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Autore: Oscar_    09/07/2013    2 recensioni
Mi chiamo Herbert Dover, sono stato un infermiere di guerra direttamente sul campo durante la Battaglia d’Inghilterra nella Seconda Guerra Mondiale per quasi tutto il suo svolgimento e, oggi, ho finalmente deciso di affidare all’inchiostro e alla carta il ruolo di narratori delle gesta mai pronunciate e dei nomi mai uditi dei tanti eroi, piccoli e grandi, che ho incontrato in quelle lerce tende verde militare, una sfumatura che mi rammenta che gli uomini troveranno sempre un nemico da combattere, persino se, qualche volta, potrebbe trattarsi di loro stessi.
[ Il rating si alzerà man mano. ]
Genere: Avventura, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento, Guerre mondiali
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Memorie d'acciaio cremisi











«C'era la guerra, e tutti ne eravamo presi,
e ormai sapevo che avrebbe deciso delle nostre vite.
Della mia vita; e non sapevo come. »


~



« In tempo di guerra molti bambini avevano già lo sguardo da vecchi. »


~


« Facciamo guerra per essere poi in pace. »


~









p r e m e s s a




È incredibile la forza delle parole. Talvolta ancora mi stupisco di come, da una semplice frase o da un discorso fatto col cuore, gli occhi mi si possano colmare di lacrime, lacrime rimandanti a un passato che non posso cancellare; che non voglio cancellare. Un passato che mi attende la sera sotto le lenzuola, che al mattino mi sussurra nomi che non riuscirò mai più a dimenticare e che ancora oggi mi nausea dinanzi un caldo piatto della mia pietanza preferita, un cibo che oramai quasi mi disgusta, un po’ perché vi scorgo i visi di molti ed un po’ perché quel sapore troppo salato o, talvolta, troppo sciapo, è fonte di ricordo del momento in cui decisi una volta per tutte di cacciarmi in quel pantano che, al pari di un parassita, mi si è avvinghiato alle carni, lacerandole ed impedendomi di vedere il mondo come quand’ero bambino, come un luogo pieno di colori e bontà appena al di sotto di quello strato apparente di sozzerie che lo ricopre. Ciò di cui ancora non ero consapevole è che quello strato, che tanto m’impegnavo a rimuovere, in realtà cela solamente un profondo vuoto.
Mi chiamo Herbert Dover, sono stato un infermiere di guerra direttamente sul campo durante la Battaglia d’Inghilterra nella Seconda Guerra Mondiale per quasi tutto il suo svolgimento e, oggi, ho finalmente deciso di affidare all’inchiostro e alla carta il ruolo di narratori delle gesta mai pronunciate e dei nomi mai uditi dei tanti eroi, piccoli e grandi, che ho incontrato in quelle lerce tende verde militare, una sfumatura che mi rammenta che gli uomini troveranno sempre un nemico da combattere, persino se, qualche volta, potrebbe trattarsi di loro stessi.
Non so se qualcuno leggerà mai queste pagine, se qualcuno avrà voglia di farlo dopo questa premessa, se un giorno altri passeranno di bocca in bocca i racconti delle persone che ce l’hanno fatta o di quelle che, per qualche istante, hanno tolto il respiro anche a me dopo esser trappassate; non so se altri si caricheranno sulle spalle il fardello di consapevolezza di quanto l’umanità possa essere disgustosa e a che livello riesca a spingersi pur di dimostrarsi superiore.
L’unica cosa che so per certo, è che mi è insopportabile sognare quei sorrisi ed udire quelle voci, che non riesco più a voltare l’angolo con ancora quello stesso terrore di trovarmi un nemico davanti, un nemico fatto d’ombre e memoria, ma materiale almeno quanto i proiettili che han lacerato quelle carni che mi avevano incaricato di guarire. Spero solo che qualcuno si dimostri abbastanza buono da non lasciare che questi nomi rimangano nell’oblio, come tanti altri hanno fatto con la convinzione di star facendo del bene.






