dei tanti macchinari di Tosh,
quello che captava i
segnali alieni, ma non c’era niente.
Decise, perciò, di dare un’occhiata alla porta
accanto.
Questa voltò si trovò in quella che doveva essere
una stanza giochi, a
giudicare dagli oggetti che c’erano. Alcune bambole di pezza
con occhi o
braccia mancanti appoggiate sulle mensole, macchinine mezze rotte e
alcuni
libri stropicciati, una sedia a dondole di fronte all’unica
finestra.
Ianto
si avvicinò proprio alla finestra per dare una
sbirciatina fuori. C’erano solo un grande cortile pieno di
ghiaia e alcuni
enormi salici dai rami biforcuti.
Ad un tratto, però, vide una figura scura sbucare da quegli
alberi. Era vestita
di nero e si stava dirigendo velocemente all’interno
dell’edificio.
“Signore!”
Il
ragazzo per poco non balzò in aria per lo
spavento. Si voltò verso la voce che lo aveva chiamato,
trovandosi di fronte un
bambino sui dieci anni, capelli biondo rossicci tagliati a caschetto e
parecchie lentiggini sparse attorno al naso.
“Ciao”,
lo salutò. “Chi sei?”
“Mi
chiamo Brian Wilkins, signore. Lei che ci fa
qui?”
“Sono…
sono solo venuto a… controllare una cosa. Non
dovresti essere a lezione?”
Il
bambino non gli rispose, si limitò a osservarlo
con i suoi penetranti occhi neri. Ianto fu percorso da dei brividi
lungo la
schiena.
All’improvviso, però, sentì delle voci
provenire dal piano di sotto che parlavano
in modo piuttosto concitato.
Brian si voltò e corse verso le scale. Ianto lo
seguì.
Le
voci lo condussero fino a quella che, con molta
probabilità, era una sala da pranzo. Non era una stanza
molto diversa dalle
altre, almeno per quanto riguardava la rarità dei mobili e
la poca luce che
filtrava, però era leggermente più grande. Al
centro ospitava un lungo tavolo
di legno lucidato con sedie tutt’attorno e un piccolo
armadietto che custodiva
dei piatti e delle tazzine dietro ad ante di vetro.
La stanza era piuttosto affollata in quel momento. C’era Jack
circondato da
alcune suore, tutte vestite perfettamente con la loro divisa e il velo
in
testa. Il Capitano, tuttavia, non sembrava affatto a disagio,
continuava a
mantenere la sua aria spavalda, come se tutto ciò lo
divertisse.
“Ma
bene, ce n’è un altro!”
esclamò una delle donne
nel veder sopraggiungere Ianto. Il ragazzo però non rispose,
si limitò ad
osservarle tutte quante e immediatamente uno strano sospetto lo
assalì. Erano
tutte piuttosto anziane. Non quanto il custode Narborough,
però quasi. “E tu, Brian?
Dov’eri finito? Dovevi tornare in classe!” aggiunse
in direzione del ragazzino
che era arrivato con Ianto.
“Mi
scusi, suor Theresa”, rispose quello, abbassando
il capo, dispiaciuto.
“Va
bene. Ora però torna in classe”. Brian
obbedì
senza protestare, ma lanciò una penetrante occhiata a Ianto,
come se volesse
dirgli qualcosa con lo sguardo.
“Insomma,
si può sapere cos’è tutto questo
fracasso?” chiese un’altra voce di donna,
proveniente dal corridoio. Un’altra
suora aveva fatto il suo ingresso nella sala da pranzo, identica alle
altre per
l’abbigliamento, ma sembrava più giovane, non
aveva tutte quelle rughe a
solcarle il viso. Piuttosto era parecchio pallida e
i suoi occhi nerissimi quasi non lasciavano
vedere la pupilla. Dietro di lei, arrancando, era arrivato anche il
custode.
“Chi siete voi?” chiese la suora a Jack e Ianto,
squadrandoli dall’alto in
basso. Il suo sguardo minaccioso non tranquillizzava molto.
“Mi
permetta di presentarmi!” esclamò Jack con un
sorriso. Ianto si chiese come facesse lui ad essere così
tranquillo. E non
tanto per le suore sclerate o per il custode strano. Era tutto quel
posto che
non gli piaceva. “Io sono il Capitano Jack
Harkness”.
“E
il suo amico chi è?” berciò, guardando
male
Ianto.
