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Autore: MelKaine    29/01/2008    34 recensioni
Il piccolo Harry Potter ha sei anni e non ha assolutamente idea di cosa significhi essere felice. Quando viene portato via dalla famiglia dei suoi zii la sua vita è destinata ad intrecciarsi con quella di Severus Snape, giovane maestro di Pozioni. Una storia sulla compassione e l'affetto, il cuore di tutto ciò che è amore.
Genere: Avventura, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Albus Silente, Harry Potter, Minerva McGranitt, Severus Piton
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Durante l'infanzia di Harry
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The Heart of Everything 9
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Grazie a tutti coloro che hanno recensito (tantissimiiiiiiiiiiiii!) il capitolo precedente. Questa volta, per reale, drammatica mancanza di tempo mi tocca fare una scelta o rispondo alle recensioni o aggiorno. Prometto che nel prossimo capitolo risponderò e ringrazierò, come d’abitudine, tutti, anche coloro che hanno recensito ‛Deceived right from the start’. Un bacio a bombottosa che mi aiuta sempre. ATTENZIONE: Piccoli spoiler non molto rilevanti del settimo libro. NdA: Vi assicuro che Snape non si è addolcito tutto in una volta, anche se potrebbe sembrare... Buona lettura.

Mel Kaine

 

 

 

 

                                                                    The Heart of Everything

 

 


 




9 - / Deep within the truth /

 




Le immagini, i suoni, i colori, le sensazioni, le emozioni.
Ogni cosa fluì in lui come la risacca, ma senza tornare verso il mare aperto, dopo.



E vide come se fosse lì e sentì come se lo provasse sotto la propria pelle e fu come essere fuori di sé, pur essendo ancora sé.
Crude, viscide, feroci visioni.