Prologo

Scelte radicali









Non mi è difficile ricordare quando decisi di divenire un infermiere militare: tutto è cominciato un piovoso pomeriggio di Aprile del 1940, quando la maggior parte delle truppe inglesi era impegnata a combattere in Norvegia, da cui via radio giungevano le più svariate notizie.
Mi trovavo a casa assieme alla mia famiglia, allora avevo ventun’anni e ancora la leggerezza della giovinezza sulle spalle, accentuata da quel pizzico di spavalderia che accompagna tutti i ragazzi appena usciti dall’adolescenza, una sfumatura che non mi ha – mio malgrado – ancora abbandonato.
Mio padre Frank e mio fratello maggiore Oscar erano sul fronte da quasi un mese e io, mia madre, mia sorella minore Grace e la piccola Violet, ogni qual volta ci trovavamo a tavola con la radio e, soprattutto, quando i soldati avevano il tempo di nominare i caduti in battaglia, sospiravamo di sollievo al non udire nessuno portante il cognome Dover; la nostra famiglia era ancora unita. O così speravamo.
Le riunioni per i pasti, a casa Dover, erano sempre state allegre e piene di risate, un po’ come quelle dei film di adesso, dove sembra che qualsiasi problema o difficoltà venga tralasciata nel momento stesso in cui tutti i membri della famiglia prendono posto a tavola. E a casa nostra era sempre così: mio padre dimenticava momentaneamente le scartoffie del suo studio, mio fratello Oscar smetteva di allenarsi col sacco da boxe, io posavo i miei libri preferiti, mia madre lasciava da parte gli abiti da rammendare, mia sorella Grace cessava di pensare ai suoi spasimanti e la piccola Violet, di appena due anni, si svegliava dalla sua culla e chiedeva a gran voce di riempirsi il pancino. Tutto pareva più roseo e leggero quando ci si accomodava a quel rotondo tavolo di legno scuro, sembrava vi fosse una specie di bolla risucchiante le malignità e conciliante il buonumore. Quanto vorrei che quella bolla fosse ancora qui, adesso.
Quando mio padre e mio fratello Oscar – in vista della guerra, i miei genitori avevano provveduto a far sì che il mio nome non figurasse nella nostra famiglia, quindi ero come un fantasma -, un mese prima di quel fatidico pranzo, avevano ricevuto la lettera di convocazione dell’esercito, non vi erano stati sorrisi né battute alla cena prima della loro partenza; anzi! Una cappa di pesantezza e un’aria tetra avevano circondato la camera da pranzo, facendo chiudere a tutti lo stomaco. Tuttavia posso dire con un certo sollievo che quella non fu l’ultima volta che vidi mio padre e mio fratello; o, forse, sarebbe stato meglio se lo fosse stata.
In ogni caso, dopo la loro partenza, i momenti di riunione a tavola divennero molto più taciturni e privi di quella particolare luce che solo stando tutti assieme riuscivamo ad emanare. A quel pranzo, nello specifico, mancava qualcosa d’essenziale che ancora adesso non riesco a definire; probabilmente il segnale alla radio. Ed in effetti, dopo i ripetuti tentativi di farla funzionare – soprattutto da parte mia, visto che ormai ero l’uomo di casa -, al momento della resa all’evidenza che per quel momento non avremmo potuto ascoltare i caduti ed accertarci che mio padre ed Oscar stessero bene, l’atmosfera si era trasformata.
Mia sorella Grace, che allora aveva sedici anni, era quella che più di tutti aveva tentato di far tornare il buon umore, soprattutto a mia madre, sul cui volto si scorgeva quella stanchezza tipica di chi è stufo di combattere le proprie battaglie personali, in cui vincitori e perdenti portano lo stesso nome.
- Secondo me si sono seduti su una scogliera e stanno cantando la canzone della buona notte. A papà piace tanto quella canzone! Te la faceva cantare sempre, vi sentivo, sai? Vero che si sentiva, Herbert? – Ripiegava sempre su di me, quasi che con la mia parola qualcosa potesse mutare.
Ero sul punto di annuire con poca convinzione, troppo impegnato a sperare in un ritorno del segnale, quando mi accorsi di un’occhiata colma di speranza da parte di mia madre, uno sguardo carico di disperazione e, tuttavia, ancora con quella scintilla di coraggio che spinge a continuare la strada verso il baratro, anche quando se ne è consapevoli. Quindi mi armai del mio più raggiante sorriso e, posandole una mano sulla spalla, risposi:
- Si sentiva tutto. Anche la parte successiva... - Un’espressione di sollievo le si dipinse in volto, un volto su cui poco dopo scivolarono alcune lacrime.
