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Autore: Niglia    17/07/2013    4 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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1.
Pemberley Manor

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North Yorkshire, settembre 1904.

Il rumore violento del treno che sferragliava sui binari accompagnava il silenzioso viaggio di lady Emma Moore.
Erano trascorse cinque settimane dalla scomparsa di lady Grantham, portata via dalla consunzione in poco meno di un anno; tutta Hambleton Abbey era stata messa a lutto, dalle livree della servitù alla carrozza e ai cavalli del padrone di casa, e in ogni stanza della magione la presenza del nero era così soffocante e carica d’angoscia che lord Grantham, pur non volendosi separare dalla figlia, pensò bene di spedirla a trascorrere il lungo periodo del lutto in campagna, in una sua proprietà acquistata da poco. Il conte si sarebbe dovuto trasferire per qualche mese nella capitale dove lo attendeva la gestione dei suoi affari, e se la figlia non fosse partita a sua volta sarebbe dovuta rimanere da sola in una tetra Hambleton Abbey; per questo egli ritenne che potesse essere più facile per lei affrontare la morte della madre, a cui era tanto legata, senza doversela vedere rammentare ogni volta che i suoi occhi si posavano su un oggetto qualsiasi della propria casa. Miss Jane Radcliffe, l’istitutrice della ragazza, non era parsa molto d’accordo con la decisione presa dal suo datore di lavoro; e tuttavia, proprio per via del suo ruolo, non osò contraddirlo, limitandosi a far preparare i bagagli per sé e per la sua allieva in vista del lungo viaggio che le attendeva.
Così adesso le due donne si trovavano in viaggio, in uno scompartimento riservato solamente a loro, entrambe vestite di nero dalla testa ai piedi e con l’unica compagnia di un cucciolo di neanche un anno di Epagneul Breton, regalo di lady Grantham alla figlia per l’ultimo Natale che avevano trascorso insieme. A causa di una recente lettura appena terminata, Emma aveva battezzato l’animale Aramis, il che gli era valso anche l’affettuoso appellativo di piccolo moschettiere affibbiato da lord Grantham; tuttavia il cucciolo non pareva avere intenzione di partecipare a chissà quale duello, accucciato com’era ai piedi della sua padrona con tutta l’aria di chi ha fatto dell’ozio lo scopo della sua esistenza.
Con un sospiro, Emma chiuse il libro che stava cercando inutilmente di leggere, un po’ per il movimento ondeggiante del treno che la nauseava e un po’ perché la sua mente era impegnata altrove. Non poteva dire di non aver cercato di opporsi alla decisione del padre di allontanarla da casa – non sopportava l’idea di saperlo da solo prima della partenza per Londra, pur con la presenza della servitù, mentre si aggirava nelle stanze di un’immensa dimora pregne della presenza della moglie e cariche di ricordi di ogni genere – ma il lord era stato irremovibile, e neppure piangere e scongiurarlo era valso a qualcosa.
«Sarà meglio per la tua salute fisica e mentale andare in un luogo più tranquillo», le aveva detto a cena con tono pacato, prendendo il discorso all’improvviso sotto lo sguardo scioccato dell’istitutrice. «Con la Stagione conclusa non avrebbe senso farti venire con me a Londra, e in ogni caso a causa del lutto non avresti nulla da fare. Io andrò in città per un po’ a gestire i miei affari, e poi forse ti raggiungerò per Natale nello Yorkshire. La campagna ti piacerà, vedrai, ce l’hai nel sangue come ce l’aveva tua madre. Potrai finalmente prendere un po’ di respiro dopo l’angoscia di quest’ultimo periodo…»
Aveva provato a ribattere, a interromperlo, ma a lui era bastato sollevare una mano per metterla a tacere. «Basta, Emma, non è una decisione che puoi discutere. Lo faccio per il tuo bene. Ho già preso accordi con i tenutari di Pemberley, tu e Miss Radcliffe potrete partire lunedì stesso.» Era stato irremovibile e sordo a qualsiasi supplica.
Dal canto suo, Emma si era comportata come ci si aspettava che una signorina di buona famiglia si comportasse: benché fosse impallidita e le sue labbra si fossero assottigliate in una smorfia, aveva contenuto la rabbia, la delusione e la tristezza, aveva mormorato un «Come desideri, papà», aveva chiesto scusa e si era ritirata nelle sue stanze. A quel punto, da sola, si era sfogata.
Adesso riusciva quasi a figurarselo, in piedi a fissare instancabilmente il ritratto di lady Grantham che occupava il posto d’onore nella biblioteca, sopra il camino, con un bicchiere di liquore in una mano e un sigaro tra le labbra. Lei sarebbe dovuta essere al suo fianco, maledizione, a piangere insieme a lui o a confortarlo, e non in quel maledetto treno diretta Dio solo sapeva dove!
Solo più tardi, quando si era calmata abbastanza da poter tornare a pensare lucidamente, aveva rammentato che, oltretutto, in quel modo non avrebbe rivisto Cal per un tempo indefinito, andando contro a tutte le regole di buone maniere ed etichetta che le erano state inculcate sin da quando aveva imparato a reggersi da sola sulle sue gambe. Infatti, pur con l’onnipresente Miss Jane, dubitava che suo padre avrebbe dato il permesso al giovane Caledon T. Hardy, futuro duca di Suffolk e suo fidanzato, di andare a trovarla mentre si trovava in quella località sperduta in mezzo alla campagna. Quando gli aveva chiesto che cosa aveva intenzione di fare in proposito, l’unica replica di lord Grantham era stata: «Gli manderò un telegramma per avvisarlo della mia decisione. È un ragazzo a modo e di buona famiglia, capirà la situazione e non se ne avrà a male.»
