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Autore: millyray    29/06/2013    1 recensioni
Per chi odia le morti ingiuste anche se eroiche dove a sopravvivere sono i malvagi, perché le eccezioni esistono, esistono sempre. Per chi ama il trionfo degli amori, gli amori veri, quelli un po' platonici e un po' terreni, a volte anche scontati. Per chi odia i misteri e i segreti che si celano dietro gli occhi di qualcuno, ma ama l'aria tormentata che essi hanno.
Be', credo che siate nel posto giusto.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO SEI – CALLARY, TUTTO HA INIZIO

Perfetta così questa nostra stagione
di giorni insieme ad esplorare noi.
(Questa nostra stagione, E. Ramazzotti)

Un vecchietto dalla faccia cadente e mezzo ripiegato su se stesso aprì il pesante portone di legno e strizzò gli occhi per vedere i due uomini che avevano bussato.
Il St. Mary’s Patron si presentava come un edificio di dimensioni notevoli, però piuttosto vecchio e dai muri scrostati. Il tetto era stato riparato in alcuni punti con un lavoro piuttosto improvvisato e alcune finestre avevano delle assi di legno inchiodate. Era situato a mezz’ora di strada fuori Cardiff, in mezzo a un paesaggio brullo ma pittoresco.
Eppure non era disabitato, ci vivevano una trentina di bambini, tutti senza genitori, con alcune suore che si prendevano cura di loro e provvedevano alla loro istruzione.

Quella mattina uggiosa Jack e Ianto si erano presentati alla loro porta, dopo aver ricevuto una chiamata anonima da un numero proveniente da lì.

Il Capitano aveva aperto la bocca per presentarsi, ma il vecchio che aveva aperto loro la porta lo precedette. “Salve, voi dovete essere del Torchwood”. Aveva un tono basso, però parlava piuttosto chiaramente. “Siete arrivati presto”.

“Sì, ehm…”, iniziò Ianto, senza sapere che cosa dire di preciso. “Siamo qui, pronti ad aiutarla”. Lanciò un’occhiata in direzione del compagno con un punto di domanda stampato in fronte. Jack, allora, prese in mano la situazionec come sapeva fare. “Io sono il Capitano Jack Harkness e lui è Ianto Jones. Ci fa entrare?”

L’anziano signore, molto lentamente, si spostò e spalancò la porta per farli passare.  

“Venite, non voglio parlare qui”, disse loro quando si furono ritrovati in un corridoio poco illuminato.

“Ci può dire chi è lei?” chiese allora Jack che aveva già intuito che in quel posto tirava una brutta aria. E quel vecchietto era piuttosto strano. Forse era dovuto solo al suo aspetto, però… sì, effettivamente c’era qualcosa che non andava nel suo aspetto.

“Oh, sì scusate. Io sono Timothy Narborough e sono il custode di questo orfanotrofio. Adesso vi pregherei di seguirmi”.

Jack strinse la mano di Ianto nella sua ed entrambi lo seguirono. Il vecchietto camminava piuttosto lentamente, appoggiandosi a un bastone e, visto da dietro, la sua gobba sembrava ancora più prominente.
Giunsero fino al fondo del corridoio e il custode aprì un’altra porta, questa volta più piccola, che dava accesso a una specie di… stanzino o ripostiglio. Vicino ai muri erano stipati degli scatoloni, tanti scatoloni, mentre al centro vi erano un tavolino e una sedia, entrambi di legno. C’era solo un muro libero da quelle scatole di cartone, dove si apriva una piccola finestra con i vetri opachi per la sporcizia.
Insomma, era praticamente un buco quella stanza. Adesso Jack e Ianto sapevano come si sentiva un pesce intrappolato in una boccia di vetro.

L’anziano si buttò pesantemente sulla sedia e tirò un sospiro di sollievo. Sembrava che camminare gli costasse parecchia fatica. Guardandolo meglio e con la poca luce del sole che filtrava dalla finestra, i due uomini notarono solo ora quanto la sua vecchiaia fosse avanzata. Il volto era pieno di rughe, gli occhi piccoli e scuri erano semichiusi dalla palpebre cadenti e la pelle cascante sulle guance gli aveva formato un doppio mento. I capelli erano bianchi e radi, quelli in cima alla testa erano tutti caduti.
Gli avrebbero dato almeno novant’anni, eppure…

“Noi abbiamo ricevuto uno chiamata questa mattina…”, iniziò Ianto guardando il signore. C’era qualcosa che gli impediva di spostare lo sguardo da lui.

“Sono stato io a chiamarvi”, rispose il Signor Narborough. “In realtà nessun’altro sa che siete qui. Il fatto è che… sono scomparsi quattro bambini”. Ora li fissava intensamente, come a volerli studiare, con quei suoi occhi così vecchi ma estremamente attenti.