Incapace di sopportare oltremodo la vista di quella donna che da bambino mi aveva sempre consolato e spronato a non lasciarmi abbattere e che, invece, in quel momento stava venendo annientata proprio davanti ai miei occhi, mi alzai dal mio posto e l’abbracciai con dolcezza, lasciandole soffocare i singhiozzi sulla mia spalla. Violet, ormai tre anni compiuti, si morse il labbro da bravo maschiaccio qual era, tentando di mascherare la voglia che l’attanagliava di aggrapparsi alla mano di Grace, che pure si stava impegnando a non aggregarsi al pianto di nostra madre.
All’improvviso, dal nulla, la radio iniziò ad emettere quel brusio fastidioso che precedeva la giunta del segnale, che in effetti si manifestò con la voce roca di uno dei soldati che solitamente elencava i caduti, che stava appunto concludendo la lista piuttosto rapidamente; probabile che fossero vicini ad un combattimento.
- È un miracolo... – Mormorò Grace, voltandosi sbalordita a fissare il piccolo apparecchio, posato proprio davanti alla finestra di fianco al tavolo.
Tacemmo tutti, nella bruciante attesa di sentire i nomi di Frank o Oscar Dover, che nemmeno per quella volta ci misero in lutto, sospirando di sollievo alla conclusione dell’elenco.
Stavo per alzarmi e spegnere la radio, mentre mia madre e le mie sorelle avevano ripreso a mangiare, quando un ultimo annuncio, sempre pronunciato da quella voce roca, proruppe nella stanza, attirando soprattutto la mia attenzione:
- L’intervento dell’infermiere Luke Whitelight è stato fondamentale per la salvezza del soldato Frank Dover, colpito al torace da un proiettile tedesco. -
Rimanemmo tutti paralizzati per qualche istante, mentre nella mia mente iniziarono a farsi strada i pensieri più svariati: di solito non ci si riferiva mai agli infermieri sul campo di battaglia, men che mai si nominavano nei bollettini di guerra! E poi aveva— aveva salvato mio padre, non un uomo qualunque! Chiunque fosse quel Luke Whitelight, gli dovevamo molto.
L’immaginazione finì per condurmi a figurare anche me come un infermiere, una visione che non stonava poi così tanto. Dopotutto, stavo appunto pensando d’iscrivermi a Medicina all’università, ed avevo già fatto pratica qui e là durante alcuni incontri sportivi o per dei feriti nel vicinato, che non mancavano mai, in quel periodo.
Inoltre, l’idea di poter anch’io, un giorno, apparire nell’elenco dei caduti, ma come salvatore di alcune vittime, mi allettò così tanto che, senza pensare minimamente a quanto sangue invece avrei avuto sulle mie mani in un futuro non troppo distante, presi la decisione di iniziare ad informarmi su quella particolare professione, chiedendo in giro come poter ottenere un posto o di quali requisiti fossero necessari.
- Stasera diremo una preghiera anche per quell’infermiere, vero? Com’è che si chiamava? Luke Whitebright— - Disse mia madre, ripresasi dallo shock che la notizia le aveva causato.
- Luke Whitelight, mamma; e sono pienamente d’accordo con te. – La corresse Grace, tentando di recuperare il normale andamento del respiro, con ben pochi risultati.
Quell’inaspettato evento ci scosse più di quanto non demmo a vedere, forse perché non era ancora stato ben assimilato e accettato dalle nostre menti, un poco offuscate dal dover continuamente prestare orecchio fuori dalla finestra, in attesa di urla o richieste d’aiuto cui non avremmo potuto accorrrere. In guerra ognuno pensa per sé, gli eserciti non sono altro che un sistema di raccolta di tante piccole pedine che non seguiranno la grande mano che li guida, un po’ per paura, un po’ per la sballata convinzione di potersela cavare anche senza un punto di riferimento.
Quando mia madre e Grace iniziarono a sparecchiare, mi alzai da tavola ancora con quella buffa idea piantata in testa, come se fosse facile scendere in strada e domandare al vicinato il sistema per divenire infermiere di guerra. A stento si potevano richiedere i viveri!
Tuttavia, preso com’ero dall’immaginarmi di fianco ad un uomo ferito che, dopo esser stato curato, mi avrebbe ringraziato col più raggiante dei sorrisi, non mi abbattei nemmeno per un attimo e decisi che quello stesso pomeriggio sarei andato da un vecchio amico di mio padre, troppo anziano per essere chiamato alle armi, e che gli avrei domandato un paio di cose su quell’assurda professione che in quel momento mi appariva quasi possibile da esercitare.



