1.
Pemberley Manor
North
Yorkshire,
settembre 1904.
Il
rumore violento del treno che sferragliava sui binari accompagnava il
silenzioso viaggio di lady Emma Moore.
Erano
trascorse cinque settimane dalla scomparsa di lady Grantham, portata
via dalla
consunzione in poco meno di un anno; tutta Hambleton Abbey era stata
messa a
lutto, dalle livree della servitù alla carrozza e ai cavalli
del padrone di
casa, e in ogni stanza della magione la presenza del nero era
così soffocante e
carica d’angoscia che lord Grantham, pur non volendosi
separare dalla figlia,
pensò bene di spedirla a trascorrere il lungo periodo del
lutto in campagna, in
una sua proprietà acquistata da poco. Il conte si sarebbe
dovuto trasferire per
qualche mese nella capitale dove lo attendeva la gestione dei suoi
affari, e se
la figlia non fosse partita a sua volta sarebbe dovuta rimanere da sola
in una
tetra Hambleton Abbey; per questo egli ritenne che potesse essere
più facile
per lei affrontare la morte della madre, a cui era tanto legata, senza
doversela vedere rammentare ogni volta che i suoi occhi si posavano su
un
oggetto qualsiasi della propria casa. Miss Jane Radcliffe,
l’istitutrice della
ragazza, non era parsa molto d’accordo con la decisione presa
dal suo datore di
lavoro; e tuttavia, proprio per via del suo ruolo, non osò
contraddirlo,
limitandosi a far preparare i bagagli per sé e per la sua
allieva in vista del
lungo viaggio che le attendeva.
Così
adesso le due donne si trovavano in viaggio, in uno scompartimento
riservato
solamente a loro, entrambe vestite di nero dalla testa ai piedi e con
l’unica
compagnia di un cucciolo di neanche un anno di Epagneul Breton, regalo
di lady
Grantham alla figlia per l’ultimo Natale che avevano
trascorso insieme. A causa
di una recente lettura appena terminata, Emma aveva battezzato
l’animale Aramis, il che gli era valso
anche
l’affettuoso appellativo di piccolo
moschettiere affibbiato da lord Grantham; tuttavia il
cucciolo non pareva
avere intenzione di partecipare a chissà quale duello,
accucciato com’era ai
piedi della sua padrona con tutta l’aria di chi ha fatto
dell’ozio lo scopo
della sua esistenza.
Con
un sospiro, Emma chiuse il libro che stava cercando inutilmente di
leggere, un
po’ per il movimento ondeggiante del treno che la nauseava e
un po’ perché la
sua mente era impegnata altrove. Non poteva dire di non aver cercato di
opporsi
alla decisione del padre di allontanarla da casa – non
sopportava l’idea di
saperlo da solo prima della partenza per Londra, pur con la presenza
della
servitù, mentre si aggirava nelle stanze di
un’immensa dimora pregne della
presenza della moglie e cariche di ricordi di ogni genere –
ma il lord era
stato irremovibile, e neppure piangere e scongiurarlo era valso a
qualcosa.
«Sarà
meglio per la tua salute fisica e mentale andare in un luogo
più tranquillo»,
le aveva detto a cena con tono pacato, prendendo il discorso
all’improvviso
sotto lo sguardo scioccato dell’istitutrice. «Con
la Stagione conclusa non
avrebbe senso farti venire con me a Londra, e in ogni caso a causa del
lutto non
avresti nulla da fare. Io andrò in città per un
po’ a gestire i miei affari, e
poi forse ti raggiungerò per Natale nello Yorkshire. La
campagna ti piacerà, vedrai,
ce l’hai nel sangue come ce l’aveva tua madre.
Potrai finalmente prendere un
po’ di respiro dopo l’angoscia di
quest’ultimo periodo…»
Aveva
provato a ribattere, a interromperlo, ma a lui era bastato sollevare
una mano
per metterla a tacere. «Basta, Emma, non è una
decisione che puoi discutere. Lo
faccio per il tuo bene. Ho già preso accordi con i tenutari
di Pemberley, tu e
Miss Radcliffe potrete partire lunedì stesso.» Era
stato irremovibile e sordo a
qualsiasi supplica.
Dal
canto suo, Emma si era comportata come ci si aspettava che una
signorina di
buona famiglia si comportasse: benché fosse impallidita e le
sue labbra si
fossero assottigliate in una smorfia, aveva contenuto la rabbia, la
delusione e
la tristezza, aveva mormorato un «Come desideri,
papà», aveva chiesto scusa e
si era ritirata nelle sue stanze. A quel punto, da sola, si era sfogata.
Adesso
riusciva quasi a figurarselo, in piedi a fissare instancabilmente il
ritratto
di lady Grantham che occupava il posto d’onore nella
biblioteca, sopra il
camino, con un bicchiere di liquore in una mano e un sigaro tra le
labbra. Lei
sarebbe dovuta essere al suo fianco, maledizione, a piangere insieme a
lui o a
confortarlo, e non in quel maledetto treno diretta Dio solo sapeva dove!
Solo
più tardi, quando si era calmata abbastanza da poter tornare
a pensare
lucidamente, aveva rammentato che, oltretutto, in quel modo non avrebbe
rivisto
Cal per un tempo indefinito, andando contro a tutte le regole di buone
maniere
ed etichetta che le erano state inculcate sin da quando aveva imparato
a reggersi
da sola sulle sue gambe. Infatti, pur con l’onnipresente Miss
Jane, dubitava
che suo padre avrebbe dato il permesso al giovane Caledon T. Hardy,
futuro duca
di Suffolk e suo fidanzato, di andare a trovarla mentre si trovava in
quella
località sperduta in mezzo alla campagna. Quando gli aveva
chiesto che cosa
aveva intenzione di fare in proposito, l’unica replica di
lord Grantham era
stata: «Gli manderò un telegramma per avvisarlo
della mia decisione. È un
ragazzo a modo e di buona famiglia, capirà la situazione e
non se ne avrà a
male.»
