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Autore: CarolPenny    19/07/2013    3 recensioni
[Capitolo 7- Mycroft.]: “Ma se c’era una persona che si potesse dire l’avesse seguito sempre, quello ero io, senza dubbio. Ero rimasto nell’ombra, il più delle volte, a osservare la sua figura crescere e gli effetti devastanti che il suo contatto con il mondo esterno avevano sempre provocato. Il suo innalzamento, e infine anche la sua caduta. Quella sindrome a cui non si era immuni, quando lo si conosceva.
La sindrome di Sherlock Holmes.
Genere: Angst, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Salii lentamente le scale che portavano al primo piano. Il dolore all’anca ormai era sempre più frequente. Ogni giorno ero costretta a fermarmi e a sedermi per fare in modo che passasse, anche se solo momentaneamente. Il mio stato di salute stava peggiorando e - ahimè - l’età avanzata si stava facendo sentire sempre di più. Presi un bel respiro, massaggiai la parte dolorante e salii gli ultimi scalini.
Il salotto era quasi completamente al buio, così mi mossi per accendere la luce.
“Non lo faccia.”
Mi fermai di colpo, l’indice già sul pulsante. Ritrassi subito la mano.
Sherlock era appena uscito dalla cucina.
“Non vedo che fastidio possa darti un po’ di luce.” dissi  “Per di più anche fuori ce n’è così poca. Non so se ha visto le numerose nuvole che…”
Mi interruppe.
“Le nuvole non mi preoccupano affatto, signora Hudson.”
Attraversò la stanza e accese la lampada accanto alle poltrone. Con la luce, finalmente riuscii a guardarlo in volto.
“Si sente bene?” mi chiese, avvicinandosi.
Io mi massaggiai involontariamente.
“È la mia anca.” risposi, ma non lo guardai.
“Senza dubbio. Dovrebbe cambiare medico curante.” commentò.
Mi accigliai.
“Ma no.” continuò “Sta cercando semplicemente di capire se sono davvero io qui davanti a lei. Mycroft avrebbe dovuto dirglielo un po’ prima, probabilmente.”
“O magari non saresti mai dovuto andare via così, senza un avvertimento.” risposi. “Immagino l’angoscia che avrà dovuto provare la povera signora Holmes!”
Sherlock non rispose, e si allontanò, raggiungendo di nuovo l’altra parte della stanza.
Suo fratello Mycroft mi aveva fatto spesso visita, durante gli ultimi tre anni, e finalmente avevo capito il motivo per cui aveva continuato a pagare l’affitto della casa in cui aveva abitato suo fratello.
In ogni caso, non sarei riuscita ad affittare l’appartamento a nessuno. Erano troppi i ricordi che ancora aleggiavano tra quelle stanze.
“Si sieda, signora Hudson, perché sto per dirle una cosa molto importante. Sherlock è vivo, e tra circa tre settimane tornerà a Londra e si trasferirà nuovamente nell’appartamento del 221 b.”