La casa di Robert Flemington era posta davanti a un incrocio piuttosto distante dal centro della città, pertanto decisi di usare la bicicletta per raggiungerla, fin troppo speranzoso che nessuno dei numerosi soldati in giro per la città mi avrebbe fermato per dei controlli; e infatti ve n’erano molti, appostati perlopiù ai lati delle strade. L’unico modo sensato di evitarli era prendere le scorciatoie passanti per i vicoli più umidi e lerci di Londra, quelle viuzze strette e impossibili da percorrere per un turista o un non abitante della grande capitale inglese. Per me, invece, che vagheggiavo sin da bambino per quelle venature torbide che poco dopo andavano a formare ghirigori e fantasie rimandanti ad un corpo umano, poiché ho sempre pensato – e tutt’ora penso – che le città abbiano un’anima, un cuore e che il loro fisico sia quello che percorriamo ogni giorno, Londra aveva pochissimi segreti, segreti di cui conoscevo comunque la chiave.
Quindi mi diressi con nonchalance per una stradina bagnata dalle acque di scolo, su cui il martedì si faceva il mercato, stando attento a produrre il meno rumore possibile, giungendo in una decina di minuti, ancora illeso, alla particolare casa di Robert.
L’abitazione di quest’uomo faceva parte d’un gruppo di case costruite a metà dell’Ottocento, un periodo in cui quanto più sfavillanti e stravaganti ci si dimostrava, più si veniva considerati dei modelli da seguire. E quella grande costruzione a tre piani, adatta per – e pure a stento – quattro famiglie, pareva proprio urlare “Guardatemi! Guardate quanto sono assurda!”. Il che non era del tutto fuori luogo: le fondamenta avevano appena un ordine logico, sistemate in una maniera che faceva pensare ad una specie di teatro degli orrori misto all’entrata per il Mondo delle Meraviglie di Alice, che se avesse visto quella buffa casa, probabilmente avrebbe pensato di trovarsi ancora in mezzo ai matti. Il tetto di tegole rosse era a punta, un dettaglio che, di solito, veniva usato solo per le case di montagna e non per quelle della periferia cittadina. La facciata esteriore era dipinta d’un verde foresta, con alcune decorazioni dorate volte a disegnare un grande albero con la porta come tronco ed il tappeto come radici. Le finestre, invece, dall’architettura gotica ed i vetri limpidi e trasparenti, sembravano occhi dallo sguardo severo affacciati sulla strada, muti giudici delle piccole storie quotidiane che tutti siam soliti portare a casa, ma sempre prive di qualche particolare che, invece, quella casa avrebbe saputo narrare con innata precisione.
Di per sé era una bella costruzione, nessuno avrebbe potuto affermare il contrario, ma quell’aria lugubre e... incompleta?, che la circondava, la rendeva difficile da pensare come un’abitazione. Una casa, di solito, deve dare l’idea di un nido, di un luogo in cui ristorarsi e rifugiarsi nei momenti più oscuri; quell’edificio, invece, pareva di suo un luogo oscuro. E, ad aggiungere inquietanti risvolti al suo aspetto lugubre, v’era la voce che l’architetto si fosse suicidato prima del completamento di quella ormai pressoché fatiscente dimora.
Mi apprestai ad attraversare la strada che mi separava dalla grande casa di Flemington, alzando la bicicletta da terra per tentare d’evitare rumore inutile. Quindi l’appoggiai al verde e consunto muro, spostando il grande portone per entrare in quello che a tutti gli effetti chiamavano appartamento, sebbene inizialmente avrebbe dovuto essere una villa per una sola famiglia.
Salii le scale a chiocciola fino al secondo piano, bussando un paio di volte alla porta su cui campeggiava il distorto disegno d’un drago a due teste, forse uno degli ultimi parti della mente malata di quell’architetto ormai lasciato a marcire nell’oblio.
- Chi è? – Rispose una voce roca, che riconobbi subito come quella di Flemington.
- Herbert Dover! – Risposi a mia volta, sperando si ricordasse di me; non ci vedevamo da un paio d’anni.
Poco dopo udii l’inconfondibile rumore del chiavistello che viene rimosso e lo scatto di altre serrature, infine la porta si aprì con un cigolio basso, rivelando il volto anziano e provato del vecchio amico della famiglia Dover.
Robert Flemington è stato una figura fondamentale per la vita di mio padre, quasi un mentore, colui che gli ha spiegato molte più cose di mio nonno, che a quel tempo era troppo impegnato a vantarsi qui e là d’aver combattuto nella guerra precedente a quella che stavamo vivendo. Gli aveva insegnato l’arte di sopravvivere nelle peggiori situazioni e la perseveranza nel seguire i propri sogni e le proprie ambizioni, un’abitudine che, fortunatamente, mio padre ha trasmesso anche a me.
- Herbert, sono anni che non ci si vede, ragazzo mio – mi salutò con una pacca sulla spalla, mostrando uno di quei rari sorrisi che avevo imparato ad apprezzare col tempo – Ma non parliamo sul pianerottolo, ci sono orecchie dappertutto. – Mi invitò quindi, con un cenno eloquente del braccio, a entrare, richiudendo poi la porta con quella grottesca bestia dipinta sul retro.
Si addentrò nel grande appartamento, dirigendosi subito a spegnere i fornelli su cui stava facendo bollire l’acqua per il tè, tornando poi ad osservarmi con aria felice e, tuttavia, un poco diffidente; forse aveva intuito la mia intenzione di domandargli cose di cui solitamente non è bello parlare.
- Allora, cosa ti porta qui? – La domanda era formulata con aria bonacciona e mite, ma il luccichio dei suoi occhi non mi fece dubitare nemmeno per un attimo che, se avessi detto la cosa sbagliata, non ci sarebbero stati i miei genitori a scusarmi come in passato era già accaduto qualche volta.