Non
che Emma fosse preoccupata di sentirne la mancanza – non era
innamorata di Caledon,
non ancora perlomeno: si erano visti soltanto in occasioni
accuratamente
organizzate e mai da soli, sempre alla presenza di qualche chaperon.
Tuttavia
erano stati presi degli accordi per quelle nozze quando sua madre era
ancora in
grado di occuparsi di simili questioni, e da parte sua la figlia era
convinta
che rispettare la parola data fosse un gesto estremamente importante,
per non
parlare poi del fatto che rinunciare a quel fidanzamento da un giorno
all’altro
le avrebbe irrimediabilmente macchiato la reputazione. Senza contare
poi che la
famiglia Hardy rientrava nella cerchia dei loro amici più
stretti, e che era
sempre stato il sogno di entrambe lady Hardy e lady Grantham quello di
far
unire i propri eredi, un giorno, in matrimonio. Emma non aveva mai
smaniato
dalla voglia di farlo, ma adesso che sua madre non c’era
più le sembrava un
modo di onorarne la memoria, quello di esaudire un suo vecchio
desiderio.
Emma
distolse lo sguardo dal paesaggio che scorreva rapido al di
là del finestrino
per posarlo sulla sua istitutrice, che ormai dormicchiava beata da
quando
avevano superato il confine della contea di Northumberland. La sua
attenzione
si focalizzò casualmente sui capelli della donna, un tempo
di uno splendido
corvino, che avevano iniziato a sbiadire sulle tempie, diventando via
via più
chiari fino a raggiungere, in alcuni punti, il tanto temuto bianco.
Emma non
avrebbe saputo dire con certezza quale fosse l’età
di Miss Radcliffe, benché la
conoscesse sin da bambina: da quando la donna aveva raggiunto la soglia
dei
quarant’anni, per una sua scelta ad Hambleton Abbey si era
cessato di festeggiare
i suoi compleanni, e ciò accadeva ormai da diverso tempo.
Tuttavia non aveva
molte rughe, le sue mani erano ancora lisce e forti, e possedevano quel
vigore
che ancora le permetteva, talvolta, di bacchettare la sua allieva
quando
sbagliava a leggere le note del pentagramma. Per quanto da piccola
l’avesse
odiata per la sua severità, adesso che aveva raggiunto la
soglia dei vent’anni
Emma si scoprì a riflettere che certe volte, per come usava
comportarsi, si
sarebbe punita anche con maggior durezza; e d’altra parte
adesso che la sua studentessa
aveva raggiunto la maggiore età e una maggiore
maturità, Miss Radcliffe stessa
aveva cessato di essere rigida e inflessibile come quando lady Moore
era
piccola, arrivando persino ad ammorbidirsi e a cedere ogniqualvolta le
veniva
chiesta una pausa tra le lezioni.
La
signorina Radcliffe aveva persino sostituito la figura di lady Grantham
nella
vita di Emma nel tetro periodo della prima infanzia della bambina,
quando la
madre era entrata in depressione a causa dell’incidente che
si era portato via
la sua figlia primogenita, Lizzie, una ragazzina di appena sedici anni;
tuttavia, una volta che la contessa ebbe superato il profondo
malessere, il
rapporto con la figlia si era stretto in un modo che né Miss
Radcliffe né il lord
avrebbero immaginato fino a qualche tempo prima. Le due erano
inseparabili, la
piccola non faceva nulla senza prima consultare la madre e piangeva
terribilmente tutte le volte che la donna si assentava per partecipare
agli
incontri che la società imponeva durante la Stagione; il
loro legame era
talmente intimo e profondo al punto che, una volta che Emma fu
diventata donna a
tutti gli effetti, non era impreparata all’evento come invece
lo era stata a
suo tempo la madre, che all’epoca aveva cercato di nascondere
alla servitù le
macchie di sangue che apparivano temporaneamente nei suoi indumenti,
terrorizzata dall’idea di essere prossima alla morte. Miss
Radcliffe, che prima
di Emma aveva avuto modo di insegnare ad altre bambine, ripeteva spesso
che
nessuna delle sue precedenti allieve avrebbe mai potuto vantare un
simile
rapporto con le proprie genitrici – che, al contrario,
venivano viste come
creature estranee alle quali bisognava rivolgersi con una referenza e
una
timidezza quasi obbligatorie. A quel punto lord Grantham ribatteva
sempre che
era lieto che la spensieratezza e l’affettuosità
della moglie, provenienti di
certo dall’ambiente modesto in cui era nata e cresciuta, si
riflettessero sul
rapporto che nutriva con la figlia.
Nulla
di strano dunque che adesso, dopo appena più di un mese
dalla scomparsa di Lady
Grantham, Emma fosse ancora così scossa e stentasse a
prendere sonno, la notte.
Il
loro viaggio si avviava alla sua conclusione dopo due giorni di
tragitto, quando
giunsero infine alla stazione di Alnwick: qui, come da precedenti
accordi, era
stata inviata una carrozza a prenderle. Un fattorino si
occupò di trasportare i
loro bagagli – due bauli, tre valige e alcune cappelliere:
lord Grantham ne
avrebbe spedito altre nei giorni seguenti con qualche treno merci, dato
che
Emma non aveva avuto il tempo di impacchettare tutto e non sarebbe
stato molto
elegante per due donne viaggiare con così tanta roba
– e di caricarli sul
calesse, qui aiutato dal vetturino, un signore completamente vestito di
nero e
del quale si vedeva solo la parte superiore del viso da quanto era
infagottato.