Non che Emma fosse preoccupata di sentirne la mancanza – non era innamorata di Caledon, non ancora perlomeno: si erano visti soltanto in occasioni accuratamente organizzate e mai da soli, sempre alla presenza di qualche chaperon. Tuttavia erano stati presi degli accordi per quelle nozze quando sua madre era ancora in grado di occuparsi di simili questioni, e da parte sua la figlia era convinta che rispettare la parola data fosse un gesto estremamente importante, per non parlare poi del fatto che rinunciare a quel fidanzamento da un giorno all’altro le avrebbe irrimediabilmente macchiato la reputazione. Senza contare poi che la famiglia Hardy rientrava nella cerchia dei loro amici più stretti, e che era sempre stato il sogno di entrambe lady Hardy e lady Grantham quello di far unire i propri eredi, un giorno, in matrimonio. Emma non aveva mai smaniato dalla voglia di farlo, ma adesso che sua madre non c’era più le sembrava un modo di onorarne la memoria, quello di esaudire un suo vecchio desiderio.
Emma distolse lo sguardo dal paesaggio che scorreva rapido al di là del finestrino per posarlo sulla sua istitutrice, che ormai dormicchiava beata da quando avevano superato il confine della contea di Northumberland. La sua attenzione si focalizzò casualmente sui capelli della donna, un tempo di uno splendido corvino, che avevano iniziato a sbiadire sulle tempie, diventando via via più chiari fino a raggiungere, in alcuni punti, il tanto temuto bianco. Emma non avrebbe saputo dire con certezza quale fosse l’età di Miss Radcliffe, benché la conoscesse sin da bambina: da quando la donna aveva raggiunto la soglia dei quarant’anni, per una sua scelta ad Hambleton Abbey si era cessato di festeggiare i suoi compleanni, e ciò accadeva ormai da diverso tempo. Tuttavia non aveva molte rughe, le sue mani erano ancora lisce e forti, e possedevano quel vigore che ancora le permetteva, talvolta, di bacchettare la sua allieva quando sbagliava a leggere le note del pentagramma. Per quanto da piccola l’avesse odiata per la sua severità, adesso che aveva raggiunto la soglia dei vent’anni Emma si scoprì a riflettere che certe volte, per come usava comportarsi, si sarebbe punita anche con maggior durezza; e d’altra parte adesso che la sua studentessa aveva raggiunto la maggiore età e una maggiore maturità, Miss Radcliffe stessa aveva cessato di essere rigida e inflessibile come quando lady Moore era piccola, arrivando persino ad ammorbidirsi e a cedere ogniqualvolta le veniva chiesta una pausa tra le lezioni.
La signorina Radcliffe aveva persino sostituito la figura di lady Grantham nella vita di Emma nel tetro periodo della prima infanzia della bambina, quando la madre era entrata in depressione a causa dell’incidente che si era portato via la sua figlia primogenita, Lizzie, una ragazzina di appena sedici anni; tuttavia, una volta che la contessa ebbe superato il profondo malessere, il rapporto con la figlia si era stretto in un modo che né Miss Radcliffe né il lord avrebbero immaginato fino a qualche tempo prima. Le due erano inseparabili, la piccola non faceva nulla senza prima consultare la madre e piangeva terribilmente tutte le volte che la donna si assentava per partecipare agli incontri che la società imponeva durante la Stagione; il loro legame era talmente intimo e profondo al punto che, una volta che Emma fu diventata donna a tutti gli effetti, non era impreparata all’evento come invece lo era stata a suo tempo la madre, che all’epoca aveva cercato di nascondere alla servitù le macchie di sangue che apparivano temporaneamente nei suoi indumenti, terrorizzata dall’idea di essere prossima alla morte. Miss Radcliffe, che prima di Emma aveva avuto modo di insegnare ad altre bambine, ripeteva spesso che nessuna delle sue precedenti allieve avrebbe mai potuto vantare un simile rapporto con le proprie genitrici – che, al contrario, venivano viste come creature estranee alle quali bisognava rivolgersi con una referenza e una timidezza quasi obbligatorie. A quel punto lord Grantham ribatteva sempre che era lieto che la spensieratezza e l’affettuosità della moglie, provenienti di certo dall’ambiente modesto in cui era nata e cresciuta, si riflettessero sul rapporto che nutriva con la figlia.
Nulla di strano dunque che adesso, dopo appena più di un mese dalla scomparsa di Lady Grantham, Emma fosse ancora così scossa e stentasse a prendere sonno, la notte.



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Il loro viaggio si avviava alla sua conclusione dopo due giorni di tragitto, quando giunsero infine alla stazione di Alnwick: qui, come da precedenti accordi, era stata inviata una carrozza a prenderle. Un fattorino si occupò di trasportare i loro bagagli – due bauli, tre valige e alcune cappelliere: lord Grantham ne avrebbe spedito altre nei giorni seguenti con qualche treno merci, dato che Emma non aveva avuto il tempo di impacchettare tutto e non sarebbe stato molto elegante per due donne viaggiare con così tanta roba – e di caricarli sul calesse, qui aiutato dal vetturino, un signore completamente vestito di nero e del quale si vedeva solo la parte superiore del viso da quanto era infagottato. Quando le vide arrivare, abbassò la sciarpa e il bavero del cappotto per poter parlare, mostrando il volto barbuto e segnato di un uomo la cui età poteva ondeggiare dai cinquanta ai settant’anni.