“E non potevate chiamare la polizia? Forse sono semplicemente scappati”, ipotizzò Jack, senza scomporsi.

“Oh no. Loro… loro non se ne sono andati. Sono stati portati via”.

“Ne è certo, signor Narborough?” chiese Ianto. Sentiva una strana inquietudine addosso. Quell’uomo gli metteva una certa soggezione.

“Sì. Stanno succedendo delle cose strane. Molto strane. Io le ho sentite”. Il suo tono era molto calmo, come se stesse parlando dell’ultima partita a scacchi che aveva giocato coi suoi amici. Eppure i suoi occhi posati sui due ospiti erano fissi, immobili, non stava nemmeno sbattendo le palpebre.

“Quando sono scomparsi i bambini?” chiese Jack.

“Due settimane fa”.

“Cosa?!” esclamò Ianto spalancando gli occhi. “E perché non ci avete chiamato prima?”

“Perché la suora madre non ha voluto. Anche lei pensa che i bambini siano scappati e  dice che non dobbiamo preoccuparcene”.

“Chi è questa suora madre? Ci voglio fare una chiacchierata”. La rabbia aveva fatto scomparire a Ianto tutta la tensione che aveva provato prima. C’erano dei bambini, probabilmente piuttosto piccoli, sperduti da qualche parte o forse rapiti da qualche individuo pericoloso, che non sapevano cosa fare. Questo non gli andava affatto bene.
Jack però gli mise una mano sulla spalla, come a intimargli di stare calmo e di non fare azioni di cui poi si sarebbe pentito.

“D’accordo”, sospirò Jack. “Gli altri bambini dove sono?”

“Adesso sono in classe a fare lezione”.

“Possiamo fare un giro dell’edificio? Per controllare”.

“Certo. Però se qualcuno ve lo chiede, non dite che vi ho chiamati io. La suora madre diventa severa quando qualcuno le disobbedisce”.

Jack e Ianto uscirono dalla stanza claustrofobica, il primo con un milione di pensieri circa quello che poteva star accadendo in quell’orfanotrofio e il secondo pensando a quanto gli stesse antipatica quella suora madre. E non l’aveva nemmeno conosciuta.

“Ianto, se ci dividiamo facciamo prima. Tu vai di sopra, io controllo qui sotto”.

Il ragazzo annuì e fece come il Capitano gli aveva ordinato. Salì lentamente le imponenti scale vicine all’ingresso guardandosi attorno con fare circospetto. Il posto era pieno di polvere e negli angoli del soffitto i ragni si erano intessuti la loro casa.
Ma non c’era nessuno che teneva in ordine?, si chiese, di certo quel vecchio custode non poteva fare granché.
Arrivò in un altro lungo corridoio ai cui lati si aprivano diverse porte e finestre. L’ambiente era piuttosto silenzioso, nemmeno una mosca si sentiva volare. Non c’erano luci accese, se non quella che penetrava dalle finestre, che non era comunque abbastanza, sia perché anche quelle finestre, come quella nello stanzino, erano piuttosto sporche, sia perché la luce del sole quel giorno era debole. Perciò anche quel corridoio era in penombra.

Ianto si avviò, camminando sul tappeto grigio e consunto che copriva le assi scricchiolanti che fungevano da pavimento e aprì la prima porta. Si ritrovò in quella che doveva essere una camera da letto, piena di brandine di ferro simili a quelle degli ospedali della seconda guerra mondiale. Ce n’erano almeno una trentina, tutte identiche e sulla parete in fondo era appoggiato un grande armadio di mogano, impolverato anch’esso. Le finestre di quella stanza erano leggermente più grandi delle altre presenti in quell’edificio e decisamente più pulite. Entrava più luce lì dentro e Ianto si sentì già un po’ più tranquillo.

Girovagò un po’ per la stanza, sbirciando qui e là, guardando sotto i letti, restando in ascolto di eventuali rumori sospetti. Aveva portato con sé uno dei tanti macchinari di Tosh, quello che captava i segnali alieni, ma non c’era niente.
Decise, perciò, di dare un’occhiata alla porta accanto.
Questa voltò si trovò in quella che doveva essere una stanza giochi, a giudicare dagli oggetti che c’erano. Alcune bambole di pezza con occhi o braccia mancanti appoggiate sulle mensole, macchinine mezze rotte e alcuni libri stropicciati, una sedia a dondole di fronte all’unica finestra.

Ianto si avvicinò proprio alla finestra per dare una sbirciatina fuori. C’erano solo un grande cortile pieno di ghiaia e alcuni enormi salici dai rami biforcuti.
Ad un tratto, però, vide una figura scura sbucare da quegli alberi. Era vestita di nero e si stava dirigendo velocemente all’interno dell’edificio.