Quando le vide arrivare, abbassò la sciarpa e il bavero del
cappotto per poter
parlare, mostrando il volto barbuto e segnato di un uomo la cui
età poteva
ondeggiare dai cinquanta ai settant’anni.
«Lady
Moore, suppongo? Sono il signor Duncan, il custode di Pemberley
Manor.» Si
presentò gentile, con una voce bassa e rauca e un accento
macchiato da qualche
inflessione dialettale. Poi si voltò verso miss Jane,
aggrottando la fronte in
evidente difficoltà. «E voi dovete
essere…»
«Miss
Radcliffe, l’istitutrice di lady Moore», rispose
gelida, leggermente piccata
per non essere stata riconosciuta. La sua mano si strinse nervosamente
intorno
al guinzaglio di Aramis per impedirgli di andare ad infastidire i
cavalli
sbuffanti, ma l’animale tirava e tirava rischiando di farle
perdere l’equilibrio
e inciampare tra le gonne; alla fine, la donna avrebbe volentieri
lasciato la
presa se il vetturino non avesse avuto la prontezza di afferrare il
laccio del
cucciolo prima che questi scappasse via.
Emma
intervenne prima che la donna più anziana potesse dare in
escandescenze.
«Liete
di conoscervi, Mr. Duncan. Possiamo partire? Vorrei arrivare prima che
faccia
buio», disse in fretta, prendendo sottobraccio
un’irritata Miss Jane e
guidandola verso il predellino della carrozza.
«Grazie
a Dio non è uno di quei trabiccoli senza cavalli»,
borbottò l’istitutrice,
accettando la mano del signor Duncan e salendo nella vettura subito
seguita da
uno scodinzolante Aramis.
«Grazie»,
si limitò a dire invece Emma, salendo a sua volta aiutata
dall’uomo e sparendo
dietro lo sportello del landau. Avrebbe dovuto tenere per sé
il fatto di
adorare i phaeton senza cavalli che stavano prendendo piede a Londra
tra i
giovani più eleganti e all’avanguardia: Miss
Radcliffe non era molto aperta a
quelle innovazioni, e non l’avrebbe sopportato.
Il
tempo non si dimostrò essere dalla loro parte e piovve quasi
lungo tutto il percorso
finale, costringendo Mr. Duncan a far andare piano i cavalli di modo
che le
ruote della carrozza non slittassero sul terriccio infangato e bagnato
della
strada o, peggio, finissero in un fosso. Il sentiero per il quale
stavano
procedendo si snodava serpeggiante in mezzo a un bosco, dove la
già debole luce
del giorno penetrava a fatica tra i rami frondosi e
l’oscurità era causata in
parte dalla fitta nebbia che aleggiava grondante sul terreno.
All’interno del
veicolo, Emma e Miss Radcliffe si erano sedute sullo stesso sedile per
cercare
di riscaldarsi il più possibile, mentre Aramis rimaneva
accucciato sul sedile
di fronte a loro e sollevava di tanto in tanto la testa per sbuffare
contro
l’acqua che picchiava sul finestrino.
«Vostro
padre l’aveva detto», esordì Miss
Radcliffe dopo un lungo silenzio.
Emma
si riscosse dal suo torpore, spostando l’attenzione sulla
donna al suo fianco.
«Che cosa, miss Jane?»
«Che
il tempo quassù è inaffidabile. Si passa dal sole
alla pioggia in un battito di
ciglia, senza che nulla lasci presagire il repentino cambio di
atmosfera… Non
so se il mio fisico reggerà a lungo»,
borbottò innervosita, prima di seppellire
uno starnuto in un fazzoletto a scacchi.
«Sono
certa che ci abitueremo», replicò la giovane,
conciliante. «E voi non siete
obbligata a rimanere all’aria aperta se non lo desiderate,
miss.»
La
donna annuì, palesemente sollevata. «Questo
è certo, signorina.»
Emma
sospirò, stringendosi addosso la coperta di lana.
«Non vedo l’ora di arrivare…
Sono proprio stanca di stare seduta. Mi sembra di essere in viaggio da
una
vita», mormorò, tornando ad osservare fuori dal
vetro della carrozza: in quel
frangente era l’unico modo che aveva di passare il tempo,
come del resto aveva
fatto nei precedenti due giorni.
«Spero
che la servitù abbia già preparato le nostre
stanze, così non dovremo aggirarci
per la casa a prendere freddo», fu il seccato commento di
Miss Radcliffe, che
tendeva a diventare parecchio insofferente quando la sua sacra routine
veniva
così brutalmente messa a soqquadro.
«Credo
che in tal caso mi addormenterei su un qualsiasi divano», le
sorrise Emma,
riuscendo a placarla.
Chiacchierarono
ancora un po’ di ciò che si aspettavano o
speravano di trovare nella misteriosa
Pemberley, ma poi la stanchezza ebbe la meglio
sull’istitutrice che si appisolò
raggomitolandosi contro l’angolo del sedile, cullata dal
movimento del veicolo.
Così Emma intrecciò le mani in grembo e
lasciò vagare lo sguardo distratto
sulla campagna nebbiosa e piovigginosa che si estendeva
tutt’intorno a loro,
senza fine.
Trascorsero
un paio d’ore prima che la carrozza raggiungesse finalmente
la proprietà.