- Innanzitutto volevo salutarti e portarti un po’ di pane. Ho saputo che qui da voi è difficilissimo trovarlo, mentre noi abbiamo un panificio davanti casa, quindi prenderne una razione in più con la scusa di avere una bambina piccola a casa è stato un gioco da ragazzi. – Spiegai, porgendogli una confezione di pane che faticosamente avevo portato per tutti quei fangosi sentieri.
Robert ne soppesò il contenuto, testandone per qualche istante la consistenza, posandolo poi con aria soddisfatta su un mobile antistante. Mio padre mi aveva insegnato che, quando si va a casa di altre persone, soprattutto senza preavviso, è bene portare sempre con sé qualcosa, preferibilmente del cibo o, comunque, oggetti utili.
- E poi? Hai detto “innanzitutto”. Continua, continua. – Mi esortò, sedendosi nel frattempo sulla consunta poltrona su cui, immaginai, ormai trascorreva buona parte della sua giornata. Almeno avevo ottenuto la sua attenzione, era un considerevole passo avanti.
- So che di guerre e battaglie te ne intendi meglio d’uno storico, Robert, - feci una pausa, scrutando la sua espressione: sembrava ancora attenta e per nulla incupita da quell’introduzione. – perciò, dato che sono abbastanza incuriosito dalla professione d’infermiere di guerra, volevo sapere da un esperto i requisiti necessari ed i sistemi per esercitarla correttamente. – Dissi tutto d’un fiato, concludendo la frase con un sorriso piuttosto tirato.
Robert mi scrutò qualche istante, momenti in cui dubitai della mia presentabilità, per poi alzarsi e recuperare da uno scaffale la sua vecchia pipa, nella quale lasciò cadere del tabacco per poi accenderla flemmatico, aspirandone qualche boccata. Dunque mi gettò un’occhiata che mi trapassò completamente, tornando nel frattempo a sedersi sulla sua poltrona. Avvertii che l’atmosfera nella stanza era mutata.
- Lascia che ti corregga, Herbert: l’infermiere di guerra, come unici requisiti necessari, deve avere un’enorme forza d’animo, un cuore pronto a mille e più colpi e una rapidità di pensiero prossima a quella degli scienziati e dei geni. Non è come curare le persone negli ospedali: lì hai delle strutture stabili, delle adeguate apparecchiature, altri colleghi pronti ad aiutarti se la situazione del paziente dovesse degenerare. Invece, nella tenda dove curi i feriti di guerra, direttamente sul campo di battaglia, non hai neanche il tempo di pensare a fare la respirazione bocca a bocca ad uno che subito te ne portano un altro che è in punto di morte. Non è un lavoro semplice, Herbert. Si può dire che gli infermieri di guerra soffrano quasi più dei loro stessi pazienti. Devono cavarsela da soli, a volte devono compiere delle scelte difficili che peseranno sulla loro coscienza in eterno. E sai quali saranno le uniche gratifiche? I rari sorrisi dei pochi che riuscirai a mettere in salvo. -
Allora non avevo capito affatto quanto vere fossero le sue parole. Pensavo volesse farmi desistere da quell’idea poiché la riteneva pericolosa e, in fondo, ero pur sempre il figlio del suo pupillo. Pensavo stesse esagerando e che, invece, in quelle tende verde militare avrei avuto molto più tempo per pensare di quanto mi avesse accennato lui. Ero ancora così giovane... e così inesperto.
Assunsi un’espressione grave, abbassando lo sguardo giusto per fargli piacere; la verità è che volevo subito sapere come potevo chiedere di far parte dell’esercito sotto quel ruolo.
- So che alla tua età, Herbert, si è abbastanza maturi per capire quando una situazione è pericolosa, ma non abbastanza per decidere di evitarla. Forse perché si pensa ai lati positivi o forse perché si pensa che le batoste si possano superare, come quando da bambini ci muore il cane, il nostro fedele compagno di giochi. Non è così. Le perdite di guerra, soprattutto quando vedi morire qualcuno davanti ai tuoi occhi, non se ne andranno mai. Spesso non avrai nemmeno un tumulo cui fare visita e dovrai accontentarti dei ricordi sbiaditi e delle voci distanti che quelle persone perdute ti hanno lasciato come unica memoria. Se deciderai d’intraprendere questa strada, ti avverto: non affezionarti mai, mai a nessuno dei tuoi pazienti. Perché c’è una possibilità su mille, per quanto tu possa essere capace e rapido, che si salvi. E ti assicuro, Herbert, che non c’è nulla di più doloroso dell’accettare d’aver perso qualcuno per colpa propria.
- Ma confido che sarai abbastanza responsabile da capire da te quando sarà il momento d’andartene; perché, ora come ora, te lo leggo negli occhi che non vedi l’ora di salvare vite e stare lì, in mezzo alla guerra. Sei un uomo, ormai. Nessuno può vietarti di vivere le tue esperienze, neppure un povero vecchio che di cose ne sa tante, sulla soglia dei suoi ottant’anni. –
Concluse gli avvertimenti e gli ammonimenti baciandomi sulla fronte, augurandomi buona fortuna ed informandomi che, se desideravo arruolarmi nell’esercito inglese come infermiere, dovevo sbrigrarmi a salutare ciò che restava della mia famiglia, perché non sarebbe stato facile.
Mi indicò a chi rivolgermi nell’esercito e mi congedò con la scusa di voler fare un sonnellino pomeridiano. Appena uscii dalla porta di casa del vecchio Flemington, udii dei singhiozzi dall’altro lato e, voltandomi a guardare quello stravagante drago a due teste, mi resi conto che l’espressione che prima avevo definito grottesca, in realtà era solo infinitamente triste.