“Signore!”

Il ragazzo per poco non balzò in aria per lo spavento. Si voltò verso la voce che lo aveva chiamato, trovandosi di fronte un bambino sui dieci anni, capelli biondo rossicci tagliati a caschetto e parecchie lentiggini sparse attorno al naso.

“Ciao”, lo salutò. “Chi sei?”

“Mi chiamo Brian Wilkins, signore. Lei che ci fa qui?”

“Sono… sono solo venuto a… controllare una cosa. Non dovresti essere a lezione?”

Il bambino non gli rispose, si limitò a osservarlo con i suoi penetranti occhi neri. Ianto fu percorso da dei brividi lungo la schiena.
All’improvviso, però, sentì delle voci provenire dal piano di sotto che parlavano in modo piuttosto concitato.
Brian si voltò e corse verso le scale. Ianto lo seguì.

Le voci lo condussero fino a quella che, con molta probabilità, era una sala da pranzo. Non era una stanza molto diversa dalle altre, almeno per quanto riguardava la rarità dei mobili e la poca luce che filtrava, però era leggermente più grande. Al centro ospitava un lungo tavolo di legno lucidato con sedie tutt’attorno e un piccolo armadietto che custodiva dei piatti e delle tazzine dietro ad ante di vetro.
La stanza era piuttosto affollata in quel momento. C’era Jack circondato da alcune suore, tutte vestite perfettamente con la loro divisa e il velo in testa. Il Capitano, tuttavia, non sembrava affatto a disagio, continuava a mantenere la sua aria spavalda, come se tutto ciò lo divertisse.

“Ma bene, ce n’è un altro!” esclamò una delle donne nel veder sopraggiungere Ianto. Il ragazzo però non rispose, si limitò ad osservarle tutte quante e immediatamente uno strano sospetto lo assalì. Erano tutte piuttosto anziane. Non quanto il custode Narborough, però quasi. “E tu, Brian? Dov’eri finito? Dovevi tornare in classe!” aggiunse in direzione del ragazzino che era arrivato con Ianto.

“Mi scusi, suor Theresa”, rispose quello, abbassando il capo, dispiaciuto.

“Va bene. Ora però torna in classe”. Brian obbedì senza protestare, ma lanciò una penetrante occhiata a Ianto, come se volesse dirgli qualcosa con lo sguardo.

“Insomma, si può sapere cos’è tutto questo fracasso?” chiese un’altra voce di donna, proveniente dal corridoio. Un’altra suora aveva fatto il suo ingresso nella sala da pranzo, identica alle altre per l’abbigliamento, ma sembrava più giovane, non aveva tutte quelle rughe a solcarle il viso. Piuttosto era parecchio pallida e  i suoi occhi nerissimi quasi non lasciavano vedere la pupilla. Dietro di lei, arrancando, era arrivato anche il custode.
“Chi siete voi?” chiese la suora a Jack e Ianto, squadrandoli dall’alto in basso. Il suo sguardo minaccioso non tranquillizzava molto.

“Mi permetta di presentarmi!” esclamò Jack con un sorriso. Ianto si chiese come facesse lui ad essere così tranquillo. E non tanto per le suore sclerate o per il custode strano. Era tutto quel posto che non gli piaceva. “Io sono il Capitano Jack Harkness”.

“E il suo amico chi è?” berciò, guardando male Ianto.

“Lui è il mio compagno, Ianto Jones. Lei invece chi è?”

“Io sono la suora madre e la direttrice di questo orfanotrofio”.

“Ah bene”.

Così giovane?, penso Ianto. Di solito le suore madre venivano scelte per il livello di esperienza e altre cose, il che richiedeva anche una certa età. E quella suora madre era la più giovane in quel posto. Almeno così sembrava.

“Cosa ci fate qua?” La suora madre non sembrava voler mostrare simpatia.

“Siamo venuti ad indagare sulla scomparsa di quattro bambini”.

“Cosa? Chi vi ha chiamati?”

“Questo non ha importanza. Dobbiamo sapere alcune cose. Vi possiamo fare delle domande?” Jack stava mostrando tutta la gentilezza di cui era capace, ma la suora madre ancora non sembrava volersi fidare. Piuttosto, stava probabilmente pensando a tutti i modi possibili per cacciare i due intrusi fuori di lì. Le altre, invece, si lanciavano occhiate furtive le une tra le altre, come se temessero qualcosa.

“Siete della polizia?”

“No, non siamo della polizia”.

“E allora cosa siete?”

“Siamo del Torchwood”. Ora anche Jack iniziava a spazientirsi. Non lasciò il tempo all’altra di emettere fiato che le chiese subito: “Lavorate solo voi cinque qui?”