La
casa nella quale lady Moore avrebbe alloggiato per i successivi mesi, e
che
sarebbe stato più preciso definire castello, si stagliava
cupa e imponente
contro un cielo grigio e gravido di pioggia, con un’aria
persino vagamente
minacciosa. Grande il doppio di Hambleton Abbey, era abbarbicata su una
piccola
collina che sovrastava la vallata circostante, attorniata da querce e
faggi che
un giorno avrebbero finito per ricoprirla del tutto e inghiottirla tra
i loro
rami frondosi. Quasi l’intera facciata della magione era
ricoperta da una fitta
rete di edera spoglia marrone, che in alcuni punti aveva già
perso le foglie e
lasciava intravedere i mattoncini di un bianco sporco, anneriti sotto
il tetto
come per conseguenza di un incendio, tipici di una casa costruita
nell’ultimo
ventennio del diciottesimo secolo. Le finestre, alcune delle quali
inchiodate,
erano quasi tutte alte e strette, ermeticamente chiuse da scurini di
legno
sbiadito dal sole, che necessitavano di una nuova mano di pittura. Le
tegole
erano nere laddove non mancavano, e sul profilo del tetto si potevano
contare
ben nove comignoli in pietra solo sul lato principale della facciata.
Vedendola,
Emma comprese per quale motivo lord Grantham avesse deciso di
acquistarla: era
proprio il genere di edifici che gli piacevano, appassionato
com’era di storia
e antichità, eppure allo stesso tempo non poté
fare a meno di domandarsi,
preoccupata, se suo padre avesse intenzione di ristrutturarla o se
preferisse
lasciarla in quello stato decadente. Se così fosse stato,
infatti, dubitava che
avrebbero mai potuto invitare degli ospiti in quella magione, una volta
terminato il periodo di lutto, a meno di non finire in pasto alle
perfide malelingue
londinesi.
I
cavalli proseguirono trotterellando verso il patio, memori della
strada, e si fermarono
docili quando il signor Duncan tirò le redini; il landau si
arrestò piano sulla
ghiaia e Miss Radcliffe tornò nuovamente in vita,
riscuotendosi con un gemito e
stropicciandosi gli occhi. Mr. Duncan venne subito ad aprire loro lo
sportello
e porse una mano prima ad Emma e poi alla donna più anziana
per aiutarle a
scendere, e la giovane, seguita da Aramis che trotterellava dietro di
lei,
corse a ripararsi sotto il porticato senza prestare più
molta attenzione all’enorme
maniero. Il breve tratto bastò a far sì che si
inzuppasse fin dentro le ossa, e
se avesse avuto un briciolo di educazione in meno avrebbe imprecato
come aveva
sentito fare diverse volte alle domestiche di Hambleton Abbey.
Al
suo arrivo a Pemberley Manor si aspettava che la servitù
fosse pronta a
riceverle, e invece sul portone d’ingresso, a pochi passi da
lei, si trovavano
solo due donne dall’aria piuttosto informale: dal modo in cui
era abbigliata la
più anziana, Emma dedusse che doveva trattarsi della
governante, mentre
l’altra, la ragazza piccola e robusta con lo sguardo fisso a
terra, sembrava
più una sguattera o una cameriera. Non che le importasse,
non era una fanatica
delle convenzioni, ma se avesse ricevuto un’accoglienza un
po’ più calorosa di
certo avrebbe sentito meno la stanchezza del viaggio. E, dal modo in
cui la
signorina Radcliffe marciò decisa e impettita fino a
raggiungerla, incurante di
essere a sua volta fradicia come un pulcino, sembrava che la pensasse
esattamente come lei.
«Lady
Moore, che piacere incontrarvi per la prima volta!»
Esclamò la governante
riscuotendosi dalla sua immobilità, reggendosi la gonna per
scendere con non
poca fatica i gradini del portico e avvicinarsi a Emma.
«Permettetemi di
presentarmi: sono Mrs. Duncan, la governante di Pemberley, e lei
è Lydia, la ragazza
tuttofare.» Aggiunse accennando un breve inchino; Emma vide
la ragazza pochi
passi più indietro fare lo stesso con la medesima mancanza
di tecnica, e si
convinse di una cosa: a Pemberley non sembravano molto abituati ad
avere
ospiti.
Malgrado
gli strani presentimenti e la stanchezza del viaggio, Emma si
ritrovò a
sorridere – o forse si sforzò solo di farlo.
«È un piacere conoscervi, Mrs.
Duncan», rispose garbata, prima di fare a sua volta le
presentazioni. «E… siete
per caso imparentata con il signor Duncan?»
«Oh,
sì, sono sua moglie, milady», confermò
la donna, annuendo e lasciandosi andare
a un sorriso un po’ meno nervoso.
«Dov’è
il resto della servitù?» Sbottò Miss
Radcliffe con aria terribilmente indignata,
guardandosi intono come se si aspettasse di veder saltare fuori da
dietro le
colonne una schiera di personale tale da far invidia a Hambleton Abbey.
Emma le
lanciò un’occhiata, sorpresa da quei modi, e
scosse appena la testa, mentre
Mrs. Duncan arrossiva leggermente dall’imbarazzo.
«In
realtà siamo noi l’unica servitù
attuale, signorina Radcliffe», spiegò la donna
con voce bassa ma perlomeno non tremante. «Ma vi prego,
entriamo in casa. Qui
si congela e sarete stanche, vorrete di sicuro riposarvi dopo il lungo
viaggio», riprese, facendo loro strada verso
l’ingresso. Prima di proseguire si
voltò e si rivolse alla ragazza, gentile ma inflessibile:
«Lydia, aiuta il
signor Duncan a portare dentro i bagagli.»
La
cameriera fece ciò che le venne ordinato, tirandosi su il
colletto della divisa
e raggiungendo l’uomo. Lady Moore e Miss Radcliffe si
scambiarono un ulteriore
sguardo, dopodiché seguirono la signora Duncan
all’interno del maniero.