«Lady Moore, suppongo? Sono il signor Duncan, il custode di Pemberley Manor.» Si presentò gentile, con una voce bassa e rauca e un accento macchiato da qualche inflessione dialettale. Poi si voltò verso miss Jane, aggrottando la fronte in evidente difficoltà. «E voi dovete essere…»
«Miss Radcliffe, l’istitutrice di lady Moore», rispose gelida, leggermente piccata per non essere stata riconosciuta. La sua mano si strinse nervosamente intorno al guinzaglio di Aramis per impedirgli di andare ad infastidire i cavalli sbuffanti, ma l’animale tirava e tirava rischiando di farle perdere l’equilibrio e inciampare tra le gonne; alla fine, la donna avrebbe volentieri lasciato la presa se il vetturino non avesse avuto la prontezza di afferrare il laccio del cucciolo prima che questi scappasse via.
Emma intervenne prima che la donna più anziana potesse dare in escandescenze.
«Liete di conoscervi, Mr. Duncan. Possiamo partire? Vorrei arrivare prima che faccia buio», disse in fretta, prendendo sottobraccio un’irritata Miss Jane e guidandola verso il predellino della carrozza.
«Grazie a Dio non è uno di quei trabiccoli senza cavalli», borbottò l’istitutrice, accettando la mano del signor Duncan e salendo nella vettura subito seguita da uno scodinzolante Aramis.
«Grazie», si limitò a dire invece Emma, salendo a sua volta aiutata dall’uomo e sparendo dietro lo sportello del landau. Avrebbe dovuto tenere per sé il fatto di adorare i phaeton senza cavalli che stavano prendendo piede a Londra tra i giovani più eleganti e all’avanguardia: Miss Radcliffe non era molto aperta a quelle innovazioni, e non l’avrebbe sopportato.
Il tempo non si dimostrò essere dalla loro parte e piovve quasi lungo tutto il percorso finale, costringendo Mr. Duncan a far andare piano i cavalli di modo che le ruote della carrozza non slittassero sul terriccio infangato e bagnato della strada o, peggio, finissero in un fosso. Il sentiero per il quale stavano procedendo si snodava serpeggiante in mezzo a un bosco, dove la già debole luce del giorno penetrava a fatica tra i rami frondosi e l’oscurità era causata in parte dalla fitta nebbia che aleggiava grondante sul terreno. All’interno del veicolo, Emma e Miss Radcliffe si erano sedute sullo stesso sedile per cercare di riscaldarsi il più possibile, mentre Aramis rimaneva accucciato sul sedile di fronte a loro e sollevava di tanto in tanto la testa per sbuffare contro l’acqua che picchiava sul finestrino.
«Vostro padre l’aveva detto», esordì Miss Radcliffe dopo un lungo silenzio.
Emma si riscosse dal suo torpore, spostando l’attenzione sulla donna al suo fianco. «Che cosa, miss Jane?»
«Che il tempo quassù è inaffidabile. Si passa dal sole alla pioggia in un battito di ciglia, senza che nulla lasci presagire il repentino cambio di atmosfera… Non so se il mio fisico reggerà a lungo», borbottò innervosita, prima di seppellire uno starnuto in un fazzoletto a scacchi.
«Sono certa che ci abitueremo», replicò la giovane, conciliante. «E voi non siete obbligata a rimanere all’aria aperta se non lo desiderate, miss.»
La donna annuì, palesemente sollevata. «Questo è certo, signorina.»
Emma sospirò, stringendosi addosso la coperta di lana. «Non vedo l’ora di arrivare… Sono proprio stanca di stare seduta. Mi sembra di essere in viaggio da una vita», mormorò, tornando ad osservare fuori dal vetro della carrozza: in quel frangente era l’unico modo che aveva di passare il tempo, come del resto aveva fatto nei precedenti due giorni.
«Spero che la servitù abbia già preparato le nostre stanze, così non dovremo aggirarci per la casa a prendere freddo», fu il seccato commento di Miss Radcliffe, che tendeva a diventare parecchio insofferente quando la sua sacra routine veniva così brutalmente messa a soqquadro.
«Credo che in tal caso mi addormenterei su un qualsiasi divano», le sorrise Emma, riuscendo a placarla.
Chiacchierarono ancora un po’ di ciò che si aspettavano o speravano di trovare nella misteriosa Pemberley, ma poi la stanchezza ebbe la meglio sull’istitutrice che si appisolò raggomitolandosi contro l’angolo del sedile, cullata dal movimento del veicolo. Così Emma intrecciò le mani in grembo e lasciò vagare lo sguardo distratto sulla campagna nebbiosa e piovigginosa che si estendeva tutt’intorno a loro, senza fine.

Trascorsero un paio d’ore prima che la carrozza raggiungesse finalmente la proprietà.