“Sì, siamo solo noi”. Il tono della suora madre era ancora acido, però almeno aveva iniziato a rispondere alle domande.

“E riuscite a gestire tutti questi bambini?” le chiese Ianto un po’ stupito.

“Sì, certo. Non è mica così difficile. Sono dei bravi bambini”. La risposta l’aveva data un’altra suora, ma abbassò il capo allo sguardo inceneritore della direttrice.

“In che circostanze sono scomparsi i bambini?”

“Noi non abbiamo denunciato nessuna scomparsa…”. La suora che aveva parlato poco fa venne improvvisamente colta da un accesso di tosse che la fece piegare in due, interrompendo così quello che stava dicendo la suora madre. Si portò un fazzoletto alla bocca, dando le spalle ai presenti.

“Vieni, prenditi un bicchiere d’acqua”, le sussurrò quella che le stava vicino, dandole delle leggere pacche sulla schiena. La suora bevve tutto d’un sorso l’acqua che la collega le aveva dato e la tosse si calmò subito. Infine, poggiò il bicchiere sul tavolo.  

“Le stavo dicendo…”, continuò la direttrice. “Che noi non abbiamo denunciato nessuna scomparsa. Qui non è scomparso nessuno. E ora, per favore, andatevene!”

“D’accordo, d’accordo”, cedette Jack. “Ianto, andiamocene. Qui non siamo i benvenuti”. Allungò una mano verso il tavolo, senza farsi notare da nessuno.
Ianto rimase un po’ stupito dall’improvvisa rinuncia di Jack, ma non si oppose. Lui non vedeva solo l’ora di andarsene.

“Vi accompagno alla porta”, si intromise il signor Narborough.

I due uomini lo seguirono senza aggiungere altro, non accorgendosi nemmeno del piccolo Brian che li guardava andare via seduto sulle scale del corridoio.

“Signor Narborugh”, fece Jack, allora, prima che l’altro chiudesse la porta. “Qui vengono mai delle persone in visita? C’è stata qualche coppia che ha adottato mai uno di questi bambini?”

Il vecchio si strinse nelle spalle e assunse un’aria pensierosa. “Che io ricordi, Signore, i bambini che vivono qui sono sempre stati gli stessi”.

“Grazie”.

 

Quando rientrarono al Nucleo, Gwen, Tosh e Owen erano già arrivati e Jack e Ianto li trovarono a rigirarsi i pollici, un po’ annoiati.

“Ehi, dove siete stati?” chiese Gwen con un’espressione un po’ contrariata.

“Una spedizione in un orfanotrofio”, le rispose Ianto. “Stamattina abbiamo ricevuto una chiamata dal custode. A quanto pare stanno scomparendo misteriosamente dei bambini”.

“Scomparendo?”

“Owen!” esclamò il Capitano. “Ho un lavoretto per te”. Estrasse un oggetto dalla tasca e la tirò al dottore, che lo prese al volo. Owen osservò curioso quel bicchiere di vetro che stringeva in mano. A quanto pareva dalle gocce d’acqua, doveva essere stato usato.

“Quando lo hai preso?” chiese Ianto, sorpreso.

“Poco prima che uscissimo. Owen, analizzami tutto quello che c’è in quel bicchiere. Tosh, fammi una ricerca sull’orfanotrofio di St. Mary’s Patron”, ordinò Jack.

“Hai dei sospetti?” gli chiese Ianto.

“Qualcuno”.

“Spiegatemi questa cosa dell’orfanotrofio”, si lamentò Gwen, puntando gli occhi sul Capitano.

“Il custode ci ha detto che stanno avvenendo delle cose strane in quel posto e che scompaiono dei bambini”. La ragazza non fece in tempo a chiedere nient’altro, che il Capitano scappò nel suo ufficio con passo svelto.  Poco dopo venne raggiunto da Ianto che, silenziosamente, gli era arrivato alle spalle.

“Ehi”, lo salutò Jack voltandosi verso di lui. Delicatamente lo baciò sulle labbra. “Stai bene?”

“Sì, solo che…”.

“Solo che?” Il Capitano gli poggiò le mani sui fianchi.

“Stavo solo pensando a quell’orfanotrofio. Sai, non mi è piaciuto per niente, era…”.

“Nemmeno a me, penso ci sia qualcosa di strano lì”.

“Non era questo che intendevo”.

Jack fissò i suoi occhi chiari in quelli azzurri di Ianto che celavano in sé qualcosa che sembrava essere un’aspettativa.

“Non è un bel posto per dei bambini”, aggiunse il ragazzo per specificare.

