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Autore: margheritanikolaevna    14/07/2013    3 recensioni
In un'intervista Tim DeKay ha detto che la città di New York è un personaggio vero e proprio di White Collar e non solo un semplice sfondo: se questo è vero, vi siete mai domandati dove fossero Neal, Peter e tutti gli altri nel giorno più tragico per la Grande Mela? Si conoscevano già, oppure i loro destini si sono incrociati per la prima volta in quel drammatico mattino di settembre del 2001?
Questo racconto è la risposta che ho cercato di darmi. Ma non temete, non è una storia angst, perché il sentimento dominante sarà sempre e comunque la speranza.
Per adesso - e non so per quanto - sarà il mio ultimo lavoro su efp e spero veramente che riesca a emozionarvi.
Il racconto è stato scritto per il bellissimo contest "La speranza vive in una creativa realtà", indetto da HopeGiugy sul forum di efp e con mia grande gioia di è classificato al secondo posto (su ben ventinove concorrenti!).
Seconda classificata al contest "Anime, serie tv e sentimenti", indetto da bakakitsune su efp.
Terza classificata al contest "Dal linguaggio iconico a quello verbale", indetto da darllenwr su efp.
Grazie a chiunque avrà voglia di leggere e lasciare un suo parere.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ecco che finalmente in questo capitolo si affacciano i miei due pg preferiti: Elizabeth e Mozzie.

Grazie a tutti gli amici che resistono a leggere e a commentare.

In una rete di linee che si intersecano

Da quando era tornata a casa, Elizabeth Burke non aveva smesso di guardare le immagini trasmesse senza interruzione da tutte le reti televisive, camminando su è giù per il piccolo soggiorno e tormentandosi le mani. Ogni tanto le giungeva qualche telefonata di amici e parenti preoccupati per l’incolumità sua e del marito, ma lei le liquidava frettolosamente sia perché temeva che Peter tentasse di chiamarla e trovasse il telefono occupato, sia anche perché non ce la faceva proprio a commentare ciò che era successo solo una manciata di ore prima nella sua città, a pochi chilometri da dove si trovava.

Certo, entrambi stavano bene e nessuna persona che conosceva era rimasta coinvolta nel crollo delle torri, eppure si sentiva straziata, oppressa da un’inquietudine che le stringeva le viscere in una morsa gelata.

Quando Peter entrò senza far rumore in casa e, richiusa dietro di sé la porta, vi si appoggiò contro, Elizabeth si voltò di scatto e, fissatolo, fu sul punto di non riconoscerlo: non erano solo gli abiti ricoperti da una sottile patina di polvere opaca che lo facevano sembrare un fantasma in carne e ossa, né i capelli impiastricciati di calce grigiastra, bensì i suoi occhi. Spenti e scioccati, piantati nel volto completamente incrostato di cenere.

Le sue labbra, le sue labbra tanto familiari, si mossero appena e non emisero alcun suono, mentre lei gli si avvicinava; e quando Elizabeth gli mise una mano sul braccio, sussultò come se gli avessero appena dato una coltellata e lui sentisse il freddo della lama senza avvertirne ancora il dolore.

Poi, in silenzio, arrancò fino a una sedia e lei lo vide artigliarsi con una mano a essa come se stesse per cadere e volesse afferrarsi a qualcosa, gli occhi divenuti d’improvviso opachi.

Barcollò ancora una volta e annaspando, come cieco, vi si lasciò cadere su.

Non alzò lo sguardo sulla moglie, non le disse nulla, non la cercò.

Guardò fisso davanti a sé con quegli occhi ciechi e si mise a piangere: non un pianto dolce, malinconico e quieto. No, gemiti rabbiosi e singhiozzi che lo scuotevano come una tempesta e gli facevano tremare le labbra bagnate di lacrime.

Elizabeth rimase immobile, come inebetita, a fissare le sue spalle possenti ora squassate dai singulti; incapace di muoversi, di dire qualcosa e finanche di pensare con lucidità.

Non aveva mai visto il marito piangere - mai, nemmeno quando era morto suo padre.

Levò piano una mano per toccarlo, ma il suo gesto fu spezzato da un singhiozzo più forte degli altri: deglutì in silenzio, serrando le mascelle, e indietreggiò di un passo.