La porta chiusa della cantina. Il legno contro cui era rannicchiato, come graffiava contro le gambe nude e fredde. Il buio. Il rumore dei fantasmi della mente. L’odore della paura. Il cielo stellato ed il vento gelido. ‘Niente tetto sulla testa per i piccoli lavativi come te…’ Il tanfo della spazzatura. La negata voglia di piangere. Un inverno freddo al parco, senza vestiti. Uno sguardo verde di desiderio riflesso in una vetrina di un panificio. ‘Oh, mi hai disubbidito per l’ultima volta, ragazzo’. Suono di carne battuto. Dolore di carne battuta. L’incrinarsi delle ossa. La bocca piena di saliva, a terra accanto al tavolo. Odore di cibo caldo. Una libreria troppo alta. Uno schiaffo così forte. Fame. Le pentole della cucina. Il cibo sprecato nei piatti. Un bastone sollevato sopra la testa, pronto a colpire. Le mani sul viso. Una briciola a terra, dietro la gamba della sedia. Fame. Il buio completo. Freddo. Erba nelle mani piagate e sciupate. ‘Schifoso, lurido piccolo verme. Questa è l’ultima volta che prendi qualcosa dalla credenza senza permesso, l’ultima! Petunia, passami il matterello!’. ‘Bucce di patate, sporche di terra. ‘Non c’è altro per te’. Premuto contro il muro, una mano enorme lo soffocava. Sapore di metallo sulle labbra. Neve. Nessun biglietto che dicesse ‘Per Harry’. Nessun Harry. ‘Nessuno ti vuole, sei qui per la nostra carità, disgustosa, sudicia pulce. Lavora o ti ammazzo con le mie mani’. Una spinta. Giù per le scale. ‘Ci sono i mostri in cantina, ci sono i mostri. E ti mangeranno e ti faranno a pezzi e poi i fantasmi ti porteranno via quando sarai morto e ti faranno del male e non potrai mai più scappare’. Tremore diffuso, le ginocchia in preda ai brividi. Sete. ‘Per favore, per favore, signore, posso avere qualcosa da mangiare oggi? Posso?’. Il cuoio di una cintura contro la schiena, contro il viso, sul petto. Fame. Bruciare. ‘No, assolutamente, piccola idiota. Non avrai nessun giocattolo, vai a spazzare il portico’. Sapore di acqua sporca e unta. ‘Hai ancora sete, adesso, ragazzo?’. Cadere. Cadere. Segni rossi. La spalla che esplodeva. Le stelle. Il pavimento. La polvere. Odore lontano di cibo. ‘Doveva essere affogato da piccolo, lo dirò sempre. Inutile. Inutile’. Occhi senza pietà lo guardarono in terra, passando in un’altra stanza. ‘Ozioso bastardello’. Gridare. Urlare. Pregare. Svenire. Un sacco di piccoli, vivi stracci gettati in un sottoscala. ‘E sappi che non uscirai per una settimana!’. ‘Stupido, stupido. Papà ti picchierà ed io riderò tutto il tempo, stupido, piscione, piscione’. Labbra screpolate. Cocci. Impronte di marmellata. ‘Non è stata colpa mia…’. ‘E’ sempre colpa tua, tutta colpa tua, mostro anormale, che orrore, non toccarmi, nessuno sano di mente e perbene potrebbe mai volerti’. Un calcio. Cantina. Sottoscala. Cantina. Giardino. Sottoscala. Un braccio tirato. ‘Non sporcare di sangue le piastrelle. In giardino! In giardino!’. Schiaffo. ‘Inseguitelo, prendetelo. Caccia a Potter. Caccia a Potter!’. In ginocchio. Una mano bruciata. Fame. ‘Piangi? Osi piangere? Non ti servirà a niente, sgorbio, A NIENTE! Risparmia le suppliche. Quando tornerà Vernon gli dirò che non hai finito i tuoi lavori e ci penserà lui a punirti come meriti’. Paura. Paura. Fame. Labbra tremanti e brividi nelle ossa. Freddo e sete e fame. ‘Il mostriciattolo ha la febbre’. ‘Fallo lavorare lo stesso, Petunia!’. ‘Ci ho provato, non si regge in piedi’. ‘Dannata, fastidiosa piattola, chiudilo in cantina, prima che contagi Dudley’. Scale e mani grosse, robuste, rosse e forti. Troppo forti. ‘Per favore, per favore, signore, non lo farò mai più, non lo farò mai più, lo giuro, per favore, fa male, fa m-male-e…’. ‘Non dire quella parola, non osare pronunciarla MAI PIU’ IN QUESTA CASA!’. Lacrime salate. Lacrime amare. Dolore. Fame. Sete. Paura. Tenebre. Notte. Vento. Legno. Male. Fame. Solo. Solo. Solo. ‘Papà mi porterà a vedere le auto da corsa e tu no! Tu rimarrai qui e pulirai la mia stanza, ah ah ah’. In terra. Fa male. Fa dolore. Sanguina. Prega. Solo. Solo. Pugno. Dolore. Dolore. Nascosto. Riparo. Piccole mani sulla testa chinata. Piccole mani, troppo piccole. ‘Buttagli un osso, Petunia, mangerà lì per terra, come il cane che è’. Vorace si getta sul cibo, sul piccolo osso. Niente da masticare, ma dopo giorni sentire un sapore sulla lingua è tutto quello che serve per farlo piangere. Scale. Dolore. Picchiare selvaggiamente. Il respiro battuto fuori dal corpo. Occhi liquidi e verdi che si chiudono e diventano vuoti. ‘Ho fatto tutti i lavori, signora, per favore, posso andare in bagno? Per favore’. No. No. Sempre e solo no. Niente. Nessuno. Solo. Fame. Ancora mani, ancora urla, ancora dolore e incubi e notti nere e cieli senza stelle e senza lune e sere senza sogni e giorni senza speranza e afflizione e grida e stanchezza. Stanco. Stanco e solo. ‘Prendi questo e questo. Ti piace il bastone, ragazzo? TI PIACE?’. Soffocato nel silenzio il grido di un innocente al martirio.


Con un respiro mozzato incastrato in gola Severus si tirò via dalla mente del bambino.

Una parola sola per quella infinita stringa di orrori.


Disumanizzante.