“Vorresti accoglierli tutti in casa tua?” gli chiese allora Jack, scherzosamente. Ma Ianto non rise. Continuò a osservarlo serio. “No, certo che no. Però…”.

“Se non ci fossero gli orfanotrofi tutti quei poveri bambini abbandonati resterebbero in mezzo alla strada, a morire di freddo e di fame”.

Ianto non gli rispose. Si limitò ad abbassare lo sguardo, puntandolo su un bottone della camicia di Jack. Il Capitano lo teneva ancora tra le braccia, ma avrebbe potuto districarsi dalle sue braccia  molto facilmente.

No, Jack, io avrei preferito stare in mezzo alla strada, pensò, ma non glielo disse.

Alla fine, si decise ad uscire dall’abbraccio del Capitano e in pochi passi raggiunse la porta. Prima che uscisse, però, l’altro lo chiamò di nuovo. “Ianto, stiamo bene insieme”, gli disse e questa volta non c’era niente di sarcastico o scherzoso nel suo tono. “Mi piace stare con te. Non voglio che le cose cambino”.
Ianto annuì mestamente. Poi uscì, pensando a quello che Jack gli aveva appena detto. Certo, erano delle belle parole, proprio quelle che amava sentire da parte sua, però…

Forse pretendo troppo.

 

Owen aveva finito di esaminare il bicchiere che Jack gli aveva dato e ora il Capitano si era affiancato al dottore che gli stava spiegando quello che aveva trovato.
Lo sguardo dell’ex Agente del Tempo era palesemente interessato, ma non stava guardando il collega, bensì aveva lo sguardo fisso nel vuoto.

“Come sospettavo”, commentò alla fine, quando Owen finì di parlare.

“Cosa?” gli chiese Gwen in incuriosita. Anche l’attenzione di Ianto e Tosh si era rivolta verso di lui.

“Si chiama Arrannya o anche Acqua della vita. E’ una sostanza che allunga la vita di chi la beve, ma ne va somministrata molto poca. Non provoca l’immortalità, semplicemente fa sì che si possa vivere un po’ di più, continuando a invecchiare”.

“Per questo erano incredibilmente vecchie le suore che stavano in quell’orfanotrofio”, dedusse allora Ianto, lo sguardo acceso.

“Esattamente. È una sostanza che produce parecchio odore, l’avevo sentita nel loro alito. Viene prodotta sul pianeta di Callary, ma da quello che mi risulta, dopo pochi anni è stata bandita e la si cominciò a vendere sotto banco. Chiunque fosse stato trovato in possesso dell’Arrannya sarebbe andato incontro a dure sanzioni”.

“Ci credo!” esclamò Ianto, guardando in direzione di Jack che aveva un’espressione strana dipinta in volto.

“E’ un po’ come la droga, no?” puntualizzò Toshiko, togliendosi gli occhiali da vista.

Il Capitano ridacchiò. “Sì, più o meno, solo che i suoi effetti non sono così evidenti come quelli della droga e non se ne diventa dipendenti. La vita su Callary mediamente è molto breve, per questo hanno cercato di creare una sostanza che potesse allungare la vita”.

Un veloce giro di sguardi attraversò il Nucleo. Tutti quanti avrebbero voluto sapere qualcosa di più su questo pianeta e su questa incredibile sostanza, ma nessuno aveva il coraggio di chiedere altre spiegazioni a Jack.
Avevano intuito che quello era un argomento piuttosto delicato per il loro Capitano, doveva far parte del suo passato, molto probabilmente, e non volevano turbarlo.

“Bene, allora!” esclamò improvvisamente Owen battendo le mani e facendo riscuotere tutti dall’improvviso turbamento in cui erano finiti. “Sappiamo chi sono e cosa sono. Possiamo agire”.
Jack, però, gli mise una mano sulla spalla, guardandolo intensamente con i suoi occhi chiari, come a volergli dire di stare calmo con uno sguardo. “Non cosi in fretta”, lo contraddisse. “I Callaryani sono creature molto pericolose, dobbiamo stare attenti. Dobbiamo organizzarci bene, non possiamo piombare nell’edificio come niente fosse. Inoltre, non sappiamo se siano proprio in quell’orfanotrofio, le suore potrebbero essere soltanto delle cavie. Andiamo in sala riunioni e discutiamone lì”.

E senza aspettare risposte da parte dei suoi amici, Jack si avviò velocemente verso la grande stanza che ospitava al centro un lungo tavolo di legno.
Gwen, Tosh, Owen e Ianto si sedettero ai posti che occupavano di solito, mentre Jack si posizionò a capotavola, restando in piedi con le mani poggiate sulla superfice del mobile.

“Allora, cosa sai dirci di questi Callaryani?” chiese Gwen, lo sguardo puntato sul Capitano.

