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Autore: Glenda    25/01/2008    12 recensioni
La mia prima fic su Criminal Minds, incentrata sul rapporto tra Gideon e Reid
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jason Gideon, Spencer Reid
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dal quaderno dei deliri di Glenda:

Aveva già vissuto quella situazione, ma stavolta era diverso.

Ora, là dentro c’era Reid: quel ragazzo che aveva sempre desiderato proteggere, che aveva quasi avuto la presunzione di “salvare” con i suoi insegnamenti, con i suoi consigli.

Reid era all’ultimo piano di quel palazzo, da solo, a trattare con una pazza imbottita di dinamite, che teneva in ostaggio otto uomini. E lui era lì fuori, ad aspettare. Impotente.

Hotch gli batté una mano sulla spalla, anticipando il suo pensiero.

“So che non mi approvi. Ma sai anche che era la scelta migliore”

Già, era proprio così.

Se fosse dipeso da lui prendere quella decisione, probabilmente non avrebbe permesso al ragazzo di correre quel rischio: ci sarebbe andato lui, Jason Gideon, a farsi ammazzare.

Ma Hotch aveva ragione. Tenendo presente il soggetto con cui avevano a che fare, quello che tra di loro aveva maggiori probabilità di successo era proprio Reid.

Perché aveva gestito una madre schizofrenica per 18 anni.

Perché era stato a stretto contatto con uno psicopatico affetto da personalità multipla che lo aveva drogato e torturato.

Perché aveva un modo tutto suo di abbattere le barriere che certi SI erigevano attorno a loro.

“Non serve un’arma per uccidere” aveva detto, quasi sorridendo, mentre gli porgeva la pistola.

“No. Però aiuta molto” avrebbe voluto rispondergli.

Invece lo aveva guardato col suo sguardo più incoraggiante e non aveva parlato.

Si era offerto lui volontario di salire lassù, disarmato, a trattare con lei. Lo aveva fatto adducendo – come sempre – quelle tre motivazioni inattaccabili, che aveva esposto col suo solito modo un po’ didascalico, distante, quasi trasognato.

Eppure, Spencer Reid non era più il ragazzino che aveva conosciuto, quando era entrato, per ultimo, nell’unità comportamentale. Qualcosa era cambiato in lui, da quel giorno. Qualcosa che lo aveva reso dannatamente più fragile, ma anche dannatamente più sicuro di se stesso.

“Ce la posso fare, Gideon. Abbi fiducia in me. Ce la posso fare”

Jason non era certo che potesse farcela, invece. La sua esperienza gli diceva che c’erano anche molte possibilità che quella donna avesse ormai reciso ogni contatto con la propria realtà, e fosse completamente in balia del suo altro sé.

Ma era la prima volta che Reid pronunciava la frase che – in mille altre situazioni – avrebbe pronunciato lui: “Abbi fiducia in me”. Se gli avesse negato quella fiducia gli avrebbe fatto del male. In quel momento, Reid aveva bisogno di ricostruire il terreno sotto i propri piedi: aveva bisogno di dimostrarsi all’altezza di gestire quella donna, e lui, da buon profiler, sapeva bene perché.

Perché ogni follia che riusciva a comprendere, che riusciva a recepire e ad abbracciare, era un passo in più fatto per avvicinarsi alla sola persona che aveva dovuto allontanare da sé.

Proprio come lui, che conservava le fotografie delle persone che era riuscito a salvare.

 

Greta Curtis era una donna di 53 anni, centralinista in un’agenzia di telecomunicazioni, lavoratrice modello e moglie amorevole, che, nel giro di pochi giorni, aveva fatto esplodere quattro persone.

Adesso, era imbottita di esplosivo: otto colleghi in ostaggio, all’ultimo piano del palazzo della ditta.

Avevano avuto poco tempo e pochi elementi per tracciarne un profilo: disturbo di personalità multipla, probabilmente scatenato dalla morte del figlio; era consapevole di ciò che le avveniva, ma non era in grado di controllarsi: le due personalità si alternavano senza un apparente criterio. La prima era mite e riservata al punto che nemmeno in famiglia era riuscita a dar voce al proprio dolore; la seconda era rabbia allo stato puro: rabbia contro il mondo, contro il destino e contro tutti gli altri esseri umani, colpevoli di essere ancora vivi. E, in quanto rabbia, era inarrestabile: era escluso che si riuscisse a spingerla alla resa.

