Salii
lentamente le scale che portavano al primo piano. Il dolore
all’anca
ormai era sempre più frequente. Ogni giorno ero costretta a
fermarmi e a
sedermi per fare in modo che passasse, anche se solo momentaneamente.
Il mio
stato di salute stava peggiorando e - ahimè -
l’età avanzata si stava facendo
sentire sempre di più. Presi un bel respiro, massaggiai la
parte dolorante e
salii gli ultimi scalini.
Il salotto era quasi completamente al buio, così mi mossi
per accendere la
luce.
“Non lo faccia.”
Mi fermai di colpo, l’indice già sul pulsante.
Ritrassi subito la mano.
Sherlock era appena uscito dalla cucina.
“Non vedo che fastidio possa darti un po’ di
luce.” dissi “Per
di più anche fuori ce n’è
così poca. Non
so se ha visto le numerose nuvole che…”
Mi interruppe.
“Le nuvole non mi preoccupano affatto, signora
Hudson.”
Attraversò la stanza e accese la lampada accanto alle
poltrone. Con la
luce, finalmente riuscii a guardarlo in
volto.
“Si sente bene?” mi chiese, avvicinandosi.
Io mi massaggiai involontariamente.
“È la mia anca.” risposi, ma non lo
guardai.
“Senza dubbio. Dovrebbe cambiare medico curante.”
commentò.
Mi accigliai.
“Ma no.” continuò “Sta
cercando semplicemente di capire se sono davvero io
qui davanti a lei. Mycroft avrebbe dovuto dirglielo un po’
prima,
probabilmente.”
“O magari non saresti mai dovuto andare via così,
senza un avvertimento.”
risposi. “Immagino l’angoscia che avrà
dovuto provare la povera signora
Holmes!”
Sherlock non rispose, e si allontanò, raggiungendo di nuovo
l’altra parte
della stanza.
Suo fratello Mycroft mi aveva fatto spesso visita, durante gli ultimi
tre
anni, e finalmente avevo capito il motivo per cui aveva continuato a
pagare
l’affitto della casa in cui aveva abitato suo fratello.
In ogni caso, non sarei riuscita ad affittare l’appartamento
a nessuno.
Erano troppi i ricordi che ancora aleggiavano tra quelle stanze.
“Si sieda, signora Hudson,
perché sto
per dirle una cosa molto importante. Sherlock è vivo, e tra
circa tre settimane
tornerà a Londra e si trasferirà nuovamente
nell’appartamento del 221 b.”
Ero rimasta a fissarlo per diverso tempo senza capire. Lui si era
seduto al
mio fianco e mi aveva raccontato ciò che era successo, o
almeno una buona
parte. Come avesse fatto Sherlock a sopravvivere a quel salto nel vuoto restava
ancora un mistero irrisolto, però, ed io non
riuscivo a rendermi conto del tutto che era tornato.
“Mia madre sta bene.” disse Sherlock, ad un certo
punto. “Come mai è salita
qui? C’è qualcosa che vuole dirmi?”
Io deglutii, iniziando a sentire di nuovo dei forti dolori.
“Sì, volevo chiederti se desiderassi qualcosa da
mangi…” mi interruppi improvvisamente,
notando qualcosa di strano.
La stanza era, come solitamente era sempre stata, molto in disordine,
ma
qualcosa di davvero particolare aveva attirato la mia attenzione. Sopra
una
delle poltrone accanto al camino, quella dove di solito sedeva
Sherlock, c’era
un lenzuolo bianco, che copriva sicuramente qualcosa di grande. Quando
ero
entrata l’ultima volta in quella stanza, non più
di due giorni prima,
sicuramente non c’era.
Doveva averla portata Sherlock.
“Che cos’è?” gli domandai,
indicando la poltrona.
Lui si fece accanto ad una delle finestre, spostando la tenda e
sbirciando
fuori.
“Nulla di importante. La prego, signora Hudson, torni
giù e rimanga lì.”
Aprii la bocca per rispondere, ma lui mi anticipò.