«Sua
Signoria non ne sarà per niente soddisfatto, signorina,
lasciate che ve lo
dica», mormorò l’istitutrice
borbottando. La giovane aristocratica socchiuse la
bocca per rispondere, ma all’ultimo momento dovette ritenere
più opportuno
mordersi la lingua; prima di varcare la soglia Emma si voltò
dunque a cercare
Aramis, che era rimasto indietro e che non pareva intenzionato a
seguire la sua
padrona.
«Aramis,
vieni qui», lo chiamò lei, battendo una mano sulla
gonna. Tuttavia l’animale
sbuffò e ringhiò a fauci strette contro la casa,
la coda bassa e rigida, il
pelo ritto: sembrava improvvisamente terrorizzato e nervoso, e di
conseguenza
anche Emma si preoccupò – raramente aveva visto
Aramis comportarsi in quel modo. Lo raggiunse e si
accovacciò al suo fianco, attirandone l’attenzione
con delle confortanti
carezze dietro le orecchie e mormorando con voce bassa e pacata parole
senza
senso per tranquillizzarlo. Alla fine, benché non del tutto
placato, il
cucciolo riprese ad agitare lentamente la coda e perse
rigidità, e Emma lo
interpretò come un segno che fosse tutto a posto: era
probabile che Aramis si
fosse innervosito per l’arrivo nella casa nuova, magari aveva
solo bisogno di
familiarizzare con il territorio per potersi sentire a suo agio.
Eppure
le rimase una strana sensazione addosso quando entrò
finalmente nella grande
abitazione, e per un attimo le mancò il respiro quando il
pesante portone di
legno massiccio si richiuse alle sue spalle.
Mrs.
Duncan aveva un’età che si aggirava intorno ai
sessant’anni.
Alla
tenue luce offerta dalle candele e dal camino, Emma poteva osservarla
meglio e
notare dettagli che prima, sotto il buio porticato della magione, le
erano
sfuggiti: Mrs. Duncan era una donna sottile, dal fare materno, forse
all’apparenza un po’ troppo rigida e severa, ma
queste ultime caratteristiche
erano necessarie per poter governare un’enorme abitazione
come Pemberley. I
folti capelli grigi erano tenuti accuratamente acconciati e raccolti
sulla nuca
e una mano dalle dita lunghe e segnate dalle rughe li sfiorava di tanto
in
tanto come per accertarsi che non un ciuffo fosse fuori posto.
Indossava una
modesta gonna nera, una camicia color avorio con il colletto rigido in
pizzo
come la moda dettava e i polsini chiusi da piccoli bottoncini neri, e
come
unico monile una spilla d’argento appuntata sul petto,
probabilmente un qualche
cimelio di famiglia. Una fede d’oro era l’unico
gioiello che si era permessa.
Tale
aspetto austero era però stemperato dal sorriso gentile che
la donna continuava
a esibire mentre versava alle sue ospiti del tè caldo in
eleganti tazzine di
pregiata porcellana inglese, dopo aver lasciato che Emma e Miss
Radcliffe si
asciugassero e si mettessero a loro agio nelle stanze che aveva
mostrato loro. Mentre
attraversavano i corridoi deserti della magione, la donna aveva
spiegato che
l’unico membro della servitù presente a Pemberley
era Lydia: vivendo da soli,
infatti, non avevano bisogno di una schiera infinita di domestici, e
vivevano
dunque perfettamente tranquilli nella solitudine della campagna. Quando
era
tempo di fare le grosse pulizie, due o tre volte l’anno
chiamavano delle
giovani volenterose dal villaggio vicino, ma che non si trattenevano
mai oltre
il tempo necessario a rimettere in sesto il castello. Con loro abitava
anche il
figlio dei coniugi Duncan, Noah, un ragazzo pressappoco
dell’età di lady Moore
che tuttavia aveva una mente semplice ed era ingenuo come un bambino
– Mrs.
Duncan sperava che ciò non disturbasse la padrona.
Emma
rispose ovviamente che no, certo che non la disturbava, anzi non vedeva
l’ora
che il giovane Noah le venisse presentato. La signorina Radcliffe,
invece, si
riservò il privilegio di non esprimere un parere al
riguardo, benché
sicuramente attendesse di rimanere da sola con la sua allieva per
esprimere
tutto il disappunto che stava accumulando dinnanzi a una situazione che
definire sconveniente sarebbe stato troppo gentile. Avevano lasciato
Hambleton
Abbey senza alcun seguito perché Lord Grantham aveva
assicurato loro che non ne
avrebbero avuto bisogno, e miss Radcliffe l’aveva intesa come
una
rassicurazione sul fatto che nella nuova abitazione ci sarebbe stato
uno stuolo
di domestici pronti a soddisfare le richieste, se non sue, perlomeno di
Lady
Moore; l’eventualità che invece tale
raccomandazione del conte riguardasse il fatto
che non avrebbero dovuto fare vita sociale di alcun genere, e che
pertanto la
presenza di una cameriera personale o di un maggiordomo non sarebbe
servita in
nessun modo a sua figlia, non era neppure passata per la mente della
rigida
istitutrice.
Emma
non dubitava che, una volta da sola nella sua stanza, miss Radcliffe
avrebbe
scritto una lettera colma di indignazione al povero conte di Grantham.
Cercò
di scambiare un sorriso d’incoraggiamento con la donna che
l’aveva cresciuta e
tirarle così un po’ su il morale, ma
quest’ultima si limitava a sedere
rigidamente in un angolo del divano e a sorseggiare con aria torva il
suo tè
bollente. Con un sospiro rassegnato, la giovane lasciò
perdere ogni tentativo
di tranquillizzare l’istitutrice, e rivolse nuovamente la sua
attenzione alla
signora Duncan.