I suoi occhi neri come la pece erano divenuti abissi d’incolmabile, pietosa incredulità.

Il bambino tremava sulle sue ginocchia, tremava come una foglia, così come innumerevoli volte Snape lo aveva visto fare nei lunghi minuti in cui aveva, senza sforzo, sondato la sua mente. Nessuna barriera a proteggere quella fragile, piccola creatura dal suo assalto. Ma Severus Snape era un uomo che non si pentiva facilmente delle proprie azioni. Soprattutto quando queste ultime portavano rivelazioni di tale entità e spessore.

Fu come colto da un malore, improvviso. Il respiro corto e la nausea che saliva rotolando dal suo ventre verso l’alto, verso la luce. La gabbia toracica s’era fatta, d’un tratto, stretta come un pugno, violentemente serrata, come le sottili, emunte labbra.

L’ironia lo colpì.

Aveva dunque ancora un’anima che poteva soffrire per una tale, nuda, successione di aberrazioni?

Chinò la testa, sconfitto dal pesante fardello del cuore che finalmente sentiva nel petto, ancor prima che un acido, sarcastico, ma sicuro commento rispondesse al nonsenso di tale affermazione.

Il verde scuro colpì i suoi sensi.

Potter lo fissava, immobile come una bambola di fine, friabile porcellana.

Oh, Dio, non aveva mai visto un bambino così piccolo piangere tanto silenziosamente…

Il viso era un calvario di sofferenza e solchi di acqua e sale. Rivide l’abisso nel vuoto dei suoi occhi e fu morire come se fosse stato una candela, di colpo, senza odore, senza suono. Con ogni umana certezza sapeva di esserne la causa. Insieme avevano riguardato quella patetica trafila di patimenti che qualcuno poteva trovare lo stomaco di definire vita, lo aveva forzato al ricordo, facendogli quello che non voleva fosse fatto a lui e scoprì di non riuscire a perdonarsi. E quando questo succedeva Severus sapeva che non era mai un buon segno…

Con dita ferme sollevò un lembo del mantello che avvolgeva il bimbo e gli pulì il viso, fermando il pianto, fermando il ricordo per riportarlo al presente. E poi lo avvolse ancora più stretto nella stoffa e lo fece distendere sulle sue gambe, il piccolo faccino sulla metà centrale della sua coscia, raggomitolato come un gatto, con una mano a tenerlo buono sulla schiena scossa dai fremiti. Così leggero e così piccolo…

“Mi dispiace…”sussurrò nella penombra e probabilmente quella fu la cosa più vera che in vita sua ebbe l’occasione di dire.



Il sorgere del sole era ancora così lontano, eppure tutto pareva illuminato da una luce nuova, quasi spettrale.
Le convinzioni caddero come il castello di carte che erano e nessun vento di perdono spirò sulle macerie.

La sua negligenza era stata inescusabile.

I segni ed i sintomi gli erano passati davanti agli occhi tutti i giorni, ad ogni istante, ad ogni respiro ne ricordava di nuovi.

Quei continui, inizialmente petulanti ‘Sì, signore’ e ‘No, signore’ non erano infantili, patetici scherzi, non erano un gioco. Non erano una falsa pretesa d’ubbidienza. Erano una realtà che quei Muggle gli avevano conficcato nella testa con le ripetute violenze, i continui abusi e le minacce.
Adesso trovava chiaro il perché un bambino di sei anni fosse arrivato da lui pallido come un minuscolo cadavere, le ossa così piccole, così poco sviluppate per la sua età.

Severus chiuse gli occhi di fronte al pensiero di quei pochi, terrificanti giorni trascorsi nella completa ignoranza.
Scena dopo scena, come uno di quei libri incantati che, senza alcuna dignità, Madam Pince metteva sempre sugli scaffali accanto ai suoi preziosi, difficilissimi libri di Pozioni, sapeva di poter rivedere ogni cosa.
Avrebbe desiderato un’improvvisa, quanto benefica, cecità mentale.
Non vedere, non sentire, non sapere.
Eppure la verità raramente offriva il lusso di poterla ignorare.
Inarrestabile, oltre le dighe della volontà.