“Lui
è il mio compagno, Ianto Jones. Lei invece chi
è?”
“Io
sono la suora madre e la direttrice di questo
orfanotrofio”.
“Ah
bene”.
Così
giovane?,
penso Ianto. Di solito le suore madre venivano
scelte per il livello di esperienza e altre cose, il che richiedeva
anche una
certa età. E quella suora madre era la più
giovane in quel posto. Almeno così
sembrava.
“Cosa
ci fate qua?” La suora madre non sembrava
voler mostrare simpatia.
“Siamo
venuti ad indagare sulla scomparsa di quattro
bambini”.
“Cosa?
Chi vi ha chiamati?”
“Questo
non ha importanza. Dobbiamo sapere alcune
cose. Vi possiamo fare delle domande?” Jack stava mostrando
tutta la gentilezza
di cui era capace, ma la suora madre ancora non sembrava volersi
fidare.
Piuttosto, stava probabilmente pensando a tutti i modi possibili per
cacciare i
due intrusi fuori di lì. Le altre, invece, si lanciavano
occhiate furtive le
une tra le altre, come se temessero qualcosa.
“Siete
della polizia?”
“No,
non siamo della polizia”.
“E
allora cosa siete?”
“Siamo
del Torchwood”. Ora anche Jack iniziava a
spazientirsi. Non lasciò il tempo all’altra di
emettere fiato che le chiese
subito: “Lavorate solo voi cinque qui?”
“Sì,
siamo solo noi”. Il tono della suora madre era
ancora acido, però almeno aveva iniziato a rispondere alle
domande.
“E
riuscite a gestire tutti questi bambini?” le
chiese Ianto un po’ stupito.
“Sì,
certo. Non è mica così difficile. Sono dei
bravi bambini”. La risposta l’aveva data
un’altra suora, ma abbassò il capo
allo sguardo inceneritore della direttrice.
“In
che circostanze sono scomparsi i bambini?”
“Noi
non abbiamo denunciato nessuna scomparsa…”. La
suora che aveva parlato poco fa venne improvvisamente colta da un
accesso di tosse
che la fece piegare in due, interrompendo così quello che
stava dicendo la
suora madre. Si portò un fazzoletto alla bocca, dando le
spalle ai presenti.
“Vieni,
prenditi un bicchiere d’acqua”, le
sussurrò
quella che le stava vicino, dandole delle leggere pacche sulla schiena.
La
suora bevve tutto d’un sorso l’acqua che la collega
le aveva dato e la tosse si
calmò subito. Infine, poggiò il bicchiere sul
tavolo.
“Le
stavo dicendo…”, continuò la
direttrice. “Che
noi non abbiamo denunciato nessuna scomparsa. Qui non è
scomparso nessuno. E
ora, per favore, andatevene!”
“D’accordo,
d’accordo”, cedette Jack. “Ianto,
andiamocene. Qui non siamo i benvenuti”. Allungò
una mano verso il tavolo,
senza farsi notare da nessuno.
Ianto rimase un po’ stupito dall’improvvisa
rinuncia di Jack, ma non si oppose.
Lui non vedeva solo l’ora di andarsene.
“Vi
accompagno alla porta”, si intromise il signor
Narborough.
I
due uomini lo seguirono senza aggiungere altro,
non accorgendosi nemmeno del piccolo Brian che li guardava andare via
seduto
sulle scale del corridoio.
“Signor
Narborugh”, fece Jack, allora, prima che
l’altro chiudesse la porta. “Qui vengono mai delle
persone in visita? C’è stata
qualche coppia che ha adottato mai uno di questi bambini?”
Il
vecchio si strinse nelle spalle e assunse un’aria
pensierosa. “Che io ricordi, Signore, i bambini che vivono
qui sono sempre
stati gli stessi”.
“Grazie”.
Quando
rientrarono al Nucleo, Gwen, Tosh e Owen
erano già arrivati e Jack e Ianto li trovarono a rigirarsi i
pollici, un po’
annoiati.
“Ehi,
dove siete stati?” chiese Gwen con
un’espressione un po’ contrariata.
“Una
spedizione in un orfanotrofio”, le rispose
Ianto. “Stamattina abbiamo ricevuto una chiamata dal custode.
A quanto pare
stanno scomparendo misteriosamente dei bambini”.
“Scomparendo?”