Almeno su questo, nessuno di loro aveva dubbi: se non si fosse riusciti a far leva sulla personalità ragionevole, si sarebbe fatta saltare in aria, e Hotch aveva giustamente compreso che per negoziare con lei, bisognava che non si sentisse minacciata.

Reid aveva venticinque anni, la stessa età del figlio di lei. Ed era indubbio che fosse la persona più inoffensiva tra loro. Inoffensiva all’apparenza, almeno: Gideon si ripeteva che era un bravissimo profiler, sapeva capire, sapeva “sentire” (questo aveva detto lui, dopo l’esperienza con Raphael) le sofferenze degli altri. Un dono, senz’altro, raro e importante.

Ma era Spencer, maledizione!

Il suo Spencer, quello che era per lui un amico e un figlio: non era un artificiere sconosciuto, non era un agente operativo assegnatogli per un caso. Era tutto, dannatamente diverso!

Jason Gideon ascoltava in silenzio i propri pensieri, e se ne sentiva in colpa.

 

Reid si avvicinò piano, a mani alzate, senza superare le due scrivanie che lo separavano dalla donna. Gli ostaggi – un uomo di poco più che trent’anni, e sette donne, tutte giovani – stavano dietro di lei, stretti l’un l’altro, tra i numerosi tavoli che, così disposti, sembravano quasi una piccola prigione. Il silenzio, interrotto solo da qualche respiro più forte degli altri, era opprimente. Sulle scrivanie, quelle decine di telefoni sembravano anch’esse piccoli ordigni pronti ad esplodere…

“Sono il dottor Spencer Reid…” disse il ragazzo, non osando muovere un passo in più di quanto già gli era stato concesso “…signora Curtis…sono qui per parlarle…”

Gli ostaggi lo guardarono terrorizzati, come se una parola di troppo potesse segnare la loro fine.

Per un attimo un ricordo passò nella mente di Reid – rapidissimo, appena un flash – un ricordo di un’altra volta in cui si era trovato così, del tutto inerme, faccia a faccia con l’SI.

“Parla genio, ma guarda che se quel che gli dici non gli  piace, lui ti uccide”.

Lo aveva detto Hotch.

Allora, lo chiamava ancora “ragazzino”.

E, allora, era stato lui a gestire la situazione, a tenere a bada il killer, a permettere che entrambi si salvassero.

Ma adesso era diverso: lo aveva lasciato salire lui lassù, lo riteneva all’altezza di farcela anche da solo.

“…Greta, voglio aiutarla…”

La donna lo fissò negli occhi: fu uno sguardo pieno di odio e di rancore.

“NON SONO GRETA! SONO EDWARD!”

Edward.

Reid elaborò rapidamente i dati a sua disposizione.

Edward Curtis, venticinque anni, era deceduto il mese prima, in un incidente sul lavoro. A causa di una fuga di gas il distributore di benzina dove lavorava era saltato in aria. Il ragazzo era morto sul colpo insieme ad altri tre colleghi.

Nello stendere il profilo, Gideon aveva sostenuto subito che l’evento scatenante della patologia della donna fosse stata l’incapacità di elaborare quel lutto, e l’uso dell’esplosivo come arma non lasciava molto spazio ad altre ipotesi. Aveva altresì avanzato l’idea che la seconda personalità della signora Curtis nutrisse paradossalmente il desiderio di veder morire quanta più gente possibile nello stesso modo di Edward, quasi che quella fosse un’opera di “giustizia” nei confronti di un destino che aveva lasciato in vita, sparsi per il mondo, sei miliardi di sconosciuti anziché suo figlio.

Ma non aveva avuto abbastanza fantasia da pensare che l’altra personalità fosse il figlio.

Reid deglutì.

“B-bene, Edward…” disse “p-perché vuoi uccidere tutta questa gente?”

La donna non rispose, e lui incalzò, ma con calma, con quella sua voce un po’ esitante e le mani sempre in alto, immobili.

“…non ti farà sentire meglio. N-non…calmerà la rabbia che provi. E quel dolore che senti qua, sotto le costole…” lentamente abbassò una mano, e andò ad appoggiarla sotto il petto, all’attaccatura dello stomaco “…non passerà. Continuerai a sentirlo anche dopo…”

La mano della donna scattò verso il detonatore: Reid riportò le mani in alto, di riflesso.