«Sono
sicura che ci troveremo bene qui con voi, Mrs. Duncan», disse
Emma,
sorseggiando la gradevole bevanda calda e dolce, leggermente aspra per
la
presenza del limone, come piaceva a lei. «Un peccato aver
fatto tardi, mi
sarebbe piaciuto fare un giro della casa, ma purtroppo il tempo non ci
ha
permesso di procedere con più
velocità… e le strade non erano molto
praticabili… credo che il signor Duncan vi avrà
raccontato già tutto.»
«Non
preoccupatevi, milady. La gente di città ci impiega un
po’ ad ambientarsi alla
campagna, ma alla fine ci riesce», la consolò la
donna con un sorriso,
sistemandosi una forcina che stava fuggendo via dalla sua acconciatura.
«E per
quanto riguarda il ritardo, rammentate che siete voi la padrona della
casa e
spetta a voi decidere gli orari. Mi spiace solo che ormai sia
impossibile farvi
vedere la casa, sapete, non è un granché
aggirarsi per i saloni bui, e temo che
si dovrà aspettare domattina… È tutta
la settimana che mettiamo a posto le stanze
in vista del vostro arrivo, ma sembra esserci sempre qualcosa da
sistemare in
questo maniero.»
Posso ben
immaginarlo,
concordò Emma in silenzio, guardandosi discretamente intorno.
«Chi
ha scelto il nome Pemberley?» Chiese poi tanto per fare un
po’ di
conversazione, mentre riportava l’attenzione sulla donna, che
pareva attendere
con pazienza che Emma si ambientasse.
«Oh,
l’ha acquisito col tempo. Gli abitanti del villaggio la
chiamano ancora
Pemberley Manor, sa, anche se è trascorso parecchio tempo da
quando i Pemberley
ci abitavano», spiegò Mrs. Duncan, facendo
sciogliere con lenti movimenti
circolari del cucchiaino una piccola zolletta di zucchero. Emma
notò che il
tono della voce le si era abbassato, e che le parole venivano fuori con
una
strana cautela. «La casa è stata costruita
all’inizio del diciassettesimo
secolo, ma come potete notare non segue uno stile architettonico
particolare: i
proprietari erano parecchio eccentrici, sapete, e le varie generazioni
che
hanno abitato la magione hanno apportato tante di quelle modifiche che
ormai
questa casa sembra più un labirinto, con scale a chiocciola
anguste che non si
sa dove conducano, torri, finestre che non si aprono, porte sospese nel
vuoto e
strane protuberanze… Ah, ma lo vedrete voi stessa nel caso
abbiate voglia di
dedicarvi all’esplorazione di Pemberley. Potete andare dove
volete, ovviamente,
milady… come ho già detto, siete voi la
proprietaria… Ma vi consiglierei di
evitare l’ala Ovest», aggiunse frettolosamente la
donna, con un lieve accenno
di panico che non sfuggì alla ragazza.
Malgrado
a tale affermazione Miss Radcliffe avesse irrigidito la schiena,
indignata da
una simile imposizione da parte della governante, Emma
aggrottò semplicemente
la fronte, perplessa ma già curiosa, avvertendo quel
familiare e piacevole
brivido che le scorreva giù lungo la schiena ogniqualvolta
la sua mente
fantasiosa subodorava un interessante mistero. «E che cosa
c’è nell’ala Ovest,
se posso chiedere?» Domandò istintivamente, senza
riuscire a trattenere un
mezzo sorriso. Se avesse accennato a questa particolare conversazione
nella
prossima lettera che avrebbe scritto a suo padre, era sicura che Lord
Grantham
l’avrebbe raggiunta in campagna in men che non si dica per
risolvere quell’enigma.
O che perlomeno l’avrebbe spronata a farlo in sua vece;
dopotutto doveva pur
trovarsi qualcosa per passare il tempo, segregata com’era in
mezzo alla
selvaggia brughiera.
Dopo
aver posato la tazza intatta sul tavolino, Mrs. Duncan
giocherellò nervosamente
con il pesante mazzo di chiavi che teneva appeso alla cintura, mentre
rispondeva con un’ostentata noncuranza. «Oh,
niente, signorina, niente di che»,
rispose con una scrollata di spalle, senza tuttavia guardarla.
«Quell’ala è
semplicemente chiusa, è in disuso da diverso tempo e, mi
imbarazza dirlo, non
ci siamo mai dati la pena di metterla in ordine. Non ci trovereste che
polvere
e buio, non certo un ambiente adatto a voi... E poi non
c’è niente, ve lo
ripeto», ribadì con insistenza.
«Sono
certa che sia così», concesse la giovane con fare
pacato, lanciando un’occhiata
a miss Radcliffe affinché non ribattesse nulla dinnanzi a
quello strano
avvertimento. Per un po’ avrebbe anche potuto evitare
quell’ala della casa, ma
prima o poi avrebbe terminato le cose da fare ed era certa che un
po’ di
polvere non l’avrebbe dissuasa dall’avventurarsi in
zone che sarebbero dovuto
esserle precluse; d’altra parte, come le aveva detto la
stessa Mrs. Duncan, era
lei la padrona.
Continuando
a parlare poi del più e del meno, Mrs. Duncan le
informò dell’assenza di un
telefono nell’abitazione – non avevano mai ritenuto
utile acquistare un
apparecchio quando non avevano nessuno con cui comunicare
all’esterno di
Pemberley; nel villaggio vicino, tuttavia, quello dove arrivava il
treno, c’era
un ufficio del telegrafo, e se avessero avuto necessità di
inviare un messaggio
urgente a Sua Signoria avrebbero potuto farsi accompagnare dal signor
Duncan che
scendeva in paese due volte a settimana per le scorte e commissioni di
vario
genere.