“Owen!”
esclamò il Capitano. “Ho un lavoretto per
te”. Estrasse un oggetto dalla tasca e la tirò al
dottore, che lo prese al
volo. Owen osservò curioso quel bicchiere di vetro che
stringeva in mano. A
quanto pareva dalle gocce d’acqua, doveva essere stato usato.
“Quando
lo hai preso?” chiese Ianto, sorpreso.
“Poco
prima che uscissimo. Owen, analizzami tutto
quello che c’è in quel bicchiere. Tosh, fammi una
ricerca sull’orfanotrofio di
St. Mary’s Patron”, ordinò Jack.
“Hai
dei sospetti?” gli chiese Ianto.
“Qualcuno”.
“Spiegatemi
questa cosa dell’orfanotrofio”, si
lamentò Gwen, puntando gli occhi sul Capitano.
“Il
custode ci ha detto che stanno avvenendo delle
cose strane in quel posto e che scompaiono dei bambini”. La
ragazza non fece in
tempo a chiedere nient’altro, che il Capitano
scappò nel suo ufficio con passo
svelto. Poco dopo
venne raggiunto da
Ianto che, silenziosamente, gli era arrivato alle spalle.
“Ehi”,
lo salutò Jack voltandosi verso di lui.
Delicatamente lo baciò sulle labbra. “Stai
bene?”
“Sì,
solo che…”.
“Solo
che?” Il Capitano gli poggiò le mani sui
fianchi.
“Stavo
solo pensando a quell’orfanotrofio. Sai, non
mi è piaciuto per niente, era…”.
“Nemmeno
a me, penso ci sia qualcosa di strano lì”.
“Non
era questo che intendevo”.
Jack
fissò i suoi occhi chiari in quelli azzurri di
Ianto che celavano in sé qualcosa che sembrava essere
un’aspettativa.
“Non
è un bel posto per dei bambini”, aggiunse il
ragazzo per specificare.
“Vorresti
accoglierli tutti in casa tua?” gli chiese
allora Jack, scherzosamente. Ma Ianto non rise. Continuò a
osservarlo serio.
“No, certo che no. Però…”.
“Se
non ci fossero gli orfanotrofi tutti quei poveri
bambini abbandonati resterebbero in mezzo alla strada, a morire di
freddo e di
fame”.
Ianto
non gli rispose. Si limitò ad abbassare lo
sguardo, puntandolo su un bottone della camicia di Jack. Il Capitano lo
teneva
ancora tra le braccia, ma avrebbe potuto districarsi dalle sue braccia molto facilmente.
No,
Jack, io avrei preferito stare in mezzo alla strada, pensò,
ma non glielo disse.
Alla
fine, si decise ad uscire dall’abbraccio del
Capitano e in pochi passi raggiunse la porta. Prima che uscisse,
però, l’altro
lo chiamò di nuovo. “Ianto, stiamo bene
insieme”, gli disse e questa volta non
c’era niente di sarcastico o scherzoso nel suo tono.
“Mi piace stare con te.
Non voglio che le cose cambino”.
Ianto annuì mestamente. Poi uscì, pensando a
quello che Jack gli aveva appena
detto. Certo, erano delle belle parole, proprio quelle che amava
sentire da
parte sua, però…
Forse
pretendo troppo.
Owen
aveva finito di esaminare il bicchiere che Jack
gli aveva dato e ora il Capitano si era affiancato al dottore che gli
stava
spiegando quello che aveva trovato.
Lo sguardo dell’ex Agente del Tempo era palesemente
interessato, ma non stava
guardando il collega, bensì aveva lo sguardo fisso nel vuoto.
“Come
sospettavo”, commentò alla fine, quando Owen
finì di parlare.
“Cosa?”
gli chiese Gwen in incuriosita. Anche
l’attenzione di Ianto e Tosh si era rivolta verso di lui.
“Si
chiama Arrannya
o anche Acqua della vita.
E’ una
sostanza che allunga la vita di chi la beve, ma ne va somministrata
molto poca.
Non provoca l’immortalità, semplicemente fa
sì che si possa vivere un po’ di
più, continuando a invecchiare”.
“Per
questo erano incredibilmente vecchie le suore
che stavano in quell’orfanotrofio”, dedusse allora
Ianto, lo sguardo acceso.
“Esattamente.