La casa nella quale lady Moore avrebbe alloggiato per i successivi mesi, e che sarebbe stato più preciso definire castello, si stagliava cupa e imponente contro un cielo grigio e gravido di pioggia, con un’aria persino vagamente minacciosa. Grande il doppio di Hambleton Abbey, era abbarbicata su una piccola collina che sovrastava la vallata circostante, attorniata da querce e faggi che un giorno avrebbero finito per ricoprirla del tutto e inghiottirla tra i loro rami frondosi. Quasi l’intera facciata della magione era ricoperta da una fitta rete di edera spoglia marrone, che in alcuni punti aveva già perso le foglie e lasciava intravedere i mattoncini di un bianco sporco, anneriti sotto il tetto come per conseguenza di un incendio, tipici di una casa costruita nell’ultimo ventennio del diciottesimo secolo. Le finestre, alcune delle quali inchiodate, erano quasi tutte alte e strette, ermeticamente chiuse da scurini di legno sbiadito dal sole, che necessitavano di una nuova mano di pittura. Le tegole erano nere laddove non mancavano, e sul profilo del tetto si potevano contare ben nove comignoli in pietra solo sul lato principale della facciata.
Vedendola, Emma comprese per quale motivo lord Grantham avesse deciso di acquistarla: era proprio il genere di edifici che gli piacevano, appassionato com’era di storia e antichità, eppure allo stesso tempo non poté fare a meno di domandarsi, preoccupata, se suo padre avesse intenzione di ristrutturarla o se preferisse lasciarla in quello stato decadente. Se così fosse stato, infatti, dubitava che avrebbero mai potuto invitare degli ospiti in quella magione, una volta terminato il periodo di lutto, a meno di non finire in pasto alle perfide malelingue londinesi.
I cavalli proseguirono trotterellando verso il patio, memori della strada, e si fermarono docili quando il signor Duncan tirò le redini; il landau si arrestò piano sulla ghiaia e Miss Radcliffe tornò nuovamente in vita, riscuotendosi con un gemito e stropicciandosi gli occhi. Mr. Duncan venne subito ad aprire loro lo sportello e porse una mano prima ad Emma e poi alla donna più anziana per aiutarle a scendere, e la giovane, seguita da Aramis che trotterellava dietro di lei, corse a ripararsi sotto il porticato senza prestare più molta attenzione all’enorme maniero. Il breve tratto bastò a far sì che si inzuppasse fin dentro le ossa, e se avesse avuto un briciolo di educazione in meno avrebbe imprecato come aveva sentito fare diverse volte alle domestiche di Hambleton Abbey.
Al suo arrivo a Pemberley Manor si aspettava che la servitù fosse pronta a riceverle, e invece sul portone d’ingresso, a pochi passi da lei, si trovavano solo due donne dall’aria piuttosto informale: dal modo in cui era abbigliata la più anziana, Emma dedusse che doveva trattarsi della governante, mentre l’altra, la ragazza piccola e robusta con lo sguardo fisso a terra, sembrava più una sguattera o una cameriera. Non che le importasse, non era una fanatica delle convenzioni, ma se avesse ricevuto un’accoglienza un po’ più calorosa di certo avrebbe sentito meno la stanchezza del viaggio. E, dal modo in cui la signorina Radcliffe marciò decisa e impettita fino a raggiungerla, incurante di essere a sua volta fradicia come un pulcino, sembrava che la pensasse esattamente come lei.
«Lady Moore, che piacere incontrarvi per la prima volta!» Esclamò la governante riscuotendosi dalla sua immobilità, reggendosi la gonna per scendere con non poca fatica i gradini del portico e avvicinarsi a Emma. «Permettetemi di presentarmi: sono Mrs. Duncan, la governante di Pemberley, e lei è Lydia, la ragazza tuttofare.» Aggiunse accennando un breve inchino; Emma vide la ragazza pochi passi più indietro fare lo stesso con la medesima mancanza di tecnica, e si convinse di una cosa: a Pemberley non sembravano molto abituati ad avere ospiti.
Malgrado gli strani presentimenti e la stanchezza del viaggio, Emma si ritrovò a sorridere – o forse si sforzò solo di farlo. «È un piacere conoscervi, Mrs. Duncan», rispose garbata, prima di fare a sua volta le presentazioni. «E… siete per caso imparentata con il signor Duncan?»
«Oh, sì, sono sua moglie, milady», confermò la donna, annuendo e lasciandosi andare a un sorriso un po’ meno nervoso.
«Dov’è il resto della servitù?» Sbottò Miss Radcliffe con aria terribilmente indignata, guardandosi intono come se si aspettasse di veder saltare fuori da dietro le colonne una schiera di personale tale da far invidia a Hambleton Abbey. Emma le lanciò un’occhiata, sorpresa da quei modi, e scosse appena la testa, mentre Mrs. Duncan arrossiva leggermente dall’imbarazzo.
«In realtà siamo noi l’unica servitù attuale, signorina Radcliffe», spiegò la donna con voce bassa ma perlomeno non tremante. «Ma vi prego, entriamo in casa. Qui si congela e sarete stanche, vorrete di sicuro riposarvi dopo il lungo viaggio», riprese, facendo loro strada verso l’ingresso. Prima di proseguire si voltò e si rivolse alla ragazza, gentile ma inflessibile: «Lydia, aiuta il signor Duncan a portare dentro i bagagli.»
La cameriera fece ciò che le venne ordinato, tirandosi su il colletto della divisa e raggiungendo l’uomo. Lady Moore e Miss Radcliffe si scambiarono un ulteriore sguardo, dopodiché seguirono la signora Duncan all’interno del maniero.