- Herbert Franklin Dover, tu non andrai proprio da nessuna parte! -
Conoscevo abbastanza mia madre da sapere che, una volta propostale la mia idea, prima si sarebbe infuriata e poi sarebbe scoppiata in un pianto senza fine.
- Mamma, per favore, ormai ho vent’anni! Non posso restare qui per sempre! C’è la guerra lì fuori e hai idea di quante vite potrei salvare? -
- Non t’interessa salvare la tua?! – Continuava a gridare, con Grace che la tratteneva dallo scuotermi violentemente e Violet che osservava la scena aggrappata a un lembo del suo grembiule da cucina.
Mi avvicinai a quelle che per sempre sarebbero state le tre donne della mia vita, le uniche che avrei portato nel cuore fino alla morte e le abbracciai in silenzio, accogliendo i pugni che mia madre mi diede sulla schiena per poi avvinghiarsi alle mie spalle e singhiozzare sconsolata. Le accarezzai i capelli, sospirando, tentando d’imprimere il più possibile quel momento nella memoria; perché avevo l’impressione che non le avrei più riviste. Una di quelle sensazioni troppo brutte da accettare, ma al contempo troppo ovvie da rifiutare, che colgono specialmente alcuni militari nei momenti di commiato dai propri familiari. Quanto mi sarebbero mancate, quelle tre splendide donne.