È una sostanza che produce parecchio
odore, l’avevo sentita nel loro alito. Viene prodotta sul
pianeta di Callary, ma da quello
che mi risulta,
dopo pochi anni è stata bandita e la si cominciò
a vendere sotto banco.
Chiunque fosse stato trovato in possesso dell’Arrannya
sarebbe andato incontro a dure sanzioni”.
“Ci
credo!” esclamò Ianto, guardando in direzione di
Jack che aveva un’espressione strana dipinta in volto.
“E’
un po’ come la droga, no?” puntualizzò
Toshiko,
togliendosi gli occhiali da vista.
Il
Capitano ridacchiò. “Sì, più
o meno, solo che i
suoi effetti non sono così evidenti come quelli della droga
e non se ne diventa
dipendenti. La vita su Callary
mediamente
è molto breve, per questo hanno cercato di creare una
sostanza che potesse
allungare la vita”.
Un
veloce giro di sguardi attraversò il Nucleo.
Tutti quanti avrebbero voluto sapere qualcosa di più su
questo pianeta e su
questa incredibile sostanza, ma nessuno aveva il coraggio di chiedere
altre
spiegazioni a Jack.
Avevano intuito che quello era un argomento piuttosto delicato per il
loro
Capitano, doveva far parte del suo passato, molto probabilmente, e non
volevano
turbarlo.
“Bene,
allora!” esclamò improvvisamente Owen
battendo le mani e facendo riscuotere tutti dall’improvviso
turbamento in cui
erano finiti. “Sappiamo chi sono e cosa sono. Possiamo
agire”.
Jack, però, gli mise una mano sulla spalla, guardandolo
intensamente con i suoi
occhi chiari, come a volergli dire di stare calmo con uno sguardo.
“Non cosi in
fretta”, lo contraddisse. “I Callaryani sono
creature molto pericolose,
dobbiamo stare attenti. Dobbiamo organizzarci bene, non possiamo
piombare
nell’edificio come niente fosse. Inoltre, non sappiamo se
siano proprio in
quell’orfanotrofio, le suore potrebbero essere soltanto delle
cavie. Andiamo in
sala riunioni e discutiamone lì”.
E
senza aspettare risposte da parte dei suoi amici,
Jack si avviò velocemente verso la grande stanza che
ospitava al centro un
lungo tavolo di legno.
Gwen, Tosh, Owen e Ianto si sedettero ai posti che occupavano di
solito, mentre
Jack si posizionò a capotavola, restando in piedi con le
mani poggiate sulla
superfice del mobile.
“Allora,
cosa sai dirci di questi Callaryani?”
chiese Gwen, lo sguardo puntato sul Capitano.
L’uomo
prese un respiro e, facendo vagare lo sguardo
dall’uno all’altro dei suoi colleghi,
iniziò a parlare. “Hanno una forma quasi
identica a quella umana, però sono molto più
pallidi e hanno tutti gli occhi
molto scuri. Hanno però anche un altro aspetto, con una coda
molto lunga e
delle ali da pipistrello”.
“Qual
è il loro punto debole?” domandò Owen,
allora,
che era parecchio affascinato da queste strane creature. Come gli altri
del
resto.
“Sono
vulnerabili come gli umani, ma hanno un potere
di autoguarigione, se riescono ad attivarlo. Però sono molto
agili e veloci,
dovremo stare attenti a non farci cogliere di sprovvista”.
“Certo,
non sarà un problema”, commentò Gwen,
pregustandosi già l’azione che sarebbe seguita di
lì a poco.
I
cinque membri del Torchwood ultimarono i dettagli
con cui sarebbero entrati in gioco per affrontare una nuova minaccia
aliena e
si decisero ad andare a fare una piccola incursione
nell’orfanotrofio quella
notte.
Perciò, per quelle poche ore che li separavano da quella
missione, Jack decise
di mandarli a casa a riposarsi.
Quando
gli orologi batterono la mezzanotte, Jack,
Gwen, Tosh, Owen e Ianto abbandonarono il loro Suv e si incamminarono
nell’ampio cortile incurato del rudere che vi sorgeva nel
mezzo, a passo svelto
ma cauto, guardandosi attorno continuamente.
Il Capitano apriva il piccolo corteo, gli altri quattro invece
seguivano la
coda del suo capotto svolazzante, in posizione simmetrica.
Improvvisamente, si fermò vicino alla gradinata che portava
all’ingresso e si
voltò verso i suoi compagni.