Infine,
la governante annunciò loro che la cena sarebbe stata
servita in due ore nella
sala da pranzo; tuttavia né Emma né miss
Radcliffe avevano molta fame – il
viaggio le aveva stancate al punto che l’unica cosa che
agognavano in quel
momento era un lungo sonno ristoratore, così chiesero il
permesso di ritirarsi
direttamente nelle loro stanze. La signora Duncan sottolineò
per l’ennesima
volta che erano libere di fare ciò che desideravano,
dopodiché suonò un
campanellino per chiamare Lydia in modo che accompagnasse milady nella
sua
camera da letto.
La
camera che era stata assegnata a Emma doveva essere una delle stanze
padronali,
probabilmente quella appartenuta alla precedente signora di Pemberley.
Come
aveva già anticipato Mrs. Duncan, persino
l’arredamento faceva convergere
diversi stili e tendenze passate in un unico risultato finale: la
tappezzeria
era chiara, color crema, decorata con piccoli fiorellini vermigli; il
mobilio
era massiccio e scuro, di mogano o forse palissandro, con pomelli
dorati nei
cassetti e nelle ante dell’armadio, e per terra il pavimento
quasi spariva
sotto uno strato di tappeti persiani. Il letto, la cui testiera
intarsiata
occupava metà parete, era posizione di fronte al camino e di
fianco alla
finestra, in modo che potesse ricevere calore d’inverno e
aria fresca d’estate;
sui comodini vi erano delle antiche lampade ad olio con il paralume in
vetro
colorato, mentre dal soffitto a cassettoni pendeva un semplice
lampadario in
ferro. Le pareti erano abbellite da quadri che ritraevano paesaggi
della
brughiera, ma non vi erano ritratti né specchi:
ciò era parecchio strano,
soprattutto visto che l’ombra ovale che macchiava la
tappezzeria sopra la
cassettiera indicava che là uno specchio c’era
stato, e che qualcuno l’aveva
volutamente tolto. Certo, forse si era rotto… Ma
perché non sostituirlo?
Imputando
tale mancanza al fatto che la casa fosse rimasta inabitata per anni,
Emma
decise di rimandare la risoluzione di quel problema
all’indomani mattina;
congedò Lydia dopo che quest’ultima
l’ebbe aiutata a sganciare l’abito e il
corsetto, dopodiché rimase sola a finire di prepararsi per
la notte: ancora non
si sentiva a suo agio a spogliarsi davanti a una domestica che non
conosceva,
così fu costretta anche a sciogliersi da sola
l’acconciatura e senza neppure
l’ausilio di uno specchio. Una volta che ebbe portato a
termine anche
quell’operazione il mobile da toilette era ingombro di
forcine di ogni
dimensione, e una massa ondulata di capelli le ricopriva le spalle come
un
mantello, scivolandole sulla schiena fino alle natiche.
Aveva
appena iniziato a pettinarsi quando un leggero bussare alla porta della
stanza
interruppe le sue fantasticherie. Aramis, dal suo angolo di fronte al
camino,
sollevò il capo e rizzò le orecchie, attento;
Emma posò la spazzola sul
tavolino e invitò l’ospite ad entrare, e quando
vide chi era, sorrise. «Oh,
siete voi, Miss Radcliffe.» Il cucciolo riabbassò
il muso tra le zampe,
decidendo che non vi era alcuna minaccia, e agitò
placidamente la coda in aria.
«Volevo
accertarmi che steste bene, signorina», spiegò
l’istitutrice, entrando e
richiudendosi la porta alle spalle. Anche lei in camicia da notte, con
un
pesante scialle drappeggiato intorno alla schiena e i capelli liberi
dall’acconciatura giornaliera raccolti in una più
comoda treccia, Miss
Radcliffe spense con un soffio la candela che aveva portato con
sé e attraversò
la camera verso la sua allieva. «La signora Duncan mi ha
spergiurato che questa
è la stanza migliore di tutto il maniero, ma volevo
assicurarmene di persona.
Se non altro non è fredda… La sguattera vi ha
messo il braciere sotto al
materasso?»
Emma
sorrise davanti alle solerti preoccupazioni della donna.
«Sì, miss Jane, sono
stati tutti cortesi e ineccepibili», rispose, riprendendo a
spazzolarsi i lunghi
capelli. «E della vostra stanza, invece, cosa mi dite?
Sinceramente non capisco
perché non possiate dormire insieme a me sullo stesso piano,
e dobbiate invece
dormire accanto a Lydia. Mi sentirei molto più tranquilla se
foste vicina a me.»
«Milady,
per quanto apprezzi la vostra generosità non dovete
dimenticare che anche un’istitutrice
fa parte della servitù, e che anche ad Hambleton Abbey la
mia stanza era nei
quartieri dei domestici.»
«Questo
lo comprendo benissimo e non voglio certo sconvolgere nessuno, ma siamo
venute
qui insieme e non vedo perché dovremmo preoccuparci di
simili imposizioni…»
«Quando
il conte vostro padre ci raggiungerà non sarà di
certo lieto di sapere che io e
voi dormiamo in stanze affiancate. E devo ammettere, signorina, che
questo
metterebbe a disagio anche me.»
Emma
dubitava che il conte di Grantham le avrebbe raggiunte in tempi brevi,
ma
questo non lo disse; si limitò a sospirare, arrendendosi.
«Mi dispiace che non
si possa fare uno strappo alla regola nemmeno nel cuore della
campagna.»
Jane
Radcliffe sorrise con tenerezza. «Sapete che sono disposta a
fare parecchi
strappi alle regole quando si tratta di voi, signorina, ma su certe
cose non si
può proprio transigere.» Spiegò
gentilmente, posando una mano confortante sulla
spalla della giovane. Poi aggiunse: «E ora lasciate che vi
sistemi i capelli.»
