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Autore: Hati    08/07/2013    0 recensioni
«Mio padre David Brennan e mia madre Karen McBridge Brennan hanno avuto una sola figlia, Enid Brennan. È nata il 5 Aprile del 2000, in piena notte...» mormorò con la medesima, sofferta convinzione: «Io non sono nata. Io non esisto più.» finì soffocando un singhiozzo: «Ora, capisci?»
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note Dell'Autrice: Scrivo solo questo, signore e signori della giuria, due mesi e cinque esami. In più, altri impegni e un po' di tempo libero, la mia ispirazione era finita in letargo ma è tornata.
Capitolo per introdurre Dilys, il suo modo di pensare e per fare un passo avanti nella trama senza svelare troppo le carte. O almeno, spero.
Ringrazio la mia fedele compagna ed amica di scleri che mi ha aiutata a mettere ordine nella narrazione e tutti quelli che leggeranno, magari lasciando un commento =)

Come una falena notturna

   Dilys non ricordava d'essere svenuta, ma conservava la vaga reminiscenza del preciso istante in cui Sherlock Holmes aveva abbassato gli occhi sulla sua mano sinistra, lo sguardo contrariato s'era illuminato di una curiosità famelica, non meno minacciosa dei suoi modi bruschi. Sapeva che qualcosa in lei non aveva risposto in maniera razionale; i muscoli irrigiditi s'erano rilassati, la testa era divenuta leggera e gli arti avevano smesso di obbedire allo sprazzo di lucidità che le era rimasto.
Sapeva di essere stanca in senso prettamente fisico, la colonna vertebrale era attraversata da fitte improvvise ma non poteva essere altrimenti, dato che non si sdraiava da quattro giorni e il suo sonno era agitato, leggero, affatto riposante; Dilys non aveva più la forza di reagire, forse non lo desiderava neppure.
La fiducia istintiva che Sherlock le suscitava aveva corroso la tensione nervosa, aveva riportato a galla la sofferenza, la necessità di affidare a qualcuno parte del suo fardello, perché malgrado lui cercasse disperatamente di nasconderlo era un uomo buono, non le sarebbe arrivato alcun male da lui a dispetto della severità, a tratti dell'arroganza con cui trattava il prossimo.
Era sicura che non sarebbe arrivato alla verità, lei sarebbe svanita prima: il tempo di mangiare qualcosa, di dormire sul divano e sarebbe sgattaiolata verso la stazione, sperando che il prossimo treno la portasse nel posto giusto.
'Se fosse questo, il posto giusto?' s'era domandata, quando il dottor Watson l'aveva invitata in cucina.
John Watson era più di un uomo buono, aveva anche il pregio d'essere sensibile e di mostrare una delicatezza spontanea con quelli che reputava i più deboli.
Era una bella persona da incontrare, Dilys aveva intravisto anime che traboccavano di egoismo, di insoddisfazione per quattro lunghi giorni, stare accanto a individui tanto diversi fra loro e al contempo originali era rigenerante.
'Se fosse questo, il posto giusto?'
Sherlock aveva risposto per lei, facendo irruzione con la violenza di un tornado, sfilandole i guanti e privandola dell'ultima illusione.
Dilys era sprofondata in una dimensione senza colori, c'era un unico fascio luminoso, un raggio dorato che oscillava, inseguendo le eco indistinte dei suoni.
Riconobbe dei passi affrettati, il fruscio di un tessuto, una porta chiusa in un tonfo e ad accompagnare questi rumori, un cicaleccio incessante.
Dilys si accostò al bagliore, come fosse stata una falena notturna e lentamente riuscì a distinguere il timbro baritonale di Sherlock, il tono di impostata sufficienza col quale formulava brevi richieste e la cadenza del dottor Watson che scandiva asserzioni con un forte biasimo, la terza voce era sconosciuta, un suono sottile e decisamente femminile. Le riportò alla mente sua nonna, il modo severo ma dolce con cui rimproverava lei ed Enid, il suo sorriso delicato come l'aurora spentosi in un gelido Novembre.
Il lampo si tese per prenderla, Dilys esitò: quel mondo privo di stimoli era rilassante, dall'altra parte c'erano troppi problemi ad attenderla.
Dovette deglutire, infine, la gola era riarsa e la saliva discese l'esofago come lava donandole una sensazione sgradevole, terrena che la incatenò alla realtà.
«L'Ispettore Lestrade!» esclamò la donna, sembrava una minaccia.
Non aveva molto in comune con la nonna, decise Dilys.
Dalle palpebre filtrava il lucore artificiale di una lampada, la testa era chiusa in un cerchio di dolore, gli arti erano rigidi come blocchi di marmo, sulla fronte prima e sul collo poi percepì una sensazione umida e fresca, non ebbe difficoltà a ispirare ed espirare profondamente, dalle labbra screpolate uscì un debole lamento.
Due dita maschili tastarono la parte superiore del polso.
«È cosciente.» sentenziò con vivo sollievo Watson.
Dilys non fu ugualmente entusiasta, aprì gli occhi mentre il cervello pareva torturato da mille aghi di ghiaccio, inquadrò una porzione di soffitto attraversato da ombre aguzze.
Il primo volto che vide, però, fu di John Watson che s'era mosso per tamponarle le tempie con un panno bagnato, era molto teso ma si sforzò di sorriderle: «Non spostarti.» raccomandò quasi sottovoce: «Non parlare, se non ti senti di farlo.»