“Io
e Ianto andiamo dentro, voi tre controllate nei
dintorni. Teniamoci in contatto”.
Annuirono
tutti senza protestare, controllando però
di avere la pistola al proprio posto.
I
due rimasti si avvicinarono a una finestra rotta
e, senza bisogno di parole, seppero immediatamente che cosa fare. Ianto
si issò
sul bordo dell’apertura cercando di tirarsi su. mentre il suo
compagno lo
aiutava da sotto spingendolo per i fianchi. Quando il ragazzo fu
entrato, aiutò
il Capitano allungandogli una mano e tirandolo dentro.
Poi si rialzarono in piedi spolverandosi i vestiti. Il più
giovane puntò la
torcia accesa, illuminando l’ambiente e notarono di essere in
una piccola
stanza quadrata, completamente spoglia e piena di ragnatele e polvere.
“D’accordo,
direi di iniziare a perlustrare le varie
stanze”, disse Jack e l’altro si
precipitò immediatamente alla porta, uscendo
in corridoio. “Aspetta!” lo fermò
però il compagno, raggiungendolo in pochi
passi. Gli stampò un dolce bacio sulle labbra e, guardandolo
negli occhi, con
un sorriso, gli sussurrò: “Sta’
attento”.
Ianto
annuì e si allontanò con un sorriso appena
accennato a decorargli le labbra. Estrasse la pistola dalla fondina
anche se
non c’era nessuna minaccia, né concreta
né probabile. Però stringerla in pugno
lo faceva sentire più al sicuro, anche se avrebbe di gran
lunga preferito avere
Jack accanto. Entrò nella cucina, piena di fornelli e
pentole appese sopra un
piccolo tavolo da lavoro. L’aria era ancora impregnata
dell’odore di cibo.
Si guardò attorno con circospezione, facendo luce dietro ad
ogni mobile e in
ogni angolo, attento a non fare rumore coi piedi. Non dovevano
svegliare
nessuno degli abitanti.
Dopo
poco decise di uscire da lì e andare a vedere
da un’altra parte. Ma proprio mentre stava per svoltare in un
angolo, qualcuno
gli venne addosso e Ianto per poco non ebbe un infarto.
Illuminò l’intruso con
la torcia constatando che era solo il vecchio custode ed
esalò un sospiro di
sollievo. Dietro di lui arrivò anche Jack.
“Di
sopra”, sentì mormorare all’uomo.
Guardandolo
meglio si accorse che aveva una faccia strana, piuttosto pallida, gli
occhi
erano spalancati e sembrava che non vedessero. “Sta
succedendo adesso”.
Ianto
e Jack non esitarono un attimo e corsero su
per le scale, carichi di adrenalina che non li faceva neanche sentire
la paura.
Quando
giunsero nel corridoio del piano superiore,
però, non trovarono niente di strano o sospetto. Decisero di
dividersi di nuovo
e di controllare in ciascuna delle porte. Ianto aprì la
prima che gli capitò e
si ritrovò di nuovo nella sala giochi che aveva visto quella
mattina. Le
bambole e i pupazzetti erano molto più inquietanti al buio,
sembrava che lo
stessero guardando minacciosamente. Ma a parte quello non
c’era niente di
anormale.
Ad
un tratto, però, sentì uno strano rumore, come
una specie di sibilo e puntò la torcia per terra,
sospettando che fosse un
serpente. Effettivamente c’era qualcosa che strisciava, ma
non era un serpente.
Sembrava un piccolo verme molto grosso che lasciava dietro di
sé una scia di
una poltiglia giallognola, come la saliva delle lumache.
Si chinò ad osservarla meglio, incuriosito, non dubitando
nemmeno che potesse
fargli del male, una creaturina così minuscola e
apparentemente innocua.
Di sicuro non si aspettava che gli saltasse addosso come invece fece,
posandosi
sul suo avambraccio. Ianto sentì un dolore penetrante
pervadergli tutto il
braccio, come se qualcuno gli avesse affondato l’arto con un
coltello, e vide
del sangue sgorgare e macchiargli la giacca elegante. Prese il
vermiciattolo
con l’altra mano e cercò di toglierselo di dosso,
faticando parecchio. Quando
ci riuscì, lo buttò a terra e lo
calpestò con un piede. Quello che ne rimase
dopo era solo una poltiglia schifosa e appiccicosa.