«Sua Signoria non ne sarà per niente soddisfatto, signorina, lasciate che ve lo dica», mormorò l’istitutrice borbottando. La giovane aristocratica socchiuse la bocca per rispondere, ma all’ultimo momento dovette ritenere più opportuno mordersi la lingua; prima di varcare la soglia Emma si voltò dunque a cercare Aramis, che era rimasto indietro e che non pareva intenzionato a seguire la sua padrona.
«Aramis, vieni qui», lo chiamò lei, battendo una mano sulla gonna. Tuttavia l’animale sbuffò e ringhiò a fauci strette contro la casa, la coda bassa e rigida, il pelo ritto: sembrava improvvisamente terrorizzato e nervoso, e di conseguenza anche Emma si preoccupò – raramente aveva visto Aramis comportarsi in quel modo. Lo raggiunse e si accovacciò al suo fianco, attirandone l’attenzione con delle confortanti carezze dietro le orecchie e mormorando con voce bassa e pacata parole senza senso per tranquillizzarlo. Alla fine, benché non del tutto placato, il cucciolo riprese ad agitare lentamente la coda e perse rigidità, e Emma lo interpretò come un segno che fosse tutto a posto: era probabile che Aramis si fosse innervosito per l’arrivo nella casa nuova, magari aveva solo bisogno di familiarizzare con il territorio per potersi sentire a suo agio.
Eppure le rimase una strana sensazione addosso quando entrò finalmente nella grande abitazione, e per un attimo le mancò il respiro quando il pesante portone di legno massiccio si richiuse alle sue spalle.



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Mrs. Duncan aveva un’età che si aggirava intorno ai sessant’anni.
Alla tenue luce offerta dalle candele e dal camino, Emma poteva osservarla meglio e notare dettagli che prima, sotto il buio porticato della magione, le erano sfuggiti: Mrs. Duncan era una donna sottile, dal fare materno, forse all’apparenza un po’ troppo rigida e severa, ma queste ultime caratteristiche erano necessarie per poter governare un’enorme abitazione come Pemberley. I folti capelli grigi erano tenuti accuratamente acconciati e raccolti sulla nuca e una mano dalle dita lunghe e segnate dalle rughe li sfiorava di tanto in tanto come per accertarsi che non un ciuffo fosse fuori posto. Indossava una modesta gonna nera, una camicia color avorio con il colletto rigido in pizzo come la moda dettava e i polsini chiusi da piccoli bottoncini neri, e come unico monile una spilla d’argento appuntata sul petto, probabilmente un qualche cimelio di famiglia. Una fede d’oro era l’unico gioiello che si era permessa.
Tale aspetto austero era però stemperato dal sorriso gentile che la donna continuava a esibire mentre versava alle sue ospiti del tè caldo in eleganti tazzine di pregiata porcellana inglese, dopo aver lasciato che Emma e Miss Radcliffe si asciugassero e si mettessero a loro agio nelle stanze che aveva mostrato loro. Mentre attraversavano i corridoi deserti della magione, la donna aveva spiegato che l’unico membro della servitù presente a Pemberley era Lydia: vivendo da soli, infatti, non avevano bisogno di una schiera infinita di domestici, e vivevano dunque perfettamente tranquilli nella solitudine della campagna. Quando era tempo di fare le grosse pulizie, due o tre volte l’anno chiamavano delle giovani volenterose dal villaggio vicino, ma che non si trattenevano mai oltre il tempo necessario a rimettere in sesto il castello. Con loro abitava anche il figlio dei coniugi Duncan, Noah, un ragazzo pressappoco dell’età di lady Moore che tuttavia aveva una mente semplice ed era ingenuo come un bambino – Mrs. Duncan sperava che ciò non disturbasse la padrona.
Emma rispose ovviamente che no, certo che non la disturbava, anzi non vedeva l’ora che il giovane Noah le venisse presentato. La signorina Radcliffe, invece, si riservò il privilegio di non esprimere un parere al riguardo, benché sicuramente attendesse di rimanere da sola con la sua allieva per esprimere tutto il disappunto che stava accumulando dinnanzi a una situazione che definire sconveniente sarebbe stato troppo gentile. Avevano lasciato Hambleton Abbey senza alcun seguito perché Lord Grantham aveva assicurato loro che non ne avrebbero avuto bisogno, e miss Radcliffe l’aveva intesa come una rassicurazione sul fatto che nella nuova abitazione ci sarebbe stato uno stuolo di domestici pronti a soddisfare le richieste, se non sue, perlomeno di Lady Moore; l’eventualità che invece tale raccomandazione del conte riguardasse il fatto che non avrebbero dovuto fare vita sociale di alcun genere, e che pertanto la presenza di una cameriera personale o di un maggiordomo non sarebbe servita in nessun modo a sua figlia, non era neppure passata per la mente della rigida istitutrice.
Emma non dubitava che, una volta da sola nella sua stanza, miss Radcliffe avrebbe scritto una lettera colma di indignazione al povero conte di Grantham.
Cercò di scambiare un sorriso d’incoraggiamento con la donna che l’aveva cresciuta e tirarle così un po’ su il morale, ma quest’ultima si limitava a sedere rigidamente in un angolo del divano e a sorseggiare con aria torva il suo tè bollente. Con un sospiro rassegnato, la giovane lasciò perdere ogni tentativo di tranquillizzare l’istitutrice, e rivolse nuovamente la sua attenzione alla signora Duncan.