“ASPETTA! A-aspetta…Tua madre…La tua mamma, come pensi che si sentirà?”

Dio, che gli era saltato in mente? Da dove gli era venuta quella domanda?

Non lo sapeva. Era stato un istinto…quasi che fosse la cosa più ovvia da chiedere.

“Se uccidi questa gente…se azioni quella bomba…morirai. E lei piangerà di nuovo…!”

Stavolta fu Reid a guardarla dritta negli occhi.

La donna sostenne lo sguardo per pochi attimi, poi lo abbassò. Un mezzo singhiozzo, che non riuscì a sciogliersi, le intoppò la voce.

“Scappa…” sussurrò, piano, come per non farsi sentire “vattene, ragazzo…Lui ti ucciderà!”

Reid sbatté le palpebre.

“…Greta Curtis?”

Lei si graffiò il volto con le mani, poi se le portò tra i capelli

“TI UCCIDERA’! Ucciderà tutti! Lui…soffre troppo!”

“Anche lei soffre, Greta…ma lei non vuole uccidere proprio nessuno…”

Reid si fece coraggio, abbassò le mani ed avanzò di qualche passo

“STAI LONTANO!” gridò la donna in preda al panico “STAI LONTANO!”

Spencer sussultò: per un istante ebbe paura. Ma non era il momento di esitare. Se voleva salvare almeno qualcuna di quelle persone,  quello era il momento di agire.

Avanzò tra le due scrivanie e si avvicinò alla signora, tendendo una mano verso di lei.

“Greta” disse, pronunciando il suo nome con assoluta calma “Mi ascolti. Non succederà niente. Lei starà bene. Tutti e due starete bene. Si fidi di me…”

“Che devo fare???” singhiozzò la donna, scoppiando in lacrime “Che devo fare???”

Reid si avvicinò ancora, lentamente, le appoggiò le mani sulle spalle.

“Faccia uscire queste persone, Greta…”

“Non posso! Lui si arrabbierà!”

Reid cercò il suo sguardo e le fece un sorriso

“Lui non lo saprà…” sussurrò, con tutta la dolcezza di cui era capace “perché non vedrà niente…e noi non glielo diremo…va bene?”

Portò una mano dietro la testa della donna, e la avvicinò a sé, facendole appoggiare il volto sulla propria spalla. Con l’altro braccio le cinse la schiena e prese a cullarla lievemente.

“Va tutto bene…” ripeteva piano al suo orecchio “va tutto bene” e nel mentre, con lo sguardo faceva cenno agli ostaggi di allontanarsi, uno per uno, dalla stanza.

“Ti ucciderà…”

Reid sentiva le lacrime di Greta Curtis bagnare il suo maglione

“Ti ucciderà appena lo saprà…”

Il ragazzo le accarezzò i capelli

“…Non ne ho paura…”

 

Gli otto ostaggi uscirono di corsa dall’edificio, raccolti dalla polizia e dai medici.

Il telefono di Hotch squillò.

“Reid! Gli ostaggi sono…”

Poi un boato sordo.

Jason Gideon guardò, pietrificato, le vetrate dell’ultimo piano esplodere.

 

Per qualche minuto non vide nulla. L’esplosione l’aveva costretto a chiudere gli occhi, automaticamente.
Quando li riaprì si trovò davanti a uno scenario di devastazione.

Parti dell’edificio pendevano dalla struttura portante, come vecchi vestiti sgualciti. I vetri esplosi erano sparsi ovunque e rendevano il terreno circostante, stranamente luccicante, come se qualche incauto gioielliere si fosse lasciato dietro una scia di diamanti.

Crik crack , crick, scoppiettavano, friggevano, scricchiolavano sotto i piedi della gente in fuga e di chi si apprestava a portare i primi soccorsi. Per alcuni istanti non aveva più sentito nulla e soltanto in quel momento, abituando gli occhi al fumo acre del crollo, aveva cominciato a vedere la gente muoversi, correre al rallentatore in mezzo a nuvole di polvere.