“È palese che lei non si senta bene, quindi le
consiglio di mettersi a
letto. Non ho bisogno di lei, ora!”
Questa volta usò un tono più aggressivo. Io mi
zittii, dispiaciuta.
Lentamente iniziai la discesa, ma dopo l’ultimo scalino, mi
sentii chiamare
di nuovo, anche se a voce bassa.
“Signora Hudson!”
Volsi lo sguardo in alto, verso la scalinata. Sherlock era sceso
velocemente ed era visibilmente allarmato.
“John è fuori alla porta. L’ha chiamato
lei?”
Mi accigliai di nuovo, poi scossi la testa.
“Allora non gli apra. Ignori il campanello e si chiuda in
casa.”
“Ma…”
provai a dire, lui però mi
interruppe ancora una volta.
“E non risponda neanche al telefono.”
Si sentì un rumore metallico.
“Ha ancora le chiavi…” sibilai.
Lo vidi sgranare gli occhi.
“Vada a casa sua e faccia finta di non esserci!”
esclamò velocemente,
facendomi segno con le mani di muovermi.
Io camminai più in fretta che potei, nonostante il dolore
all’anca, di
nuovo forte. Chiusi la porta di casa e mi precipitai verso la camera da
letto.
Mi stesi.
Sherlock era tornato soltanto la notte prima, quindi da neanche un
giorno,
e già si stava occupando di un nuovo caso?
Anzi, già aveva pure litigato
di
nuovo con John?
Stavo davvero cominciando a pensare di essere diventata troppo vecchia
per
quelle cose.
JOHN
Una
quantità non indifferente di nuvole grigio scuro si stava
ammassando
minacciosamente e stava raggiungendo Baker Street. Probabilmente a
breve
avrebbe piovuto. Presi le chiavi dalla tasca e mi mossi velocemente
verso
l’entrata. Quasi mi meravigliai di me stesso e della mia
determinazione, ma
infatti, appena arrivato davanti la porta, mi fermai di botto e per
poco non
fui invaso dall’istinto di tornare indietro.
Presi un bel respiro e puntai i miei occhi verso ciò che
c’era scritto
affisso sul legno: 221B.
Improvvisamente la porta si aprì, e fui ammanettato e
sbattuto contro la
portiera di una macchina della polizia. Mi lamentai per la botta presa.
“Ti unisci a me?” mi chiese Sherlock, con ironia.
Mi misi le mani davanti al volto e stropicciai gli occhi.
Mi era successo di nuovo. Avevo immaginato perfettamente uno dei miei
ricordi che lo riguardavano. L’ultima volta che entrambi
eravamo usciti insieme
– o quasi – da quella casa.
Dalla nostra casa.
Eravamo stati arrestati entrambi – il mio era in
realtà più uno stato di
fermo che reale arresto – ma poi Sherlock aveva fatto di
testa sua, tanto per
cambiare, ed eravamo riusciti a scappare.
Avevamo iniziato a correre. Una corsa senza fine e senza
meta,
apparentemente.
Quella era stata una lunga notte, una delle più lunghe che
avessi mai
vissuto senza chiudere occhio. Forse non proprio l’unica.
Quando ero stato in
guerra ne avevo passate tante, ma quella di sicuro era stata la
peggiore.
Era da tempo che non mi succedeva di ricordare quegli avvenimenti.
Pensavo
di essere riuscito a smettere. E invece, per colpa di uno stupido
numero e di
una stupida lettera inchiodati alla porta avevo capito che la terapia
non era
servita proprio a nulla.
Infilai la chiave nella serratura. Non ricordavo fosse così
dura, così mi
aiutai con l’altra mano e riuscii ad aprire. Quando entrai,
l’ingresso era
immerso nell’oscurità.
Accesi il cellulare per farmi luce. Vidi di sfuggita che qualcuno,
più
precisamente Mary, mi aveva chiamato, ma decisi che non era il momento.
L’avrei
richiamata più tardi.
“Signora Hudson!” urlai. “Signora Hudson,
sono John!”