Controllò la ferita al braccio, notando un taglio piuttosto
lungo. Non sembrava
però aver intaccato alcuna arteria.
“Ianto!”
si sentì improvvisamente chiamare e
riconobbe la voce di Jack.
Si
precipitò nella stanza accanto e quello che vide
lo lasciò a bocca aperta: le cinque suore erano sedute
attorno a un tavolo
rotondo e sembrava che fossero in uno stato di trance, gli occhi
sbarrati e lo
sguardo rivolto in nessun punto. Quella in mezzo, però, che
doveva essere la
suora madre, emanava una strana luce azzurrognola che illuminava tutta
la
stanza, ma che non sembrava dirigersi da nessuna parte.
Jack
e Ianto erano rimasti fermi immobili vicino
alla porta, a guardare la scena senza sapere che fare. Ad un tratto,
però, la
suora madre si sollevò a mezz’aria, dietro la sua
schiena si intravedevano due
grandi ali da pipistrello e una lunga e grossa coda da lucertola che
sfiorava
il pavimento.
Emise un fischio acuto e, girandosi di scatto, tentò di
colpire i due uomini
proprio con la coda. Loro, però, riuscirono a scansarsi
appena in tempo per non
venire colpiti, buttandosi a terra, ma poi sentirono un fragoroso
frastuono e
videro i vetri delle finestre volare ovunque.
L’alieno era scappato fuori.
“Gwen,
Tosh, Owen!” gridò Jack nell’auricolare
che
aveva all’orecchio. “Sta scappando fuori. Cercate
di fermarlo”.
Il
Capitano aiutò il compagno a rialzarsi e poi si
precipitarono di sotto, uscendo fuori in cortile. Qui trovarono
l’alieno al
centro, imprigionato dentro una specie di gabbia fatta di energia
elettrica,
uno dei tanti strumenti che collezionavano al Nucleo, e Gwen, Tosh e
Owen
attorno, che guardavano la creatura con interesse.
Jack sorrise per il fantastico tempismo dei tre.
Quando
si avvicinarono alla gabbia, videro che la
Callaryana aveva ancora le sembianze della suora madre, col viso pieno
di rughe
e gli occhi scavati, però aveva due canini affilati che
sbucavano dalla bocca e
le ali e la coda la facevano apparire totalmente diversa. Indossava
ancora la
divisa da suora, ma non aveva il velo, perciò i suoi capelli
bianchi cascavano
sulle spalle e sotto la luce forte della luna glieli faceva sembrare
fluorescenti.
“Come
ti chiami?” le chiese Jack, a pochi passi di
distanza.
Lei
li guardò tutti quanti minacciosamente e sembrò
emettere una specie di ringhio. Però non diede alcuna
risposta.
“Non
ti faremo del male”, la tranquillizzò il
Capitano allora, in tono molto gentile. “Se
collabori”.
“Sono
Laetitia”, rispose finalmente lei, puntando
gli occhi scuri come la pece in quelli dell’uomo di fronte a
lei.
“Perché
sei venuta qui?”
“Per
il mio popolo”.
Ianto
inarcò le sopracciglia.
“Che
intendi?”
“Mi
hanno mandata per compiere una missione”.
“Cioè?”
“Prendere
dei bambini”.
Jack
spalancò la bocca incredulo. “E
perché?”
Laetitia
abbassò il capo. “Cosa ti importa saperlo?
Tanto mi ucciderai”.
“Non
ho detto che ti ucciderò”.
“Ma
lo farai. In un modo o nell’altro”. La voce
della Callaryana era pacata e tranquilla, sembrava non avere paura di
essere
stata catturata. O di venire uccisa. Lo diceva come fosse una cosa
normale,
come se le capitasse tutti i giorni.
“Ti
lascerò tornare a casa. Ma prima dimmi: da
quanto tempo sei qui?”
“Dieci
anni”.
“E
perché?”
“Per
il mio popolo”.
Owen
sbuffò. Così non si andava da nessuna parte.
“E
le altre suore e il custode? Loro sanno che cosa
sei? Da quanto tempo sono qui?”
“Loro
fanno parte di un progetto ben più grande,
possono benissimo essere sacrificati. Servono solo da
tramite”.
“Per
cosa?”
“Per
i bambini”.
Jack
rimase un attimo a fissarla, poi ghignò in modo
un po’ arrogante. “Allora, se ho capito bene, il
tuo popolo vuole dei bambini.