Non ci riusciva.

Non riusciva nemmeno a fargli una carezza.

Era come paralizzata dallo sbigottimento e dall’orrore: dentro di lei, qualcosa moriva un poco a ogni suo singhiozzo, eppure non era capace di trovare parole o gesti che in quel momento potessero avere un senso.

Un senso… forse in quel giorno maledetto nulla aveva senso.

Forse nulla l’avrebbe più avuto, per loro.

Tutto ciò che contava in quel momento era riuscire a dire o a fare qualcosa perché gli occhi di Peter tornassero a essere occhi e quelle non sorde caverne di disperazione che erano diventati; eppure, non ne era in grado.

Avevano senso, potevano esistere gli abbracci, i baci e le parole di conforto in un mondo come quello?

C’era ancora spazio per la speranza e l’amore?

Angosciata, rimase lì invisibile, con le mani congiunte e trattenendo il respiro, a guardarlo.

E il suo sguardo era l’aria stessa che lo accarezzava, senza che lui se ne sentisse toccare (6).

***

L’11 settembre 2001 Mozzie - mancava poco alle dieci - venne bruscamente svegliato dall’ululare rabbioso delle sirene delle ambulanze: sobbalzò e si lasciò andare a un mugugno incollerito, tirandosi poi il cuscino sulla testa. Niente da fare, quel giorno evidentemente l’universo cospirava contro di lui, sfoderando le sue più fastidiose armi acustiche per impedirgli di riposare: e pensare che ne aveva tutto il diritto, dopo che aveva passato buona parte della notte a invecchiare innocenti vasetti di terracotta made in China per farli assurgere al rango autentici e rarissimi esemplari di bucchero etrusco!

Borbottando e masticando fiele, si decise a trascinarsi fuori dal letto; si passò un mano sul viso e mise su la macchinetta del caffè, considerando che con la miscela di scarsa qualità che poteva permettersi ne sarebbe venuta fuori una brodaglia marroncina pressoché imbevibile e rimpiangendo il favoloso espresso che aveva, invece, bevuto un paio di giorni prima in un bar sulla 42esima.

Aprì il frigo e, gettatovi dentro un lungo sguardo carico di aspettative subito deluse, lo richiuse e optò per risollevare le sorti di una giornata iniziata non nel migliore dei modi versandosi ciò che era rimasto della bottiglia di pinot che gli aveva fatto compagnia durante la nottata di lavoro appena trascorsa: non era molto, in verità, ma pur sempre sufficiente a fargli tornare la voglia di aprire le tende e alzare gli occhi sulle grigie cime dei palazzoni che costituivano tutto il panorama che la Grande Mela concedeva ai suoi occhi di artista della truffa.

Intanto, i lugubri suoni delle sirene - vigili del fuoco o ambulanze, ormai non li distingueva più - non erano cessati e confusamente Mozzie sentì agitarsi dentro di sé un vago e inspiegabile senso di angoscia; con un gesto ozioso, afferrò il telecomando e accese la tv.

Il primo pensiero, sincopato e in qualche modo ridicolo, che lo assalì quando si rese conto di ciò che era successo fu che per tutti gli anni a venire a chi gli avesse domandato dove si trovasse e cosa stesse facendo quando i due aerei si erano schiantati sulle Torri Gemelle, lui avrebbe potuto rispondere solo: stavo dormendo.

La sua città era sotto attacco e lui dormiva.

Migliaia di persone avevano trovato una morte atroce, gettandosi disperate nel vuoto o sepolte dalle macerie, e lui dormiva.

Il mondo come lo aveva conosciuto era finito.

E lui dormiva.

Il secondo pensiero che gli balzò in mente, l’istante successivo, fu per Ethan.

L’unico di quelli che erano stati insieme a lui ospiti dell’orfanotrofio di Detroit, dove era cresciuto prima di essere dato in adozione a una ricca famiglia, che avesse ritrovato una volta giunto a New York; cioè, per la verità era stato il caso a farli incontrare di nuovo e da principio Mozzie non era stato nemmeno entusiasta, dato ciò che era accaduto e considerati i motivi per i quali aveva dovuto lasciare la città e trasferirsi…

Il solo che, da quelle parti, conoscesse la reale origine del suo nome e potesse ricordare come era stato il piccolo Moz da bambino, che l’avesse sentito piangere di notte nel suo lettino perché maltrattato dai coetanei per il suo aspetto debole e indifeso (7).