«Sono sicura che ci troveremo bene qui con voi, Mrs. Duncan», disse Emma, sorseggiando la gradevole bevanda calda e dolce, leggermente aspra per la presenza del limone, come piaceva a lei. «Un peccato aver fatto tardi, mi sarebbe piaciuto fare un giro della casa, ma purtroppo il tempo non ci ha permesso di procedere con più velocità… e le strade non erano molto praticabili… credo che il signor Duncan vi avrà raccontato già tutto.»
«Non preoccupatevi, milady. La gente di città ci impiega un po’ ad ambientarsi alla campagna, ma alla fine ci riesce», la consolò la donna con un sorriso, sistemandosi una forcina che stava fuggendo via dalla sua acconciatura. «E per quanto riguarda il ritardo, rammentate che siete voi la padrona della casa e spetta a voi decidere gli orari. Mi spiace solo che ormai sia impossibile farvi vedere la casa, sapete, non è un granché aggirarsi per i saloni bui, e temo che si dovrà aspettare domattina… È tutta la settimana che mettiamo a posto le stanze in vista del vostro arrivo, ma sembra esserci sempre qualcosa da sistemare in questo maniero.»
Posso ben immaginarlo, concordò Emma in silenzio, guardandosi discretamente intorno.
«Chi ha scelto il nome Pemberley?» Chiese poi tanto per fare un po’ di conversazione, mentre riportava l’attenzione sulla donna, che pareva attendere con pazienza che Emma si ambientasse.
«Oh, l’ha acquisito col tempo. Gli abitanti del villaggio la chiamano ancora Pemberley Manor, sa, anche se è trascorso parecchio tempo da quando i Pemberley ci abitavano», spiegò Mrs. Duncan, facendo sciogliere con lenti movimenti circolari del cucchiaino una piccola zolletta di zucchero. Emma notò che il tono della voce le si era abbassato, e che le parole venivano fuori con una strana cautela. «La casa è stata costruita all’inizio del diciassettesimo secolo, ma come potete notare non segue uno stile architettonico particolare: i proprietari erano parecchio eccentrici, sapete, e le varie generazioni che hanno abitato la magione hanno apportato tante di quelle modifiche che ormai questa casa sembra più un labirinto, con scale a chiocciola anguste che non si sa dove conducano, torri, finestre che non si aprono, porte sospese nel vuoto e strane protuberanze… Ah, ma lo vedrete voi stessa nel caso abbiate voglia di dedicarvi all’esplorazione di Pemberley. Potete andare dove volete, ovviamente, milady… come ho già detto, siete voi la proprietaria… Ma vi consiglierei di evitare l’ala Ovest», aggiunse frettolosamente la donna, con un lieve accenno di panico che non sfuggì alla ragazza.
Malgrado a tale affermazione Miss Radcliffe avesse irrigidito la schiena, indignata da una simile imposizione da parte della governante, Emma aggrottò semplicemente la fronte, perplessa ma già curiosa, avvertendo quel familiare e piacevole brivido che le scorreva giù lungo la schiena ogniqualvolta la sua mente fantasiosa subodorava un interessante mistero. «E che cosa c’è nell’ala Ovest, se posso chiedere?» Domandò istintivamente, senza riuscire a trattenere un mezzo sorriso. Se avesse accennato a questa particolare conversazione nella prossima lettera che avrebbe scritto a suo padre, era sicura che Lord Grantham l’avrebbe raggiunta in campagna in men che non si dica per risolvere quell’enigma. O che perlomeno l’avrebbe spronata a farlo in sua vece; dopotutto doveva pur trovarsi qualcosa per passare il tempo, segregata com’era in mezzo alla selvaggia brughiera.
Dopo aver posato la tazza intatta sul tavolino, Mrs. Duncan giocherellò nervosamente con il pesante mazzo di chiavi che teneva appeso alla cintura, mentre rispondeva con un’ostentata noncuranza. «Oh, niente, signorina, niente di che», rispose con una scrollata di spalle, senza tuttavia guardarla. «Quell’ala è semplicemente chiusa, è in disuso da diverso tempo e, mi imbarazza dirlo, non ci siamo mai dati la pena di metterla in ordine. Non ci trovereste che polvere e buio, non certo un ambiente adatto a voi... E poi non c’è niente, ve lo ripeto», ribadì con insistenza.
«Sono certa che sia così», concesse la giovane con fare pacato, lanciando un’occhiata a miss Radcliffe affinché non ribattesse nulla dinnanzi a quello strano avvertimento. Per un po’ avrebbe anche potuto evitare quell’ala della casa, ma prima o poi avrebbe terminato le cose da fare ed era certa che un po’ di polvere non l’avrebbe dissuasa dall’avventurarsi in zone che sarebbero dovuto esserle precluse; d’altra parte, come le aveva detto la stessa Mrs. Duncan, era lei la padrona.
Continuando a parlare poi del più e del meno, Mrs. Duncan le informò dell’assenza di un telefono nell’abitazione – non avevano mai ritenuto utile acquistare un apparecchio quando non avevano nessuno con cui comunicare all’esterno di Pemberley; nel villaggio vicino, tuttavia, quello dove arrivava il treno, c’era un ufficio del telegrafo, e se avessero avuto necessità di inviare un messaggio urgente a Sua Signoria avrebbero potuto farsi accompagnare dal signor Duncan che scendeva in paese due volte a settimana per le scorte e commissioni di vario genere.