Le
mani della donna erano delicate ed esperte mentre divideva la chioma
castana di
Emma in tre ciocche per poi procedere ad intrecciarle, così
lei socchiuse gli
occhi, rilassandosi. «Credete che sia il caso di chiedere a
mio padre di
assumere altra servitù per Pemberley?»
Domandò dopo un po’, sovrappensiero.
«Non
spetta a me esprimermi su un argomento simile, signorina,
però in base alla mia
esperienza posso affermare senza paura di sbagliarmi che tre domestici
sono un
po’ pochi in un castello come questo», rispose Miss
Radcliffe, cercando di
essere delicata. «Certo, non ci sono feste da organizzare,
né cene e né balli,
per via del lutto e tutto il resto… Ma, per l’amor
di Dio, come si fa tenere in
ordine e mandare avanti una magione così immensa con una
cameriera tuttofare,
un custode che è insieme autista e giardiniere e una
governante che è troppo in
là con gli anni per fare determinati lavori? Tutto
ciò è davvero molto
sconveniente, signorina Emma. Se il povero signor Logan venisse a
sapere che la
figlia dei padroni abita in simili condizioni sono sicura che sarebbe
capace
persino di sgridare il conte vostro padre.»
Il
signor Logan era il maggiordomo, nonché colonna portante, di
Hambleton Abbey,
ed entrambe sapevano quanto la sua fedeltà
all’etichetta lo rendesse poco
tollerante ai cambiamenti inconsueti e che, a suo dire, potessero
macchiare il
buon nome della famiglia che serviva da più di
quarant’anni; parlare di lui
provocò una dolorosa fitta di nostalgia alle due donne, che
solo adesso iniziavano
a realizzare il loro stato di estranee indesiderate nella tetra
realtà della
brughiera.
Imponendosi
di sorridere, Emma si voltò per scambiare uno sguardo con
miss Radcliffe. «Per
ora lasciamo così, miss Jane, vi prego. Non tormentiamo mio
padre con questi
problemi, sono sicura che riusciremo a cavarcela… E se
così non sarà, allora
riprenderemo l’argomento. Non voglio essere scortese con
queste persone, si
sono messi tutti a nostra disposizione e non meritano un simile
affronto.»
L’istitutrice
la osservò a lungo, combattendo contro il desiderio di
insistere per
convincerla del contrario, e alla fine annuì, stringendo le
labbra in una linea
sottile. «Come volete, signorina. Cercherò di non
farne parola con Sua Signoria»,
acconsentì, indietreggiando di un passo e posando la
spazzola sul tavolino da
notte. «Da domani io e voi riprenderemo le nostre lezioni
come di consueto,
allora. Colazione alle otto e mezza, dopodiché si studia.
Siete d’accordo?»
Sollevata
per quel confortante ritorno alle loro abitudini, Emma annuì
e sorrise con più
calore. «Certo, miss Radcliffe. Vi ringrazio»,
aggiunse, sincera. Risparmiare a
suo padre di leggere delle lettere zeppe di lamentele e consigli
sarebbe stata
una delle poche cose che lei, dalla campagna, avrebbe potuto fare per
lui.
«Buonanotte,
signorina Emma», augurò la donna, riprendendo la
propria candela e congedandosi.
Quando
la porta si richiuse dietro miss Jane, la camera parve
d’improvviso più fredda
e soffocante, ed Emma rabbrividì.
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NdA. Plauso a chi
riconosce la citazione di Harry Potter presente nel
capitolo… ;)
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Alcuni appunti
riguardo i titoli nobiliari che appariranno
nella storia.
Il titolo di Conte (Earl)
è il terzo per importanza oltre ai
reali: prima di lui abbiamo il Marchese (Marquess/Marquis)
al secondo
posto e il Duca (Duke) al primo. Sua
moglie è la contessa. Ci si riferisce lui come, nel nostro
caso, al "conte
di Grantham", o "Lord Grantham", o solo "Grantham" per
i più intimi. Sua moglie è quindi la contessa di
Grantham o Lady Grantham, e si
firmerà come Jacqueline Grantham.
Come per il
duca, l'erede di un conte prenderà come titolo
di cortesia il titolo appena inferiore rispetto a quello del
padre (dunque
il figlio di un Conte sarà definito Visconte) e
il figlio dell'erede, a sua volta, quello immediatamente inferiore.
A tutte le
figlie di un conte viene dato il titolo di cortesia di Lady
più 'nome proprio': ciò significa che Emma
verrà sempre chiamata Lady Emma o
tutt’al più Lady Moore, che è il
cognome del padre e non il titolo, ma mai Lady
Grantham. Gli altri figli maschi di un conte sono detti semplicemente "the
honorable" (onorevole) , titolo che
però non è usato nelle
conversazioni informali.
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Angolo Autrice.
Bentornati su queste
pagine! In questo
primo capitolo facciamo finalmente la conoscenza degli altri personaggi
più o
meno principali – sicuramente ricorrenti – di tutta
la storia. Cercherò di
essere il più possibile coerente con
l’ambientazione storica, ma se trovate
errori grossolani vi prego di farmeli notare – tipo
anacronismi e cose varie, qualcosa
potrebbe sfuggirmi. :D
Voglio ringraziare
infinitamente Sylphs, Homicidal Maniac,
rosgio
e Se7f per aver recensito lo scorso
capitolo e aver deciso di dare un’occasione a questa storia
*-* Inoltre un
grazie immenso anche a chi ha già aggiunto la storia alle
Preferite e alle
Seguite, grazie grazie grazie!
Per il momento non ho altro
da
dichiarare, se non: spero di non avervi deluso e, al contrario, di
avervi
incuriosito un po’ di più ^^ Ci leggiamo al
prossimo capitolo, grazie di nuovo
di essere capitati qui! Baci e abbracci, sempre la vostra
Niglia.