Il solo che sapesse quanto era stato importante Isaac per lui e come gli avesse insegnato a sfruttare la propria intelligenza per compensare i punti sui quali Madre Natura era stata più avara nei suoi riguardi.

E, alla fine, l’unico che potesse metterlo in relazione con i furti subiti da personaggi poco puliti a opera di un misterioso personaggio conosciuto semplicemente come Il dentista di Detroit (8).

Poi, però, Mozzie aveva vinto il timore e la diffidenza che gli appartenevano e quel giovane dai dolci occhi castani e dalla risata un po’ strascicata era riuscito a entragli nel cuore, come e più di quando erano ragazzini: soli in una città sconosciuta, si erano aiutati a vicenda tanto da diventare l’uno per l’altro l’unico pezzetto di famiglia sopravvissuto alle intemperie del destino.

Ethan, a differenza di lui, non era mai stato dato in adozione e non appena era diventato maggiorenne se l’era svignata, deciso a trovare finalmente il suo posto nel mondo.

Dopo qualche impiego occasionale, da un anno lavorava come portiere al Marriot WTC Hotel e più di una volta aveva passato al suo amico truffatore qualche soffiata su clienti danarosi dell’albergo, che erano ben presto divenuti bersagli e vittime dei raggiri di Mozzie; ovviamente, poi si divideva a metà davanti a una bottiglia di vino.

Provò a chiamarlo, ma il cellulare squillava a vuoto.

Allora tentò di ricordarsi se quella maledetta mattina fosse di turno alla reception o meno, ma si rese conto che molto probabilmente non glielo aveva mai detto e che in realtà lui non conosceva tanti particolari della vita del suo amico, né di come organizzava le sue giornate.

Cercando affannosamente in tv notizie relative all’albergo, che si trovava alla base delle torri, apprese che quando il volo American Airlines 11 si era schiantato contro la Torre Nord, il carrello di atterraggio era caduto sul tetto dell’hotel e che dopo il crollo dei due grattacieli l’edificio era stato completamente distrutto (9).

Col cuore in gola si infilò i primi vestiti che gli capitarono a tiro e uscì di casa, diretto verso ciò che rimaneva del glorioso World Trade Center.

(6) La frase è una citazione dalla novella “Soffio” di Luigi Pirandello;

(7) Come abbiamo visto in tv, “Mozzie” non è altro che un vezzeggiativo nientepopodimenoche di Mozart, dato che da neonato il pg venne abbandonato davanti a un orfanotrofio con un orsacchiotto che portava al collo un’etichetta con su scritto “Mozart”. Fin da piccolo, Mozzie storpia il nome del suo amico di peluche chiamandolo “Mozzie”, da cui trae il suo stesso soprannome;

(8) Il riferimento è all’omonimo episodio, n. 4 della terza stagione;

(9) Nell’aprile scorso, a quasi 12 anni dagli attentati contro il World Trade Center di New York, vicino a Ground Zero è stata ritrovata parte del carrello di atterraggio di uno dei due Boeing 767 che l'11 Settembre 2001 si schiantarono contro le Torri Gemelle; il reperto, lungo circa un metro e mezzo, è stato rinvenuto in un vicolo largo poco più di 45 centimetri che separa il controverso centro islamico di Ground Zero da un altro edificio vacante ed è stato identificato grazie alla scritta «Boeing» e a un numero di serie. Gli esami dovranno chiarire, tra le altre cose, se il carrello apparteneva all'aereo della United Airlines o a quello della American Airlines. In base alle cifre ufficiali, negli attentati alle Torri Gemelle persero la vita 2.753 persone, ma nessuna traccia è stata ritrovata di ben 1.122 di loro. Finora sono stati recuperati 21.817 resti umani, di cui solo il 59% identificati (fonte: www.corrieredellasera.it).

  
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