Ero rimasta a fissarlo per diverso tempo senza capire. Lui si era seduto al mio fianco e mi aveva raccontato ciò che era successo, o almeno una buona parte. Come avesse fatto Sherlock a sopravvivere a quel salto nel vuoto restava ancora un mistero irrisolto, però, ed io non riuscivo a rendermi conto del tutto che era tornato.
“Mia madre sta bene.” disse Sherlock, ad un certo punto. “Come mai è salita qui? C’è qualcosa che vuole dirmi?”
Io deglutii, iniziando a sentire di nuovo dei forti dolori.
“Sì, volevo chiederti se desiderassi qualcosa da mangi…” mi interruppi improvvisamente, notando qualcosa di strano.
La stanza era, come solitamente era sempre stata, molto in disordine, ma qualcosa di davvero particolare aveva attirato la mia attenzione. Sopra una delle poltrone accanto al camino, quella dove di solito sedeva Sherlock, c’era un lenzuolo bianco, che copriva sicuramente qualcosa di grande. Quando ero entrata l’ultima volta in quella stanza, non più di due giorni prima, sicuramente non c’era.
Doveva averla portata Sherlock.
“Che cos’è?” gli domandai, indicando la poltrona.
Lui si fece accanto ad una delle finestre, spostando la tenda e sbirciando fuori.
“Nulla di importante. La prego, signora Hudson, torni giù e rimanga lì.”
Aprii la bocca per rispondere, ma lui mi anticipò.
“È palese che lei non si senta bene, quindi le consiglio di mettersi a letto. Non ho bisogno di lei, ora!”
Questa volta usò un tono più aggressivo. Io mi zittii, dispiaciuta.
Lentamente iniziai la discesa, ma dopo l’ultimo scalino, mi sentii chiamare di nuovo, anche se a voce bassa.
“Signora Hudson!”
Volsi lo sguardo in alto, verso la scalinata. Sherlock era sceso velocemente ed era visibilmente allarmato.
“John è fuori alla porta. L’ha chiamato lei?”
Mi accigliai di nuovo, poi scossi la testa.
“Allora non gli apra. Ignori il campanello e si chiuda in casa.”
 “Ma…” provai a dire, lui però mi interruppe ancora una volta.
“E non risponda neanche al telefono.”
Si sentì un rumore metallico.
“Ha ancora le chiavi…” sibilai.
Lo vidi sgranare gli occhi.
“Vada a casa sua e faccia finta di non esserci!” esclamò velocemente, facendomi segno con le mani di muovermi.
Io camminai più in fretta che potei, nonostante il dolore all’anca, di nuovo forte. Chiusi la porta di casa e mi precipitai verso la camera da letto. Mi stesi.
Sherlock era tornato soltanto la notte prima, quindi da neanche un giorno, e già si stava occupando di un nuovo caso?
Anzi, già aveva pure litigato di nuovo con John?
Stavo davvero cominciando a pensare di essere diventata troppo vecchia per quelle cose.