Si sfiorò la guancia con la mano, ritraendola sporca di sangue, ben poca cosa in quella catastrofe epocale.
Poi c’erano state le sirene, gli artificieri, le squadre speciali che cercavano di entrare nell’edificio in fiamme. Qua e là c’era qualche altro scoppio, cavi elettrici nudi che generavano piccole scintille, con l’acqua che zampillava a intermittenza dai rubinetti divelti e si avvicinava paurosamente ai fili scoperti.
Si guardò intorno ammutolito, come se la deflagrazione l’avesse privato anche della parola: alcuni degli ostaggi erano già stati messi in salvo, ma altri si trovavano ancora vicinissimi all’edificio al momento dell’esplosione. Qualcuno gridava reggendosi la testa da dove scorrevano fiumi di sangue, altri piangevano isterici, ovunque regnava il caos.

“…on!...deon!!!Jason” si voltò di scatto.

Hotch lo stava chiamando a pieni polmoni in quel delirio infernale.

Lo sentiva, ma non lo vedeva.

Troppo fumo.

Sirene si avvicinavano, incrementando la confusione. Un altro pezzo del palazzo cadde a terra con un poderoso fragore. Si abbassò istintivamente, sapendo però che non c’era luogo dove potersi nascondere.
Non appena si riebbe gridò anche lui con quanto fiato aveva in gola

“Reid!!Reid!!REID!!”.

Reid che era ancora lì dentro, Reid che era con quella pazza dinamitarda, mentre lui…

Si slanciò verso l’entrata dell’edificio, incurante dei richiami di Hotch e di quelli dei vigili del fuoco. Doveva entrare, doveva trovarlo, solo questo importava.

“Fermatelo!!Fermatelo!!” sentì qualcuno urlare alle sue spalle.

“Jason!!!NO!”
Braccia muscolose lo afferrarono saldamente da dietro.

Lui si divincolò.

“tenetelo, tenetelo!!”.

“lasciatemi! Lasciatemi, Lasciatemi andare!!! Devo entrare! Lasciatemi!!”.

Ci vollero quattro uomini per tenerlo fermo.

“LASCIATEMI!”.

Non gli importava se i vetri, a contatto con la sua guancia, gli ferivano il volto lasciandovi rivoletti di sangue.

“Signore non può entrare!”.

In quel momento un pompiere uscì sorreggendo una figura quasi irriconoscibile.

“UN’AMBULANZA, PRESTO!” gridò “C’E’ UN FERITO GRAVE!”

 

Era un’attesa interminabile.

Da quando avevano seguito l’ambulanza ed erano arrivati lì, avevano perso il senso del tempo: ma era evidente che quella sala operatoria era chiusa da troppe ore.

Dopo lo shock iniziale, e il tentativo di gettarsi in un palazzo in fiamme, Gideon sembrava essersi chiuso in un imperscrutabile silenzio.

“Jason…” la mano di Hotch batté sulla sua spalla “non potevi andarci tu, lo capisci? Non potevi andarci tu. Spettava a lui, lo sapevi quanto me. E lui…è stato bravo…”

Lo sguardo di Gideon fissava il pavimento.

Certo che sei stato bravo, Reid. Sono così fiero di te…

Appoggiò la fronte fra le mani: non rispose.

Che senso aveva, in fondo, ammettere che non potevano fare altrimenti? Lo avrebbe fatto sentire sollevato? Avrebbe riportato indietro il tempo? Avrebbe salvato la vita di Reid?

Erano tutti lì, raccolti insieme come una famiglia smarrita: Hotch che gli teneva la mano sulla spalla, Morgan che camminava su e giù, come una tigre in gabbia, Prentiss in piedi, con le spalle appoggiate al muro, Garcia che si mordeva le unghie.

D’un tratto JJ balzò in piedi.

“Qualcuno vuole un caffé? Siamo…qui da ore e…” sforzò un sorriso gentile, uno dei suoi.

E scoppiò in lacrime.

Per un istante, Gideon desiderò alzarsi, e passare una carezza su quella testa bionda.

Non ci riuscì.

Lo fece, invece, Morgan, che le mise un braccio attorno alle spalle e la portò fuori.

Poi la porta si aprì ed Hotch si alzò, andando incontro al medico che era appena uscito.

“L’intervento può dirsi riuscito, ma le lesioni riportate sono gravi. Il giubbotto antiproiettile in parte lo ha protetto…e probabilmente si trovava a distanza dall’ordigno, quando è esploso…”

“…mi stava telefonando…” mormorò Hotch, quasi senza tono “…forse si era allontanato da lei, per chiamarci…”

Il medico continuò, lento, impersonale.

“Le sue condizioni sono ancora critiche. Non posso sciogliere la prognosi. La famiglia è stata avvertita?”