Il copione di un dramma.



[“Quando mi senti arrivare non ti è permesso nasconderti. Adesso dimmi, dove sono tutte le tue cose, i tuoi giocattoli, i tuoi vestiti? Ne avevi quando ti hanno portato qui?”]

Oh sì, ne aveva. Luridi, sdruciti, logori vestiti di seconda mano.

[“Signore… p-p-per favore, posso… avere qualcosa? Da m-mangiare… – silenzio. – Per favore, per favore…”]
[“No”. “Non voglio che tu prenda l’abitudine di mangiare fuori pasto”.]


Lo aveva affamato, come quei dannati, disgustosi Muggle.
Lo aveva ridotto ad implorare, a pregare.
Per avere qualcosa che gli era più che dovuto, in realtà.

[“Posso… ” “… fare … qualcosa…?”]

Era stata una richiesta per guadagnarsi il cibo, come aveva fatto in passato?
Tutti quei lavori per un osso?


[“Che diamine stai facendo lì sotto, Potter?!”]
[“Cos’hai in mano?”]
[“Niente, niente, signore. Mi dispiace, mi dispiace…”]


Una briciola, una minuscola, misera, piccola briciola.
Che il bambino aveva sperato di mangiare.
E che lui gli aveva fatto buttare via.

[“Quei Muggle con cui vivevi non ti hanno insegnato che non si mangia quello che si trova per terra?”]

Oh sì, i Muggle gli avevano insegnato.
Sì, insegnato a mangiare a terra, come i cani.

[“No, n-n-non ho visto niente, signore… non ho fatto niente… mi dispiace… non ho fatto n-niente…”]
[Per f-favore, non mi picchiare, signore. Non lo farò più, per favore, per favore…”]

Come avevano potuto ridurlo così?
Un esserino implorante, tremante, terrorizzato, abusato oltre ogni concepibile immaginazione.
Come avevano osato?

Nessun bambino meritava una vita simile.
Nemmeno il figlio di James Potter.
Nessuno.

Possibile non si fosse accorto di niente?
Possibile fosse stato così cieco?
Fra tutti proprio lui, la cui infanzia ancora era come un brutto sogno mai dimenticato?
Non avrebbe dovuto capire?
Collegare quanto osservato alla giusta conclusione?

Eppure niente era risolto.
Le domande, quelle più importanti, restavano.

E l’alba avanzava lenta, ma inesorabile.
L’incantesimo di guarigione sulla sua caviglia non aveva certo fatto miracoli, ma almeno sentiva di poter stare in piedi. Tornò a concentrarsi su di esso, sperando di accelerarne i benèfici effetti. Aveva intenzione di lasciare quella maledetta, umida prigione il prima possibile.


Il piccolo Harry si sentiva a tratti un poco più sveglio, a tratti sprofondato in un sonno lento e dolce. Ricordava di aver sentito tanto freddo prima, sul pavimento, in quella stanza in penombra, ma adesso c’era caldo e si stava bene ed anche la pietra su cui stava dormendo sembrava più morbida e qualcosa era piacevolmente avvolto intorno a lui e c’era come un piccolo peso sulla sua schiena. Però qualcosa gli impediva di lasciarsi andare, di farsi portare via dal sonno vero, quello profondo in cui non si sente più niente e non si vede e non si pensa più. Si mosse lievemente e sentì il pavimento muoversi. Improvvisamente sveglio cercò di tirarsi a sedere e subito si ritrovò davanti gli occhi neri e senza fondo dell’uomo-Sevreus. Di puro istinto si tirò indietro, ma una mano dietro la schiena lo tenne fermo al suo posto.

Ricordava!

Si era addormentato sopra l’uomo-Sevreus.

Oh, adesso sì che sarebbe stato picchiato.
Non era permesso, non era assolutamente, mai, permesso.

Prima che il panico potesse ridurlo in lacrime Snape ebbe la prontezza di parlargli, il tono deliberatamente basso e calmo:
“Non c’è niente di cui preoccuparsi, puoi restare dove sei”.