 

 

JOHN

 

Una quantità non indifferente di nuvole grigio scuro si stava ammassando minacciosamente e stava raggiungendo Baker Street. Probabilmente a breve avrebbe piovuto. Presi le chiavi dalla tasca e mi mossi velocemente verso l’entrata. Quasi mi meravigliai di me stesso e della mia determinazione, ma infatti, appena arrivato davanti la porta, mi fermai di botto e per poco non fui invaso dall’istinto di tornare indietro.
Presi un bel respiro e puntai i miei occhi verso ciò che c’era scritto affisso sul legno: 221B.
Improvvisamente la porta si aprì, e fui ammanettato e sbattuto contro la portiera di una macchina della polizia. Mi lamentai per la botta presa.
“Ti unisci a me?” mi chiese Sherlock, con ironia.
Mi misi le mani davanti al volto e stropicciai gli occhi.
Mi era successo di nuovo. Avevo immaginato perfettamente uno dei miei ricordi che lo riguardavano. L’ultima volta che entrambi eravamo usciti insieme – o quasi – da quella casa.
Dalla nostra casa.
Eravamo stati arrestati entrambi – il mio era in realtà più uno stato di fermo che reale arresto – ma poi Sherlock aveva fatto di testa sua, tanto per cambiare, ed eravamo riusciti a scappare.  Avevamo iniziato a correre. Una corsa senza fine e senza meta, apparentemente.
Quella era stata una lunga notte, una delle più lunghe che avessi mai vissuto senza chiudere occhio. Forse non proprio l’unica. Quando ero stato in guerra ne avevo passate tante, ma quella di sicuro era stata la peggiore.
Era da tempo che non mi succedeva di ricordare quegli avvenimenti. Pensavo di essere riuscito a smettere. E invece, per colpa di uno stupido numero e di una stupida lettera inchiodati alla porta avevo capito che la terapia non era servita proprio a nulla.
Infilai la chiave nella serratura. Non ricordavo fosse così dura, così mi aiutai con l’altra mano e riuscii ad aprire. Quando entrai, l’ingresso era immerso nell’oscurità.
Accesi il cellulare per farmi luce. Vidi di sfuggita che qualcuno, più precisamente Mary, mi aveva chiamato, ma decisi che non era il momento. L’avrei richiamata più tardi.
“Signora Hudson!” urlai. “Signora Hudson, sono John!”
Mi accorsi di avere la gola secca.
Chiusi la porta e andai ad accendere il lampadario poggiato sulla piccola mensola di fronte le scale.
Provai a chiamare di nuovo la padrona di casa, ma non ricevetti alcuna risposta. Mi mossi verso la porta del suo appartamento e bussai.
“Signora Hudson? È in casa?” provai ancora, ma a quanto parve, non c’era.
Strano. A sentire il mio collega, Charles Wood, che era il suo medico curante, lo stato di salute della mia anziana amica era diventato decisamente più precario e le era stato intimato di restare in casa e riposare il più possibile. Questo mi era stato detto neanche due settimane prima.
Forse era andata a trovare qualche parente; sì, sembrava un’ipotesi possibile.
Dopo aver risolto il problema di mia sorella, l’avrei chiamata per dirle delle chiavi e anche per chiederle come stava. Mi mossi di nuovo verso la mensola dell’ingresso e iniziai a staccare le due chiavi di quella casa dal mazzo in cui tenevo tutte le altre, cioè quelle del nuovo appartamento, quelle di Harry e quelle dell’ambulatorio. Durante l’operazione, mi graffiai pollice e indice, ma riuscii a staccare la chiave della porta d’ingresso e la posai.
Poi mi fermai. Non seppi bene il perché, ma lo feci.
Mi girai ed osservai le scale e rimasi lì a fissarle a lungo.
Sarei dovuto salire sopra. Lo avevo desiderato dal primo istante in cui ero entrato, solo che non lo volevo ammettere. A quanto pare, la signora Hudson non aveva venduto l’appartamento a nessuno. Non si sentivano rumori e nessuna luce proveniva da lassù.
Distolsi lo sguardo e quasi sbuffai.
Perché stavo reagendo così? Era solo una casa, e quella, probabilmente, sarebbe stata l’ultima volta in cui ci avrei messo piede.
Deglutii e poi mi decisi a salire. Feci le scale salendo due gradini alla volta, come spesso avevo fatto in passato, ma inizialmente non ci feci neanche caso.