Hai allungato la vita di quelle suore per poterle sempre avere
accanto”.
La
Callaryana distese le labbra in quello che pareva
essere un sorriso, un sorriso rassegnato, forse.
“Adesso
puoi uccidermi”.
“Ho
detto che non ti ucciderò. Dimmi qual è questo
progetto. Cosa vuole il tuo popolo?”
Ma
l’aliena non gli rispose. Spostò lo sguardo su
Ianto che indietreggiò sotto i suoi occhi neri e scrutatori.
“Tu sanguini”, gli fece notare, riferendosi al suo
braccio. Il ragazzo spostò
lo sguardo sulla ferita dove c’era ancora del sangue, che
però stava iniziando
a seccarsi.
Improvvisamente,
la creatura fece sparire le ali e
la coda e tornò ad avere un aspetto completamente umano. O
quasi. Allungò una
mano verso le sbarre e, proprio nel momento in cui le toccò,
una potentissima
scarica elettrica la percosse, facendola gridare violentemente. Nessuno
si era
aspettato quel gesto, nessuno lo aveva previsto.
“No!”
urlò Owen, premendo il pulsante per disattivare
la gabbia. La Callaryana cadde a terra con gli occhi chiusi, il corpo
scomposto, i capelli sparsi per terra.
Il dottore si chinò per toccarle il polso, poi
alzò il capo verso i suoi amici
con un’espressione affranta. “E’
morta”, disse solamente.
Jack sospirò, dispiaciuto più per non aver avuto
le informazioni che voleva. Si
avvicinò a Ianto e gli prese il braccio guardando la ferita.
Anche se non era
grave, era piuttosto profonda. Estrasse un fazzoletto dalla tasca e
glielo legò
per fermare il sangue.
“Ultimamente
ti ferisci un po’ spesso, Ianto”, fu il
commento di Owen quando finì di mettere i punti al braccio
ferito dell’amico.
Erano tornati alla base, con un’aria un po’
affranta, ma contenti che almeno
quell’avventura si fosse conclusa.
Non erano riusciti a ritrovare i quattro bambini scomparsi e nemmeno
togliersi
il pensiero di un’altra possibile minaccia da parte di Callary, ma almeno i bambini di
quell’orfanotrofio erano al sicuro,
sotto la custodia delle altre suore che non si ricordavano niente di
quello che
era successo.
Owen passò un paio di giri di garza
sull’avambraccio di Ianto e gli permise di
andare.
Il ragazzo si diresse verso Jack, che lo stava aspettando vicino alle
scale.
Sembrava piuttosto stanco. Gli prese una mano e lo trasse a
sé dandogli un
bacio, cingendogli la vita con le braccia e stringendolo forte. Ianto
lo lasciò
fare, piacevolmente sorpreso da quella improvvisa dimostrazione
d’affetto.
Infine, smisero di baciarsi ma non si separarono. Il giovane
appoggiò la testa
sulla spalla dell’altro, stancamente, godendosi il suo
profumo, mentre il
Capitano lo cullava e gli dava un bacio sulla fronte.
Intanto
gli altri
cominciarono a prepararsi per tornare a casa.
MILLY’S
SPACE
Allora,
solo alcune piccole note: questo potrebbe
sembrarvi solo un’avventura come tante altre affrontate dal
Torchwood, ma vi
dico già che è piuttosto importante per gli
avvenimenti futuri. Callary non ho
idea se esista, non credo (^^). E’ una mia totale invenzione,
così come l’Arrannya,
quindi ne detengo i diritti d’autore u.u
Detto
questo vi ringrazio per la cortese attenzione e
spero che mi lascerete qualche recensione. Inoltre, non dimenticatevi
di dare
un’occhiata alla mia pagina face.
https://www.facebook.com/MillysSpace
Bacioni : )
SWEETLADY98: ehi, spero che
questo capitolo ti
sia piaciuto altrettanto… sì, pure io adoro
Rhiannon : ) be’, spero tu abbia
tempo per lasciarmi una recensione e se no pazienza…
bacioni, M.
PUFFOLA_LILY: eccolo qua, il
capitolo ^^ sì, Jack
è assolutamente fantastico. Anche io me lo sposerei, se non
lo shippassi troppo
con Ianto ^^ ahaha fatti risentire, un bacio. Milly