Dilys non aveva alcuna intenzione di rispondere al fuoco di fila di domande che l'attendeva, quindi fu grata della premura, non cercò né Sherlock, né la sconosciuta che aveva sentito poco prima, si godette quegli attimi di prezioso silenzio e poi, la donna varcò la soglia dello studio.
«Si è ripresa?» esordì in tono pratico, come se fosse abituata a ben altro e avvicinandosi al divano su cui Dilys era stata adagiata, si sporse.
Era una donna sulla sessantina energica nei modi così come nella voce, aveva i capelli biondi tagliati corti e un filo di trucco distraeva lo sguardo dalle rughe sottili che solcavano la pelle, aveva le mani congiunte all'altezza del grembo, la fissava con apprensione sincera.
«Quasi.» disse incerta Dilys: «Grazie.»
L'altra alzò la mano destra nell'aria: «Non dire sciocchezze.» ribatté prontamente: «Essere strapazzati dal signor Holmes è un'esperienza traumatica.» sorrise sardonica, una punta di affetto materno brillò negli occhi.
«Strapazzo chi se lo merita, Mrs. Hudson. Dovrebbe saperlo.» rispose con voluta indolenza Sherlock, era alla destra di Dilys anche se lei non riusciva a scorgerlo: «Lasciarsi ingannare dall'aspetto è una debolezza inaccettabile. Non è così?»
Nessuno rispose alla domanda retorica, Dilys l'accolse come una stilettata nello stomaco, volle poter replicare argutamente, ma era troppo scossa per farlo.
«Io non ho mai voluto ingannare nessuno.» si ribellò alla fine, sollevò il braccio per scostare la pezzuola: «Non ho mentito.» sottolineò irritata.
'Non capisci, non devi capire!'
L'uomo fece un passo, abbastanza perché Dilys lo intravedesse in posa rilassata con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni: «Provalo.» sembrò un ringhio.
«Falla finita.» gli intimò John con un'occhiata eloquente: «Qualsiasi cosa abbia subito...» cercò di proseguire.
«Non ho subito nulla.» si oppose Dilys con veemenza.
«È troppo shockata per ricordare. Questo dovresti saperlo.» il medico non la ignorò, come a quietarla posò nuovamente il fazzoletto fresco sulla sua fronte: «Visto che comprendere gli stati d'animo è uno sforzo improbo.» concluse.
«Sei ingiusto.» si intromise contrariata la signora.
«Io non sono la vittima di niente.» ribadì decisa Dilys, puntellò i palmi sui cuscini per sollevare il busto. Aveva in corpo molle e rigido al tempo stesso, come se i muscoli si fossero riempiti di sabbia, il dottore le disse di rimanere calma e lei non obbedì.
«Se fossi scappata da un pericolo, avrei dei segni.» disse affannata, si umettò le labbra nervosa.
«No, non è detto.» ribatté Sherlock: «Tu hai un segno, comunque e bello vistoso: una cicatrice da scarificazione salina.» fece notare in tono neutro.
Dilys aggrottò la fronte, soffocò l'istinto di chiarirsi: «Non è una vera cicatrice.» obiettò con improvvisa timidezza.
«L'hai fatta volontariamente?» chiese Mrs. Hudson perplessa: «Ho letto su una rivista che si tratta di una nuova moda.» incrociò le braccia sotto al seno: «Posso chiudere la finestra?» aggiunse.
«No. No... Sulla mano è anche scomoda. Una cosa cretina.» sbottò Dilys.
Era assurdo che la tacciassero di aver sprecato tempo, denaro ed epidermide per imprimere un disegno nella carne, lo trovò offensivo.
Ci furono altre domande che Dilys non volle neppure ascoltare, si chiuse in un mutismo ostinato che aveva affinato con sua sorella, strinse le dita attorno alla stoffa e scosse il capo un paio di volte.
«Chiamiamo l'ispettore Lestrade.» ripeté Mrs. Hudson: «Lui saprà cosa fare, indirizzarla verso dei poliziotti adatti a trattare certi casi.»
«Mrs. Hudson.» sospirò con enfasi drammatica Sherlock: «L'ispettore Lestrade non lavora per 'Law&Order:Unità Vittime Speciali'. Ogni agente di Polizia direbbe che questa ragazzina è scappata dal suo protettore...»
«Io non sono una prostituta.» si riscosse Dilys.
«Che l'aveva marchiata, come fanno tutti i protettori con le loro ragazze. L'amnesia può essere antecedente alla fuga. Di origine traumatica, forse ma non fisica.» Sherlock non la calcolò minimamente: «Ogni agente di Polizia sarebbe in errore: questa non è una prostituta minorenne, non ha segni di abuso, non ne presenta a livello psicologico. Non ha paura a seguire uno sconosciuto, non si ritrae al contatto fisico, sono pressoché sicuro sia anche vergine.» elencò placido.
Dilys si sentì avvampare, avrebbe dovuto risentirsi per quella indelicatezza ma non ci riuscì veramente, non sino in fondo.
John circondò le sue spalle con un braccio: «Sdraiati, Dilys.» la esortò, abbandonando la conversazione: «Qui sei al sicuro.» fece leva per spingerla indietro, ma la ragazza si impuntò.
«Non chiamate la Polizia.» mormorò: «Sarebbe inutile, sarebbe dannoso.» tentò di spiegarsi, era come arrancare sul vetro: «Io non esisto... Non capite... Se cercherete, causerete dei problemi enormi!» soggiunse disperata: «Vi prego.» alternò lo sguardo sui tre, supplichevole: «Io sparirò, non mi vedrete mai più. Lo prometto.» attese la reazione.
Sherlock Holmes, John Watson e Mrs. Hudson tacquero. Dilys capì che erano rimasti col medesimo proposito, che questo si era pure rafforzato per la compassione o per la curiosità.
«Porterà a dei guai.» mormorò avvilita, non diede loro la soddisfazione di vederla in lacrime.
«Ci siamo abituati, cara.» cinguettò soave Mrs. Hudson.
  
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