La porta del salotto era aperta, ed era tutto al buio. Accesi subito la luce. Le finestre erano tappezzate con tende rosso scuro che non ricordavo affatto. Erano decisamente coprenti, tanto che quasi non si riusciva a vedere attraverso di esse. Spostai la mia attenzione dalle tende sulla la stanza.
Rimasi letteralmente a bocca aperta. Il divano, il tavolo e il pavimento erano occupati da scatole, fogli di giornale, utensili vari , e su una sedia c’era anche un violino.
“Cosa diavolo?” feci tra me e me, ma non riuscii a terminare la frase. Vidi un lenzuolo bianco coprire interamente la poltrona di Sherlock.
Come se qualcuno si fosse trasferito lì e avesse dimenticato di scoprire un’ultima cosa.
No. Come se non fosse stato portato via niente di quello che era appartenuto al mio coinquilino.
Mi avvicinai. Sulla mia poltrona c’era ancora il cuscino con sopra stampata la bandiera della Gran Bretagna.
Mi lasciai scappare un sorriso amaro.
Quando me ne ero andato, quello era stato l’unico oggetto che avevo desiderato portare via con me, ma che poi avevo deciso di lasciare all’ultimo momento.
Avevo dato le spalle alla cucina, che aveva le porte scorrevoli chiuse, e improvvisamente mi sentii osservato, una sensazione sinistra che mi portò a girarmi improvvisamente. Ma le luci dell’altra stanza erano spente, e non c’era nessuno. Il mio movimento fece alzare una piccola nuvoletta di polvere, così tossii. Subito dopo, ritornai a guardare la poltrona e il lenzuolo bianco.
Non era lì solo per coprirla. Doveva esserci qualcos’altro lì sotto, e di una forma precisa.
Sollevai un po’ il tessuto e notai una scarpa nera. Decisi di toglierlo interamente.
Per poco non mi scappò un urlo. Dovetti mettermi una mano davanti alla bocca per evitare di farlo e con l’altra strinsi più forte il mazzo di chiavi, che era quasi scivolato a terra.
Rimasi fermo in quella posizione per un bel minuto intero, con il cuore che batteva forte, il respiro decisamente irregolare, cercando di trattenere le lacrime.
“Sh… Sherlock?”
Era lui, ma allo stesso tempo non lo era davvero.
Era vestito di tutto punto, elegante, come vestiva di solito: pantaloni e giacca abbinati, la camicia viola. Era seduto, con le gambe accavallate e le braccia divaricate poggiate sui braccioli della poltrona.
Gli occhi erano spalancati.
Ma non erano davvero occhi. Fissavano un solo punto, ed erano freddi, inespressivi.
Come quando li avevo visti l’ultima volta, privi di vita.
Tossii di nuovo, presi più di un respiro profondo e cercai di calmarmi.
Quello non era Sherlock, ormai me ne stavo convincendo, ma era qualcosa di estremamente simile a lui, una sorta di manichino.
La pelle e gli occhi erano lucidi, sembravano fatti di plastica – proprio come un manichino – così allungai un braccio e gli toccai una mano.
Sì, sembrava plastica, ma al tatto sembrava leggermente più ruvida.
“Che cos’è questo? Che cosa significa?” mi ritrovai a pensare, cominciando seriamente a dubitare della mia sanità mentale.
Dovevo assolutamente contattare la signora Hudson. Lei sapeva, lei doveva sapere.
Mi allontanai dal manichino, dandogli un’ultima occhiata.
Iniziai a pensare che fosse molto simile alle statue di cera di Madame Tussauds.
Ma perché, perché?
Uscii dalla stanza velocemente, scesi le scale, e nel frattempo provai a chiamare la signora Hudson tramite cellulare. E se lei non mi avesse risposto, avrei contattato Mycroft Holmes.
Ormai era evidente che c’era qualcosa che mi stavano nascondendo. Ancora una volta.
Uscii dal 221B e chiusi la porta con forza.
Ero arrabbiato, ero confuso. Ero… qualcosa di indefinibile.
La signora Hudson non rispose, così raggiunsi il marciapiede di fronte e provai a chiamare Mycroft.
Baker Street era deserta. Le nuvole ormai erano arrivate e cominciai a sentire qualche leggera goccia di pioggia colpirmi sul viso.
“John Watson?” mi sentii chiamare e mi girai immediatamente.
Non riuscii neanche a guardare chi fosse stato a pronunciare il mio nome. Qualcosa mi colpì la testa e io caddi all’indietro, sull’asfalto.