Infine, la governante annunciò loro che la cena sarebbe stata servita in due ore nella sala da pranzo; tuttavia né Emma né miss Radcliffe avevano molta fame – il viaggio le aveva stancate al punto che l’unica cosa che agognavano in quel momento era un lungo sonno ristoratore, così chiesero il permesso di ritirarsi direttamente nelle loro stanze. La signora Duncan sottolineò per l’ennesima volta che erano libere di fare ciò che desideravano, dopodiché suonò un campanellino per chiamare Lydia in modo che accompagnasse milady nella sua camera da letto.



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La camera che era stata assegnata a Emma doveva essere una delle stanze padronali, probabilmente quella appartenuta alla precedente signora di Pemberley. Come aveva già anticipato Mrs. Duncan, persino l’arredamento faceva convergere diversi stili e tendenze passate in un unico risultato finale: la tappezzeria era chiara, color crema, decorata con piccoli fiorellini vermigli; il mobilio era massiccio e scuro, di mogano o forse palissandro, con pomelli dorati nei cassetti e nelle ante dell’armadio, e per terra il pavimento quasi spariva sotto uno strato di tappeti persiani. Il letto, la cui testiera intarsiata occupava metà parete, era posizione di fronte al camino e di fianco alla finestra, in modo che potesse ricevere calore d’inverno e aria fresca d’estate; sui comodini vi erano delle antiche lampade ad olio con il paralume in vetro colorato, mentre dal soffitto a cassettoni pendeva un semplice lampadario in ferro. Le pareti erano abbellite da quadri che ritraevano paesaggi della brughiera, ma non vi erano ritratti né specchi: ciò era parecchio strano, soprattutto visto che l’ombra ovale che macchiava la tappezzeria sopra la cassettiera indicava che là uno specchio c’era stato, e che qualcuno l’aveva volutamente tolto. Certo, forse si era rotto… Ma perché non sostituirlo?
Imputando tale mancanza al fatto che la casa fosse rimasta inabitata per anni, Emma decise di rimandare la risoluzione di quel problema all’indomani mattina; congedò Lydia dopo che quest’ultima l’ebbe aiutata a sganciare l’abito e il corsetto, dopodiché rimase sola a finire di prepararsi per la notte: ancora non si sentiva a suo agio a spogliarsi davanti a una domestica che non conosceva, così fu costretta anche a sciogliersi da sola l’acconciatura e senza neppure l’ausilio di uno specchio. Una volta che ebbe portato a termine anche quell’operazione il mobile da toilette era ingombro di forcine di ogni dimensione, e una massa ondulata di capelli le ricopriva le spalle come un mantello, scivolandole sulla schiena fino alle natiche.
Aveva appena iniziato a pettinarsi quando un leggero bussare alla porta della stanza interruppe le sue fantasticherie. Aramis, dal suo angolo di fronte al camino, sollevò il capo e rizzò le orecchie, attento; Emma posò la spazzola sul tavolino e invitò l’ospite ad entrare, e quando vide chi era, sorrise. «Oh, siete voi, Miss Radcliffe.» Il cucciolo riabbassò il muso tra le zampe, decidendo che non vi era alcuna minaccia, e agitò placidamente la coda in aria.
«Volevo accertarmi che steste bene, signorina», spiegò l’istitutrice, entrando e richiudendosi la porta alle spalle. Anche lei in camicia da notte, con un pesante scialle drappeggiato intorno alla schiena e i capelli liberi dall’acconciatura giornaliera raccolti in una più comoda treccia, Miss Radcliffe spense con un soffio la candela che aveva portato con sé e attraversò la camera verso la sua allieva. «La signora Duncan mi ha spergiurato che questa è la stanza migliore di tutto il maniero, ma volevo assicurarmene di persona. Se non altro non è fredda… La sguattera vi ha messo il braciere sotto al materasso?»
Emma sorrise davanti alle solerti preoccupazioni della donna. «Sì, miss Jane, sono stati tutti cortesi e ineccepibili», rispose, riprendendo a spazzolarsi i lunghi capelli. «E della vostra stanza, invece, cosa mi dite? Sinceramente non capisco perché non possiate dormire insieme a me sullo stesso piano, e dobbiate invece dormire accanto a Lydia. Mi sentirei molto più tranquilla se foste vicina a me.»
«Milady, per quanto apprezzi la vostra generosità non dovete dimenticare che anche un’istitutrice fa parte della servitù, e che anche ad Hambleton Abbey la mia stanza era nei quartieri dei domestici.»
«Questo lo comprendo benissimo e non voglio certo sconvolgere nessuno, ma siamo venute qui insieme e non vedo perché dovremmo preoccuparci di simili imposizioni…»
«Quando il conte vostro padre ci raggiungerà non sarà di certo lieto di sapere che io e voi dormiamo in stanze affiancate. E devo ammettere, signorina, che questo metterebbe a disagio anche me.»
Emma dubitava che il conte di Grantham le avrebbe raggiunte in tempi brevi, ma questo non lo disse; si limitò a sospirare, arrendendosi. «Mi dispiace che non si possa fare uno strappo alla regola nemmeno nel cuore della campagna.»
Jane Radcliffe sorrise con tenerezza. «Sapete che sono disposta a fare parecchi strappi alle regole quando si tratta di voi, signorina, ma su certe cose non si può proprio transigere.» Spiegò gentilmente, posando una mano confortante sulla spalla della giovane. Poi aggiunse: «E ora lasciate che vi sistemi i capelli.»