La voce di Gideon si fece udire come un sussurro.

“Siamo noi la sua famiglia…”

Il dottore alzò un sopracciglio: non aveva sentito.

“Siamo noi la sua famiglia” ripeté Jason, sollevando la testa “…posso vederlo?”

“Gideon…”

Lui si alzò, facendo leva con le braccia, e si avvicinò al medico.

“La prego, me lo lasci vedere…”

 

Vedere…non riusciva a vedere…

Gli sembrava di sentire delle voci…una pronunciava il suo nome…

“Spencer…cos’hai, stai male?”

Mamma…sei tu? Io…non vedo niente …non…

“Spencer, tesoro…non rispondi alla mamma?”

…non ci riesco…non riesco a parlare…sto così  male…Mamma…ho paura…

“Non fare così…va tutto bene. La mamma resta con te, adesso…”

Sì…rimani…rimani…passerà. Passerà se resti…

“Ti leggo qualcosa Spencer, vuoi…?”

Oh, dio, sì…leggi, mamma. Sono passati così tanti anni…! Leggi per me…

 

“ “Mi chiedevo che ore potessero essere” “ la voce di Gideon leggeva chiara e lenta, dolcemente “ “sentivo il fischio dei treni che, più o meno lontano, come il canto di un uccello in una foresta, segnando le distanze, mi descriveva la distesa della campagna deserta, dove il viaggiatore si affretta verso la stazione successiva…” “

La porta si aprì piano.

“Basta così, Gideon. Devi andare a casa, ora. Ti do il cambio io…”

Jason fece cenno di no con la testa, e richiuse il libro tenendo il segno con un dito.

“Non sono stanco”

“La tua faccia dice il contrario. Coraggio, Morgan ti dà un passaggio”

Gideon non diede segno di volersi alzare: il suo corpo stesso non ne aveva la forza. Era sveglio da più di 48 ore, e ormai gli sembrava che le sue gambe si fossero radicate a quel pavimento, e che non ne sarebbero più state sciolte. Mai più, se Reid non si fosse svegliato.

“Sembra che dorma, vero?”

Hotch prese una sedia, e si sedette accanto all’amico.

Se non fosse stato per tutte quelle apparecchiature di monitoraggio, le bende che gli avvolgevano il braccio che restava fuori dalle lenzuola, e la garza che gli copriva la tempia e il sopracciglio destro, il viso di Reid sembrava veramente quello di una persona serenamente addormentata.

Invece, la realtà di fatto era che il loro collega era entrato in coma dopo l’intervento, e i medici non erano in grado di prevedere come si sarebbero evolute le sue condizioni.

Gideon era rimasto sempre lì, gli aveva parlato, gli aveva letto i suoi libri preferiti. A volte, semplicemente, era rimasto fermo a guardarlo, tenendogli la mano come se, in assenza di parole, quel contatto potesse trasmettergli il messaggio che non lo avrebbe lasciato solo.

Perché era questo che Spencer Reid gli aveva chiesto, nel suo modo implicito e riservato, sempre, da quando avevano cominciato a fidarsi l’uno dell’altro: di non essere lasciato solo da lui, da Jason Gideon. Ed egli, anche lui nel suo modo mai diretto, mai invadente, lo aveva guidato per mano, gli aveva insegnato “a fare scacco in tre mosse”, gli aveva fatto capire di essere parte integrante di un gruppo, gli aveva ripetuto, tutte le volte che ce ne era stata l’occasione, che lo stimava, che era orgoglioso di lui, che gli voleva bene.

E gli aveva insegnato che non c’era bisogno di un’arma per uccidere.

Forse, tutto ciò che Reid era diventato, la sua bravura, la sua sicurezza, la determinazione con cui non aveva esitato a salire lassù, e a trattare con una pazza che lo aveva ridotto così, erano state colpa sua. O forse, lui era solo uno stupido presuntuoso nel pensare una cosa del genere, e Reid aveva salvato otto persone – e si era lasciato ridurre così – solo perché era veramente speciale.

“Tu sai come ha fatto a convincerla, Hotch?” disse ad un tratto, rompendo il silenzio.

“Non c’ero. Non posso saperlo”

“Io sì” sorrise Gideon “Io lo so. L’ha trattata come una madre, ha fatto leva sul suo istinto materno e l’ha fatta sentire…esattamente come fa sentire noi, Aron. In colpa se non riusciamo a proteggerlo. Se non ci prendiamo cura di lui…”

Appoggiò la sua mano su quella di Reid

“Hai fatto così, vero, razza di genio…?”