 

 

*

La prima cosa che sentii fu un dolore atroce alla testa e un forte odore proprio sotto il naso, accompagnato da qualcosa di appiccicaticcio.
Aprii gli occhi. Le immagini che avevo davanti erano alquanto sfocate, così in un primo momento non capii dove fossi, mossi le mie mani per capire cosa avessi alla testa, ma mi accorsi di avere le braccia bloccate dietro la schiena ed essere seduto su una sedia. Mi lamentai.
“Dottor Watson, si è svegliato!”
Il volto di un uomo si fece più vicino al mio.
“E giusto in tempo, direi. Altrimenti si sarebbe perso lo spettacolo!”
Io dischiusi gli occhi per un attimo e feci un altro verso di dolore che probabilmente era dovuto ad una botta in testa.
Lo guardai meglio, non appena si allontanò, anche se di poco.
Aveva una folta chioma e una barba castane, molto ben curate, e gli occhi chiarissimi. Ma ciò che mi colpì fu un lungo segno color carne che dal naso gli arrivava fino quasi all’orecchio sinistro.
Improvvisamente, riconobbi  quella cicatrice.
“Moran…” sussurrai, ma lui dovette sentirmi, perché si girò di nuovo e sorrise.
Diedi un’occhiata intorno a me, ma ciò che vidi fu soltanto una stanza priva di mobili, vuota, a parte due sedie - tra cui quella su cui ero seduto io. Fu allora che notai il fucile, perché l’altra sedia era sistemata proprio lì dietro. C’era anche un’unica grande finestra coperta da delle tende semitrasparenti. La canna del fucile arrivava quasi fino a fuori dalla cornice.
“Dove siamo?” chiesi.
Moran sembrava ben disposto a conversare. Mi sorrise di nuovo, avvicinandosi, spostò la tenda e mi indicò la strada.
Io strizzai gli occhi e guardai fuori.
“Siamo a Baker Street!” esclamò.
Mi prese per le spalle improvvisamente e mi fece voltare.
“Sta comodo?” mi chiese, ma non fu una vera domanda, perché non aspettò una mia risposta.
“Non vorrei che si perdesse la parte migliore della serata! Tra l’altro, non mi aspettavo il suo arrivo.”
Mi guardò più attentamente. Io non stavo capendo.
“Ma questo rende le cose più interessanti” si sfregò le mani.
La luce improvvisa di un lampo ci fece girare entrambi di nuovo verso la finestra. Il tuono che seguì fece tremare le vetrate.
“Oh!” esclamò lui “Abbiamo un altro ospite!”
Io guardai la strada, e solo dopo capii che avrei dovuto rivolgere l’attenzione verso le finestre di fronte a noi. Quello era il 221b.
“Faccio scegliere a lei, dottor Watson” continuò Moran  “A chi dei suoi amici vuole che spari per primo?”
Le tende del mio vecchio appartamento erano tirate e si riuscivano a scorgere due persone al suo interno.
“L’ispettore di Scotland Yard” fece ancora l’uomo “Oppure Sherlock Holmes?”
Guardai più attentamente e riuscii a scorgere Greg, che si muoveva nervosamente, facendo svolazzare il suo impermeabile beige. Stava parlando con qualcuno, e gesticolava.
Cosa diamine stava succedendo?
COSA?
Nella mia testa c’era così tanta confusione da non riuscire a formulare un pensiero che potesse avvicinarsi a qualcosa di reale, di concreto, e questo mi stava facendo andare su tutte le furie.
“Dal suo silenzio, mi pare di capire che non ha intenzione di scegliere” disse Moran “Non mi sarei aspettato diversamente” ridacchiò, poi si abbassò verso il fucile e si fece più vicino a me.
Fu un’azione decisamente rapida, quasi impercettibile, e all’interno del 221b vidi Lestrade ripararsi dietro un tavolo e un altro corpo cadere a pochi passi da dove si trovava lui.
Mi tornò subito in mente il manichino, ma il mio pensiero fu interrotto bruscamente, perché una voce che non era quella di Moran attirò la mia, anzi,  la nostra attenzione.
“Posa immediatamente il fucile e metti le mani dietro la testa.”
Vidi l’ex colonnello sorridere, poi, proprio dietro di lui, comparve un viso.
Ma non riuscii a vederlo attentamente, perché Moran si girò e lo colpì forte.