In serata preparai una borsa con pochi panni e una delle tre pistole di mio padre, di cui due le aveva portate per sé ed Oscar in Norvegia, tentando di guardare il meno possibile quella casa di cui così tanto avrei avvertito la mancanza.
Fu il momento degli addii, il peggiore per un soldato, più doloroso d’una pallottola in pieno petto.
Mi avvicinai prima a mia madre, sorridendole con sicurezza e gioia sincera. Aveva accettato di lasciarmi andare; ed è la prova d’amore più grande che qualcuno possa fare.
- Prendi questa con te: ti proteggerà. – E, con un gesto rassegnato ma deciso, si tolse la fede nuziale dall’anulare e, dopo averla accuratamente legata a una cordicella, me la sistemo in tasca, accarezzandomi poi il viso con quell’amore e quell’affetto infinito che sono un genitore può trasmettere a un figlio.
Fu il turno di Grace, che dopo essersi schiarita la voce più di quanto non fosse necessario, mi si avvicinò e mi baciò sulla guancia, sistemandomi in mano il suo nastro per capelli viola, quello che usava per le occasioni più importanti e per gli appuntamenti più speciali.
- Donalo alla ragazza cui porgerai il tuo cuore. – Mi sussurrò, indietreggiando poi per lasciar spazio a Violet, che mi si gettò fra le braccia, senza però versare una sola lacrima.
- Bravissima sorellina. Sei tu, adesso, che devi prenderti cura di mamma e Grace, lo sai? Sì, devi averne tanta cura. E mi raccomando, non smettere mai di pregare. –
Sin da quando eravamo piccoli i nostri genitori ci avevano educati alla preghiera. Ci avevano insegnato ad inserire amore e convinzione in quei versi sempre uguali e sempre nuovi che ogni sera e ad ogni pasto ripetevamo fedelmente. E con esperienze personali ero giunto alla conclusione che qualcuno, in chissà quale angolo remoto dell’universo, ci ascoltava sul serio e non ci avrebbe lasciati da soli ad affrontare il nostro avvenire.
In quel momento mi resi conto d’aver fatto una scelta radicale, una di quelle che cambiano per sempre la vita. E, come tanti altri prima di me, non tornai mai indietro.


 


***




Salve a tutti~!
Sono felice che qualcuno sia arrivato a leggere sin qui, di solito è difficile trovare lettori così gentili e interessati. Soprattutto perché questa è la mia prima fic in questa sezione e non ho intenzione di lasciarla incompleta; d’altronde siamo in estate, no? Ne avrò di tempo per aggiornare!
Spero in ogni caso in un vostro supporto, che è sempre gradito e mi aiuta tantissimo ad andare avanti con la storia. Lasciate un commentino su questo prologo, se ne avete voglia-! O, se avete errori da farmi notare, siete comunque i benvenuti :D

Al prossimo capitolo~~!

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