L’uomo prese un respiro e, facendo vagare lo sguardo dall’uno all’altro dei suoi colleghi, iniziò a parlare. “Hanno una forma quasi identica a quella umana, però sono molto più pallidi e hanno tutti gli occhi molto scuri. Hanno però anche un altro aspetto, con una coda molto lunga e delle ali da pipistrello”.

“Qual è il loro punto debole?” domandò Owen, allora, che era parecchio affascinato da queste strane creature. Come gli altri del resto.

“Sono vulnerabili come gli umani, ma hanno un potere di autoguarigione, se riescono ad attivarlo. Però sono molto agili e veloci, dovremo stare attenti a non farci cogliere di sprovvista”.

“Certo, non sarà un problema”, commentò Gwen, pregustandosi già l’azione che sarebbe seguita di lì a poco.

I cinque membri del Torchwood ultimarono i dettagli con cui sarebbero entrati in gioco per affrontare una nuova minaccia aliena e si decisero ad andare a fare una piccola incursione nell’orfanotrofio quella notte.
Perciò, per quelle poche ore che li separavano da quella missione, Jack decise di mandarli a casa a riposarsi.

 

Quando gli orologi batterono la mezzanotte, Jack, Gwen, Tosh, Owen e Ianto abbandonarono il loro Suv e si incamminarono nell’ampio cortile incurato del rudere che vi sorgeva nel mezzo, a passo svelto ma cauto, guardandosi attorno continuamente.
Il Capitano apriva il piccolo corteo, gli altri quattro invece seguivano la coda del suo capotto svolazzante, in posizione simmetrica.
Improvvisamente, si fermò vicino alla gradinata che portava all’ingresso e si voltò verso i suoi compagni.

“Io e Ianto andiamo dentro, voi tre controllate nei dintorni. Teniamoci in contatto”.

Annuirono tutti senza protestare, controllando però di avere la pistola al proprio posto.

I due rimasti si avvicinarono a una finestra rotta e, senza bisogno di parole, seppero immediatamente che cosa fare. Ianto si issò sul bordo dell’apertura cercando di tirarsi su. mentre il suo compagno lo aiutava da sotto spingendolo per i fianchi. Quando il ragazzo fu entrato, aiutò il Capitano allungandogli una mano e tirandolo dentro.
Poi si rialzarono in piedi spolverandosi i vestiti. Il più giovane puntò la torcia accesa, illuminando l’ambiente e notarono di essere in una piccola stanza quadrata, completamente spoglia e piena di ragnatele e polvere.

“D’accordo, direi di iniziare a perlustrare le varie stanze”, disse Jack e l’altro si precipitò immediatamente alla porta, uscendo in corridoio. “Aspetta!” lo fermò però il compagno, raggiungendolo in pochi passi. Gli stampò un dolce bacio sulle labbra e, guardandolo negli occhi, con un sorriso, gli sussurrò: “Sta’ attento”.

Ianto annuì e si allontanò con un sorriso appena accennato a decorargli le labbra. Estrasse la pistola dalla fondina anche se non c’era nessuna minaccia, né concreta né probabile. Però stringerla in pugno lo faceva sentire più al sicuro, anche se avrebbe di gran lunga preferito avere Jack accanto. Entrò nella cucina, piena di fornelli e pentole appese sopra un piccolo tavolo da lavoro. L’aria era ancora impregnata dell’odore di cibo.
Si guardò attorno con circospezione, facendo luce dietro ad ogni mobile e in ogni angolo, attento a non fare rumore coi piedi. Non dovevano svegliare nessuno degli abitanti.

Dopo poco decise di uscire da lì e andare a vedere da un’altra parte. Ma proprio mentre stava per svoltare in un angolo, qualcuno gli venne addosso e Ianto per poco non ebbe un infarto. Illuminò l’intruso con la torcia constatando che era solo il vecchio custode ed esalò un sospiro di sollievo. Dietro di lui arrivò anche Jack.

“Di sopra”, sentì mormorare all’uomo. Guardandolo meglio si accorse che aveva una faccia strana, piuttosto pallida, gli occhi erano spalancati e sembrava che non vedessero. “Sta succedendo adesso”.

Ianto e Jack non esitarono un attimo e corsero su per le scale, carichi di adrenalina che non li faceva neanche sentire la paura.

Quando giunsero nel corridoio del piano superiore, però, non trovarono niente di strano o sospetto. Decisero di dividersi di nuovo e di controllare in ciascuna delle porte. Ianto aprì la prima che gli capitò e si ritrovò di nuovo nella sala giochi che aveva visto quella mattina. Le bambole e i pupazzetti erano molto più inquietanti al buio, sembrava che lo stessero guardando minacciosamente. Ma a parte quello non c’era niente di anormale.