I due uomini cominciarono rapidamente a lottare, io invece sentivo nuovamente la testa farmi male. Entrambi urtarono contro il fucile, che cadde a terra, e fu in quel momento che notai la mia pistola, il mio cellulare e le mie chiavi sul pavimento.
Se avessi preso la mia arma, nonostante le mani legate (durante il servizio militare ci era stato insegnato ad usarla anche in casi estremi come quello), avrei potuto fare qualcosa, ma rimaneva un’operazione molto difficile. Avrei dovuto agire d’istinto.
Mi alzai e cercai di superare il fucile, ma sentii un’imprecazione.
“Non si muova, dottor Watson”
Moran aveva una pistola puntata contro di me.
“Gettala a terra!” esclamò l’altra persona nella stanza, e io mi girai, nello stesso istante in cui Moran gli rispose.
“Pessima scelta di parole, Sherlock.”
Sherlock…
Sherlock?
“Getta la pistola!” urlò ancora lui, ma l’altro per tutta risposta, si avvicinò di più a me.
Improvvisamente si sentì un rumore fortissimo provenire dalla stanza accanto. Questo fece girare e distrarre Moran, che infatti cadde a terra urlando.
“John!”
Greg Lestrade si precipitò verso di me e cominciò a squadrarmi con preoccupazione.
“Stai bene?” mi chiese, e notando la mia ferita sul capo e le mani legate non aspettò ancora e cercò di sciogliere i lacci.
Io probabilmente non risposi. Forse annuì, forse no. Non riuscii proprio a rendermene conto.
Avevo paura di guardare l’uomo che aveva lottato con Moran, e che gli aveva sparato a una gamba. Intorno a noi  c’era una dozzina di agenti della polizia, e tutti puntavano contro l’ex colonnello le proprie armi. Ma io guardavo sempre e solo nella stessa direzione, senza alzare lo sguardo.
Più che incredulo, più che sconvolto. Senza capire cosa provassi. Probabilmente un termine per descrivere i miei sentimenti non esisteva neanche.
Lestrade mi liberò definitivamente le mani e a quel punto decisi di recuperare le mie cose.
“Sapevo che non sarebbe stato facile ucciderti, Sherlock Holmes” fece Moran con una risata che sembrò più una smorfia di dolore.
Mi girai di nuovo e notai che era seduto e teneva tra le mani il ginocchio sinistro, che sanguinava. Il mio primo istinto fu quello di andare a vedere cosa avesse, ma lui continuò a parlare.
“Ma sono venuto preparato!” rise ancora “Harry ha tenuto la bocca chiusa. Brava ragazza. E ora che mi avete preso pensate che sia al sicuro e che parlerà”.
Io mi passai una mano intorno alla testa. Stavo ancora sanguinando.
“Harry?” chiesi, ma nessuno sembrò sentirmi.
“Cosa le hai fatto?” domandò invece Lestrade.
“Che ore sono?” fece ancora Moran, con tranquillità.
Io puntai istintivamente la pistola contro di lui.
“Che cosa c’entra Harry? Cosa le hai fatto?” urlai.
Greg mi prese per un braccio e mi guardò scuotendo la testa leggermente.
Sembrava essere dispiaciuto, come se mi avesse nascosto qualcosa, e probabilmente era proprio così.
“Che ore sono?” esclamò di nuovo Moran.
“Le ventuno e cinquantatre” rispose l’uomo che non volevo guardare.
“Come immaginavo. È troppo tardi per lei, mancano solo sei minuti all’esplosione.”
Ebbi solo un momento di indecisione, in cui Lestrade diede l’ordine di chiamare delle ambulanze, poi mi precipitai fuori dall’appartamento. Qualcuno mi chiamò, ma lo ignorai, continuando a muovermi velocemente e scendendo le scale.
Presi il cellulare, ma le mie mani tremavano e rischiai quasi di farlo cadere. Composi il numero di mia sorella.
Avevo bisogno di una dormita, o almeno di fermarmi un attimo e capire cosa stesse succedendo.
Ma Moran aveva parlato di Harry, aveva detto che era troppo tardi per salvarla.
Il colonnello Sebastian Moran. Per molto tempo avevo creduto che fosse rimasto anche lui vittima di quell’esplosione in Afghanistan. L’ultima persona che avevo visto prima di cadere a terra, privo di sensi.