Le mani della donna erano delicate ed esperte mentre divideva la chioma castana di Emma in tre ciocche per poi procedere ad intrecciarle, così lei socchiuse gli occhi, rilassandosi. «Credete che sia il caso di chiedere a mio padre di assumere altra servitù per Pemberley?» Domandò dopo un po’, sovrappensiero.
«Non spetta a me esprimermi su un argomento simile, signorina, però in base alla mia esperienza posso affermare senza paura di sbagliarmi che tre domestici sono un po’ pochi in un castello come questo», rispose Miss Radcliffe, cercando di essere delicata. «Certo, non ci sono feste da organizzare, né cene e né balli, per via del lutto e tutto il resto… Ma, per l’amor di Dio, come si fa tenere in ordine e mandare avanti una magione così immensa con una cameriera tuttofare, un custode che è insieme autista e giardiniere e una governante che è troppo in là con gli anni per fare determinati lavori? Tutto ciò è davvero molto sconveniente, signorina Emma. Se il povero signor Logan venisse a sapere che la figlia dei padroni abita in simili condizioni sono sicura che sarebbe capace persino di sgridare il conte vostro padre.»
Il signor Logan era il maggiordomo, nonché colonna portante, di Hambleton Abbey, ed entrambe sapevano quanto la sua fedeltà all’etichetta lo rendesse poco tollerante ai cambiamenti inconsueti e che, a suo dire, potessero macchiare il buon nome della famiglia che serviva da più di quarant’anni; parlare di lui provocò una dolorosa fitta di nostalgia alle due donne, che solo adesso iniziavano a realizzare il loro stato di estranee indesiderate nella tetra realtà della brughiera.
Imponendosi di sorridere, Emma si voltò per scambiare uno sguardo con miss Radcliffe. «Per ora lasciamo così, miss Jane, vi prego. Non tormentiamo mio padre con questi problemi, sono sicura che riusciremo a cavarcela… E se così non sarà, allora riprenderemo l’argomento. Non voglio essere scortese con queste persone, si sono messi tutti a nostra disposizione e non meritano un simile affronto.»
L’istitutrice la osservò a lungo, combattendo contro il desiderio di insistere per convincerla del contrario, e alla fine annuì, stringendo le labbra in una linea sottile. «Come volete, signorina. Cercherò di non farne parola con Sua Signoria», acconsentì, indietreggiando di un passo e posando la spazzola sul tavolino da notte. «Da domani io e voi riprenderemo le nostre lezioni come di consueto, allora. Colazione alle otto e mezza, dopodiché si studia. Siete d’accordo?»
Sollevata per quel confortante ritorno alle loro abitudini, Emma annuì e sorrise con più calore. «Certo, miss Radcliffe. Vi ringrazio», aggiunse, sincera. Risparmiare a suo padre di leggere delle lettere zeppe di lamentele e consigli sarebbe stata una delle poche cose che lei, dalla campagna, avrebbe potuto fare per lui.
«Buonanotte, signorina Emma», augurò la donna, riprendendo la propria candela e congedandosi.
Quando la porta si richiuse dietro miss Jane, la camera parve d’improvviso più fredda e soffocante, ed Emma rabbrividì.

























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NdA. Plauso a chi riconosce la citazione di Harry Potter presente nel capitolo… ;)
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Alcuni appunti riguardo i titoli nobiliari che appariranno nella storia.
Il titolo di Conte (Earl) è il terzo per importanza oltre ai reali: prima di lui abbiamo il Marchese (Marquess/Marquis) al secondo posto e il Duca (Duke) al primo. Sua moglie è la contessa. Ci si riferisce lui come, nel nostro caso, al "conte di Grantham", o "Lord Grantham", o solo "Grantham" per i più intimi. Sua moglie è quindi la contessa di Grantham o Lady Grantham, e si firmerà come Jacqueline Grantham.
Come per il duca, l'erede di un conte prenderà come titolo di cortesia il titolo appena inferiore rispetto a quello del padre (dunque il figlio di un Conte sarà definito Visconte) e il figlio dell'erede, a sua volta, quello immediatamente inferiore.
A tutte le figlie di un conte viene dato il titolo di cortesia di Lady più 'nome proprio': ciò significa che Emma verrà sempre chiamata Lady Emma o tutt’al più Lady Moore, che è il cognome del padre e non il titolo, ma mai Lady Grantham. Gli altri figli maschi di un conte sono detti semplicemente "the honorable" (onorevole) , titolo che però non è usato nelle conversazioni informali.

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Angolo Autrice.
Bentornati su queste pagine! In questo primo capitolo facciamo finalmente la conoscenza degli altri personaggi più o meno principali – sicuramente ricorrenti – di tutta la storia. Cercherò di essere il più possibile coerente con l’ambientazione storica, ma se trovate errori grossolani vi prego di farmeli notare – tipo anacronismi e cose varie, qualcosa potrebbe sfuggirmi. :D
Voglio ringraziare infinitamente Sylphs, Homicidal Maniac, rosgio e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo e aver deciso di dare un’occasione a questa storia *-* Inoltre un grazie immenso anche a chi ha già aggiunto la storia alle Preferite e alle Seguite, grazie grazie grazie!
Per il momento non ho altro da dichiarare, se non: spero di non avervi deluso e, al contrario, di avervi incuriosito un po’ di più ^^ Ci leggiamo al prossimo capitolo, grazie di nuovo di essere capitati qui! Baci e abbracci, sempre la vostra
Niglia.
   
 
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