Harry lo guardò in silenzio e ubbidì.

Snape sospirò. Il bambino non aveva dormito che un misero paio d’ore e si era praticamente destato in preda allo spavento. Lo sentiva rabbrividire, rigido come un fascio di legnetti verdi. Pronto alla fuga, pronto al peggio, rassegnato alla violenza? In quel preciso istante Severus pensò che la battaglia per la completa fiducia del piccolo Potter probabilmente sarebbe stata la più lunga e difficile di tutti i suoi ventisei anni di vita.

Si riscosse da quel pensiero inappropriato al suono di un piccolo, malcelato colpetto di tosse. Maledisse quel dannato posto. L’umidità li stava uccidendo e, benché non rimpiangesse la sua scelta, rimanere appoggiato contro un muro gelido in maniche di camicia non era una cosa con cui si dilettava a passare il tempo. Guardò attentamente il bambino ancora seduto sulle sue ginocchia. Non sembrava tremare, ma certamente non era rilassato, poteva sentire attraverso la mano che ancora teneva appoggiata sulla sua piccola schiena l’atterrita immobilità di quel corpicino esile.
La notte, come sempre, scorreva.

“Harry – sussurrò piano Severus. – Puoi rispondere a qualche domanda?”

“Sì, signore”.

La piccola schiena s’irrigidì ancora di più.

“Perché non hai mangiato i primi giorni quando sei arrivato? Gli elfi avevano portato il cibo in cucina”.

Harry si rigirò le manine l’una nell’altra.
Snape lo osservò. Il bambino faceva sempre così quando era nervoso per qualcosa.

“Il s-signore aveva detto che Harry non poteva uscire dalla stanza e quindi Harry non è uscito”.

Severus respirò a fondo.
Ricordava perfettamente di avergli ordinato di non lasciare la stanza, ma quello che non avrebbe mai sospettato era la totale ubbidienza da parte del bambino. E gli elfi avevano, ovviamente, ricevuto l’ordine di portare il cibo in cucina, non nelle stanze.

“Perché quando ti ho detto ti mangiare hai preso la mia pozione?”

Harry inclinò la testa, senza capire la domanda.

Snape riformulò.

“Perché quando ti ho detto di mangiare, quella mattina, hai preso una tazza di … – Oh quanto era imperdonabile definirla così. – Quella ‘roba’ grigia nel mio calderone?”

Gli occhi del bimbo s’illuminarono di comprensione.

“La minestra, signore?”

Snape evitò di alzare gli occhi al cielo.
“Sì, la minestra. Perché hai mangiato quella e non il cibo sul vassoio?”

“Oh, perché il cibo sul vassoio, signore, era troppo buono per essere mangiato da Harry, signore”.

Severus lo sospettava.
Aveva visto nei suoi ricordi il piatto di bucce di patata, le ossa gettate a terra, le briciole di pane.

Lo aveva punito ingiustamente.
Lo aveva fatto lavorare con l’osso del braccio in quelle condizioni.
Lo aveva visto bruciarsi alla fiamma del camino, ma non emettere un suono. Non osava pensare a quanto dovesse essere abituato al dolore, alle deprivazioni, alla paura.
Lo aveva terrorizzato quella sera nei suoi quartieri, solo per una pozione evaporata…
Lo aveva fatto impaurire con la magia ed aveva riversato su di lui tutta la frustrazione e l’amarezza dei suoi ricordi e delle manipolazioni di Albus. Ricordava ogni commento acido, ogni inflessione sprezzante della voce, ogni sarcastica risposta.
E non gli aveva creduto il giorno in cui si era quasi avvelenato con la sua Wolfsbane.
Poi lo aveva chiuso nella sua stanza, lasciato da solo, senza nessuno tranne la sporadica e breve compagnia di un elfo.
Aveva riso della sua evidente paura per il mezzogigante.
E come se non bastasse lo aveva coinvolto nel rapimento.