Come faceva a conoscere Harry? Perché?
Rispondi. Ti prego.” Pensai tra me e me.
Il cellulare di mia sorella stava squillando già da parecchio.
Ero ormai arrivato in strada e avevo iniziato a correre, in cerca di un taxi.
“John!”
Lestrade mi raggiunse e mi fece segno di salire su un’auto della polizia. Nello stesso momento, Harry rispose.
“Harry! Harry, stai bene?” urlai.
Lei mi rispose piano, con la voce di chi si era appena svegliata.
“Harry, ascoltami bene” mi mancava il respiro “Esci immediatamente da casa tua.”
“John, ma cosa…”
“Esci immediatamente! Prendi qualcosa di duro… un ombrello, ed esci immediatamente. Non parlare con nessuno e non salire in nessun taxi. Se qualcuno vuole farti del male, usa l’ombrello. Io… sto venendo a prenderti.”
Lei provò a parlare di nuovo, ma le urlai ancora di muoversi e di uscire di casa.
“Va bene…” aveva ancora la voce impastata e bassa.
“Descrivimi i tuoi movimenti. Non smettere di parlare.”
“Sono appena scesa dal letto. Cerco la vestaglia, ma non la vedo.”
“Lascia stare la vestaglia. Sei in pericolo! Esci!”
“Sono fuori dalla camera da letto, ecco, ora ho raggiunto le scale. John, mi dispiace.”
Sentii lo stomaco contrasi a quelle parole.
“Qualunque cosa sia, non importa. Sto arrivando, esci di casa e allontanati da lì.”
Intorno a me Lestrade e altri agenti stavano parlando furiosamente ai propri telefoni.
Harry iniziò a piangere. A quel punto, anche io cedetti alle lacrime.
“Sono… sto scendendo… sono alla fine della scalinata” continuò a dire mia sorella “Sono davanti alla porta” sentii il rumore metallico della serratura “L’ho aperta… sono…”
Allontanai l’orecchio dal cellulare a causa di un rumore fortissimo e poi la chiamata si interruppe.
“Harry… Harry…” le parole mi si fermarono in gola. Non cercai più neanche di trattenere le lacrime.
Provai a chiamare mia sorella per tutto il tempo rimanente, poi, fu una nube nera a guidare l’ultima tappa del nostro viaggio.
Mi precipitai fuori dall’auto ancora prima fosse ferma del tutto. Davanti a me c’era uno spettacolo devastante. I due piani dell’appartamento di Harry erano completamente in fiamme, le vetrate in frantumi. Blocchi di pietra e cemento erano sparsi un po’ ovunque. Un ombrello bruciava. Gocce leggere di pioggia continuavano a cadere.
Un piccolo gruppo di gente invece era ammassato in un punto non molto lontano, a pochi metri dall’edificio. Mi feci spazio tra loro. Harry era lì, a terra. Il suo corpicino era ricoperto di polvere e sangue, soprattutto in viso. Provai a parlare, provai a chiamarla, ma ancora una volta dalla mia gola non provenne alcun suono.
Sentii di sfuggita Lestrade, che intimava a quel gruppo di persone di allontanarsi. Io mi inginocchiai e presi mia sorella tra le braccia con il terrore di tastarle il polso e di non sentire alcun battito.
Harry aveva preso tante decisioni sbagliate nella sua vita, ma, nonostante ciò, non avrebbe meritato di morire così. Non le avrei permesso di morire prima ancora di provare a ricominciare a vivere.
Le presi il braccio e premetti le mie dita intorno al suo polso.

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Salve! Vi prego di scusarmi per questo ritardo, questa volta è passato più di un mese e mi dispiace. Spero comunque che voi ci siate sempre. Ormai siamo quasi alla fine!
Spero anche che tutti conosciate il racconto “L’avventura della casa vuota” di ACD a cui mi sono liberamente ispirata, in questa mia fan fiction e in questo capitolo in particolare
.

Alla prossima! (Ora sono un po’ più libera, quindi sicuramente non vi farò aspettare di nuovo così tanto).
Grazie, buona giornata e buon compleanno a Benedict Cumberbatch! :D

   
 
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