Immaginò che Reid sollevasse le sopracciglia con aria di sufficienza e poi facesse uno di quegli strani sorrisi dei suoi, che sembravano sempre dire due cose diverse insieme “sì, è vero, sono un genio” e “no, non ho fatto quel granché”.

“Senti Jason” la voce di Hotch stavolta era dolcemente ironica “fare lo sciopero del sonno non servirà a guarire Reid”

“Lo so” rispose, abbozzando un pallido sorriso “è per me che lo faccio”

Non ci fu bisogno di dirsi altro. Aron Hotchner era un eccellente profiler e un amico fraterno, avrebbe potuto leggergli la mente. Sapeva che quell’impotenza lo rodeva dentro, sapeva cosa significava per lui non poter far niente per salvare qualcuno.

“Vado a prenderti una coperta…”

 

All’inizio fu doloroso: la luce era tagliente e gli occhi si richiusero subito.
Ma poi, con dolcezza, il tepore del sole gli scaldò le palpebre, che sbatterono un paio di volte, lentamente.
Era mattino, lo riconobbe subito: c’era quel tipo di luminosità tenue, discreta, che gli era sempre piaciuta tanto.
Mamma, alzati. Non vedi che bella luce?
Mamma, alzati…ti prego…

Dov’era?
Voleva girare la testa per guardarsi attorno, ma si sentiva come inchiodato: sembrava che il suo corpo si fosse afflosciato come un pupazzo di stoffa.
Cos’era successo?
Ricordava il pianto di una donna, e poi…
…poi aveva sentito la voce di sua madre, che leggeva un libro.
Ma no…non era lei. Non era stata la mamma…era…
“…Gideon…”
Gli occhi di Reid si erano spostati al lato del letto, dove una persona dormiva, con una coperta sulle spalle, e la fronte appoggiata sulla sua mano. Adesso la realtà cominciava a mettersi a fuoco e l’udito rimandò al suo cervello i lievissimi suoni degli apparecchi di monitoraggio, e il profondo silenzio di quella asettica stanza di ospedale.
Il grosso libro dalla copertina rossa era appoggiato sul comodino, accanto ad un bicchier d’acqua mezzo vuoto e ad un paio di occhiali.
La fronte di Gideon era calda e pesante, sulle sue dita. Reid non ebbe il coraggio di muoverle: lo guardò dormire come aveva fatto tante volte, in quella luce del mattino, con sua mamma.
Ma Jason non era come lei: non gli chiedeva di essere protetto. Semmai, era lì per proteggere lui.
Spencer socchiuse gli occhi.
Si sentì immensamente sereno.

La guancia di Gideon era ancora solcata dai visibili segni lasciati dalle lenzuola. Si era addormentato proprio in una posizione strana. Da quando si era svegliato, non aveva detto quasi niente: aveva semplicemente sorriso da un solo lato della bocca, con quel sorriso dolce e paterno che rivolgeva soltanto a Reid.
Poi aveva telefonato ad Hotch.
“stanno venendo qua…” disse “…ti senti stanco? Vuoi che li faccia entrare uno ad uno…?”
Spencer fece cenno di no col capo
“…voglio vederli tutti insieme...”
Inaspettatamente, la mano di Gideon calò sulla sua testa, in una carezza gentile.
“ricordi qualcosa di ciò che è successo?”
“poco o niente…è tutto confuso…come in sogno…”
“meglio così. Meglio così. Ma se presto o tardi ti capiterà di ricordare, ci sono tre cose che devi tenere a mente” lo guardò con aria complice “la prima, è che sei stato bravo. La seconda, è che otto persone sono vive grazie a te…”
Reid lo guardò, e gli rivolse un sorriso d’intesa, che voleva dire tante cose.
“e la terza…?”
“Sì, sono fiero di te, ragazzo…” pensò Gideon, ma scrollò il capo e rispose:
“…La terza, è che non devi azzardarti mai più a farmi spaventare così!”
Gli scompigliò i capelli, e Spencer rise.
Hotch e gli altri entrarono poco dopo: trovarono Jason seduto sulla stessa sedia, che spiegava al suo giovane collega le strategie migliori per batterlo a scacchi…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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