E sapeva perfettamente che se soltanto una delle cose che aveva pianificato fosse andata storta il bambino avrebbe pagato con la vita pe un errore non suo. Un altro innocente nella lunga lista del suo debito di sangue.


Severus Snape non era un uomo sensibile, non era un uomo giusto, non era un uomo preda delle emozioni, non era un uomo con cui la vita era stata generosa ed a sua volta, lui, non si sentiva in dovere di esserlo con tutto il resto del mondo.
Era un uomo aspro e solo e felice in qualche modo di esserlo.

Aveva visto e compiuto orrori, aveva ingannato e tradito e mentito e ucciso.
Per dovere, per volere, per potere.

E certo non aveva alcuna intenzione di guadagnarsi un paradiso in cui, in fondo, non credeva.

Ma tremava di rabbia al pensiero…

“Signore Sevreus? Signore Sevreus… – silenzio. – Se il signore Sevreus ha freddo Harry può fare a meno di questo… vestito nero e renderlo al signore Sevreus…”

Una manina tesa ad offrire un lembo nero di stoffa.

Severus lo fissò, silente.
Da quanto non udiva sincere parole di preoccupazione per lui?
Da quanto?

E dopo tutto quello che gli aveva fatto, nell’ignoranza, certo, ma indiscutibilmente fatto.
Oh, Dio.

Con le mani prese la stoffa e di nuovo la avvolse attorno al bambino, stretta. Con cura.
Scosse la testa.

“No, Harry. Voglio che lo tenga tu”.

Ed il bimbo, per la prima, vera volta sorrise.
Un sorriso che raggiunse i suoi occhi verdi come la giada, come lo smeraldo.

“Grazie, signore” mormorò, soffice.

Ed ormai per lui era diventato Harry.
Era diventato altro oltre il figlio di James.
Era altro oltre il Bambino Sopravissuto.

Era solo il piccolo, povero figlio di lei.

E lo guardò ancora ed ancora ed ancora.
Mentre le sue mani salivano e toccavano il piccolo viso.

Sentì sotto le punte delle dita un fremito di paura, ma il dolce contatto che tentò di improvvisare rassicurò il piccolo.
E presto dal semplice toccare divenne morbida carezza, accennata e calda.
Su quella piccola guancia, sotto gli occhi di bosco, piano, con calma.


E finalmente capì.
Finalmente comprese.
Finalmente intravedeva il riscatto in tutto questo, riscatto dalla colpa del sangue di Lily Potter, quando non era riuscito a fare niente per proteggerla, niente per risparmiarle la vita, nemmeno pregare ed implorare davanti ai due maghi più potenti di quegli ultimi secoli l’aveva salvata…
Ma adesso trovava un senso dietro al suo impudente, dannato sopravviverle e pensò che forse era per quello. Per salvare suo figlio, il figlio della donna che disperatamente, impunemente, intensamente aveva amato ed amava. L’unica luce della sua vita che adesso non brillava più da cinque neri anni.

Ed era suo figlio che stava accarezzando, suo figlio che voleva salvare, che voleva proteggere.
Semplicemente Harry, figlio di Lily.


Il bimbo chiuse di un poco gli occhi, ma le labbra rimasero aperte.
Oh, non pensava.
Non sapeva.

Non sapeva che le mani si potessero usare per una cosa del genere, né sapeva che mani così grandi, così grosse potessero essere tanto gentili con lui.
Ma lo erano.

E spingendo di un poco il viso contro quel palmo pianse di qualcosa che, per la prima volta, non era dolore.


 

 

 

 




Continua…

 

 

 

Nota grammaticale: per mia decisione personale in questa fanfic tutti i nomi propri ed alcuni altri di vario genere sono mantenuti originali, quindi con i termini inglesi, non solo per rispetto alla signora Rowling che così li ha creati, ma anche perché non approvo la dilagante malattia del ‛traduzionismo-sempre-e-comunque’. Per correttezza nei confronti di chi è in disaccordo con me alla fine di ogni capitolo metterò i termini italiani corrispondenti. Grazie mille.

 

   

   
 
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