Ad un tratto, però, sentì uno strano rumore, come una specie di sibilo e puntò la torcia per terra, sospettando che fosse un serpente. Effettivamente c’era qualcosa che strisciava, ma non era un serpente. Sembrava un piccolo verme molto grosso che lasciava dietro di sé una scia di una poltiglia giallognola, come la saliva delle lumache.
Si chinò ad osservarla meglio, incuriosito, non dubitando nemmeno che potesse fargli del male, una creaturina così minuscola e apparentemente innocua.
Di sicuro non si aspettava che gli saltasse addosso come invece fece, posandosi sul suo avambraccio. Ianto sentì un dolore penetrante pervadergli tutto il braccio, come se qualcuno gli avesse affondato l’arto con un coltello, e vide del sangue sgorgare e macchiargli la giacca elegante. Prese il vermiciattolo con l’altra mano e cercò di toglierselo di dosso, faticando parecchio. Quando ci riuscì, lo buttò a terra e lo calpestò con un piede. Quello che ne rimase dopo era solo una poltiglia schifosa e appiccicosa.
Controllò la ferita al braccio, notando un taglio piuttosto lungo. Non sembrava però aver intaccato alcuna arteria.

“Ianto!” si sentì improvvisamente chiamare e riconobbe la voce di Jack.

Si precipitò nella stanza accanto e quello che vide lo lasciò a bocca aperta: le cinque suore erano sedute attorno a un tavolo rotondo e sembrava che fossero in uno stato di trance, gli occhi sbarrati e lo sguardo rivolto in nessun punto. Quella in mezzo, però, che doveva essere la suora madre, emanava una strana luce azzurrognola che illuminava tutta la stanza, ma che non sembrava dirigersi da nessuna parte.

Jack e Ianto erano rimasti fermi immobili vicino alla porta, a guardare la scena senza sapere che fare. Ad un tratto, però, la suora madre si sollevò a mezz’aria, dietro la sua schiena si intravedevano due grandi ali da pipistrello e una lunga e grossa coda da lucertola che sfiorava il pavimento.
Emise un fischio acuto e, girandosi di scatto, tentò di colpire i due uomini proprio con la coda. Loro, però, riuscirono a scansarsi appena in tempo per non venire colpiti, buttandosi a terra, ma poi sentirono un fragoroso frastuono e videro i vetri delle finestre volare ovunque.
L’alieno era scappato fuori.

“Gwen, Tosh, Owen!” gridò Jack nell’auricolare che aveva all’orecchio. “Sta scappando fuori. Cercate di fermarlo”.

Il Capitano aiutò il compagno a rialzarsi e poi si precipitarono di sotto, uscendo fuori in cortile. Qui trovarono l’alieno al centro, imprigionato dentro una specie di gabbia fatta di energia elettrica, uno dei tanti strumenti che collezionavano al Nucleo, e Gwen, Tosh e Owen attorno, che guardavano la creatura con interesse.
Jack sorrise per il fantastico tempismo dei tre.

Quando si avvicinarono alla gabbia, videro che la Callaryana aveva ancora le sembianze della suora madre, col viso pieno di rughe e gli occhi scavati, però aveva due canini affilati che sbucavano dalla bocca e le ali e la coda la facevano apparire totalmente diversa. Indossava ancora la divisa da suora, ma non aveva il velo, perciò i suoi capelli bianchi cascavano sulle spalle e sotto la luce forte della luna glieli faceva sembrare fluorescenti.

“Come ti chiami?” le chiese Jack, a pochi passi di distanza.

Lei li guardò tutti quanti minacciosamente e sembrò emettere una specie di ringhio. Però non diede alcuna risposta.

“Non ti faremo del male”, la tranquillizzò il Capitano allora, in tono molto gentile. “Se collabori”.

“Sono Laetitia”, rispose finalmente lei, puntando gli occhi scuri come la pece in quelli dell’uomo di fronte a lei.

“Perché sei venuta qui?”

“Per il mio popolo”.

Ianto inarcò le sopracciglia.

“Che intendi?”

“Mi hanno mandata per compiere una missione”.

“Cioè?”

“Prendere dei bambini”.

Jack spalancò la bocca incredulo. “E perché?”

Laetitia abbassò il capo. “Cosa ti importa saperlo? Tanto mi ucciderai”.

“Non ho detto che ti ucciderò”.

“Ma lo farai. In un modo o nell’altro”. La voce della Callaryana era pacata e tranquilla, sembrava non avere paura di essere stata catturata. O di venire uccisa. Lo diceva come fosse una cosa normale, come se le capitasse tutti i giorni.

“Ti lascerò tornare a casa. Ma prima dimmi: da quanto tempo sei qui?”

“Dieci anni”.

“E perché?”

“Per il mio popolo”.

Owen sbuffò. Così non si andava da nessuna parte.

“E le altre suore e il custode? Loro sanno che cosa sei? Da quanto tempo sono qui?”

“Loro fanno parte di un progetto ben più grande, possono benissimo essere sacrificati. Servono solo da tramite”. 

“Per cosa?”

“Per i bambini”.

Jack rimase un attimo a fissarla, poi ghignò in modo un po’ arrogante. “Allora, se ho capito bene, il tuo popolo vuole dei bambini. Hai allungato la vita di quelle suore per poterle sempre avere accanto”.

La Callaryana distese le labbra in quello che pareva essere un sorriso, un sorriso rassegnato, forse.

“Adesso puoi uccidermi”.

“Ho detto che non ti ucciderò. Dimmi qual è questo progetto. Cosa vuole il tuo popolo?”

Ma l’aliena non gli rispose. Spostò lo sguardo su Ianto che indietreggiò sotto i suoi occhi neri e scrutatori.
“Tu sanguini”, gli fece notare, riferendosi al suo braccio. Il ragazzo spostò lo sguardo sulla ferita dove c’era ancora del sangue, che però stava iniziando a seccarsi.

Improvvisamente, la creatura fece sparire le ali e la coda e tornò ad avere un aspetto completamente umano. O quasi. Allungò una mano verso le sbarre e, proprio nel momento in cui le toccò, una potentissima scarica elettrica la percosse, facendola gridare violentemente. Nessuno si era aspettato quel gesto, nessuno lo aveva previsto.

“No!” urlò Owen, premendo il pulsante per disattivare la gabbia. La Callaryana cadde a terra con gli occhi chiusi, il corpo scomposto, i capelli sparsi per terra.
Il dottore si chinò per toccarle il polso, poi alzò il capo verso i suoi amici con un’espressione affranta. “E’ morta”, disse solamente.
Jack sospirò, dispiaciuto più per non aver avuto le informazioni che voleva. Si avvicinò a Ianto e gli prese il braccio guardando la ferita. Anche se non era grave, era piuttosto profonda. Estrasse un fazzoletto dalla tasca e glielo legò per fermare il sangue.

 

“Ultimamente ti ferisci un po’ spesso, Ianto”, fu il commento di Owen quando finì di mettere i punti al braccio ferito dell’amico. Erano tornati alla base, con un’aria un po’ affranta, ma contenti che almeno quell’avventura si fosse conclusa.
Non erano riusciti a ritrovare i quattro bambini scomparsi e nemmeno togliersi il pensiero di un’altra possibile minaccia da parte di Callary, ma almeno i bambini di quell’orfanotrofio erano al sicuro, sotto la custodia delle altre suore che non si ricordavano niente di quello che era successo.
Owen passò un paio di giri di garza sull’avambraccio di Ianto e gli permise di andare.
Il ragazzo si diresse verso Jack, che lo stava aspettando vicino alle scale. Sembrava piuttosto stanco. Gli prese una mano e lo trasse a sé dandogli un bacio, cingendogli la vita con le braccia e stringendolo forte. Ianto lo lasciò fare, piacevolmente sorpreso da quella improvvisa dimostrazione d’affetto.
Infine, smisero di baciarsi ma non si separarono. Il giovane appoggiò la testa sulla spalla dell’altro, stancamente, godendosi il suo profumo, mentre il Capitano lo cullava e gli dava un bacio sulla fronte.

Intanto gli altri cominciarono a prepararsi per tornare a casa.

 

 

MILLY’S SPACE

Allora, solo alcune piccole note: questo potrebbe sembrarvi solo un’avventura come tante altre affrontate dal Torchwood, ma vi dico già che è piuttosto importante per gli avvenimenti futuri. Callary non ho idea se esista, non credo (^^). E’ una mia totale invenzione, così come l’Arrannya, quindi ne detengo i diritti d’autore u.u

Detto questo vi ringrazio per la cortese attenzione e spero che mi lascerete qualche recensione. Inoltre, non dimenticatevi di dare un’occhiata alla mia pagina face. https://www.facebook.com/MillysSpace

Bacioni : )

SWEETLADY98: ehi, spero che questo capitolo ti sia piaciuto altrettanto… sì, pure io adoro Rhiannon : ) be’, spero tu abbia tempo per lasciarmi una recensione e se no pazienza… bacioni, M.

PUFFOLA_LILY: eccolo qua, il capitolo ^^ sì, Jack è assolutamente fantastico. Anche io me lo sposerei, se non lo shippassi troppo con Ianto ^^ ahaha fatti risentire, un bacio. Milly

  
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