Mi accorsi di avere la gola secca.
Chiusi la porta e andai ad accendere il lampadario poggiato sulla
piccola
mensola di fronte le scale.
Provai a chiamare di nuovo la padrona di casa, ma non ricevetti alcuna
risposta. Mi mossi verso la porta del suo appartamento e bussai.
“Signora Hudson? È in casa?” provai
ancora, ma a quanto parve, non c’era.
Strano. A sentire il mio collega, Charles Wood, che era il suo medico
curante, lo stato di salute della mia anziana amica era diventato
decisamente
più precario e le era stato intimato di restare in casa e
riposare il più
possibile. Questo mi era stato detto neanche due settimane prima.
Forse era andata a trovare qualche parente; sì, sembrava
un’ipotesi
possibile.
Dopo aver risolto il problema di mia sorella, l’avrei
chiamata per dirle
delle chiavi e anche per chiederle come stava. Mi mossi di nuovo verso
la
mensola dell’ingresso e iniziai a staccare le due chiavi di
quella casa dal
mazzo in cui tenevo tutte le altre, cioè quelle del nuovo
appartamento, quelle
di Harry e quelle dell’ambulatorio. Durante
l’operazione, mi graffiai pollice e
indice, ma riuscii a staccare la chiave della porta
d’ingresso e la posai.
Poi mi fermai. Non seppi bene il perché, ma lo feci.
Mi girai ed osservai le scale e rimasi lì a fissarle a
lungo.
Sarei dovuto salire sopra. Lo avevo desiderato dal primo istante in cui
ero
entrato, solo che non lo volevo ammettere. A quanto pare, la signora
Hudson non
aveva venduto l’appartamento a nessuno. Non si sentivano
rumori e nessuna luce
proveniva da lassù.
Distolsi lo sguardo e quasi sbuffai.
Perché stavo reagendo così? Era solo una casa, e
quella, probabilmente, sarebbe
stata l’ultima volta in cui ci avrei messo piede.
Deglutii e poi mi decisi a salire. Feci le scale salendo due gradini
alla
volta, come spesso avevo fatto in passato, ma inizialmente non ci feci
neanche
caso.
La porta del salotto era aperta, ed era tutto al buio. Accesi subito la
luce. Le finestre erano tappezzate con tende rosso scuro che non
ricordavo
affatto. Erano decisamente coprenti, tanto che quasi non si riusciva a
vedere
attraverso di esse. Spostai la mia attenzione dalle tende sulla la
stanza.
Rimasi letteralmente a bocca aperta. Il divano, il tavolo e il
pavimento
erano occupati da scatole, fogli di giornale, utensili vari , e su una
sedia
c’era anche un violino.
“Cosa diavolo?” feci tra me e me, ma non riuscii a
terminare la frase. Vidi
un lenzuolo bianco coprire interamente la poltrona di Sherlock.
Come se qualcuno si fosse trasferito lì e avesse dimenticato
di scoprire
un’ultima cosa.
No. Come se non fosse stato portato
via niente di quello che era appartenuto al mio coinquilino.
Mi avvicinai. Sulla mia poltrona c’era ancora il cuscino con
sopra stampata
la bandiera della Gran Bretagna.
Mi lasciai scappare un sorriso amaro.
Quando me ne ero andato, quello era stato l’unico oggetto che
avevo
desiderato portare via con me, ma che poi avevo deciso di lasciare
all’ultimo
momento.
Avevo dato le spalle alla cucina, che aveva le porte scorrevoli chiuse,
e improvvisamente
mi sentii osservato, una sensazione sinistra che mi portò a
girarmi
improvvisamente. Ma le luci dell’altra stanza erano spente, e
non c’era
nessuno. Il mio movimento fece alzare una piccola nuvoletta di polvere,
così
tossii. Subito dopo, ritornai a guardare la poltrona e il lenzuolo
bianco.
Non era lì solo per coprirla. Doveva esserci
qualcos’altro lì sotto, e di
una forma precisa.
Sollevai un po’ il tessuto e notai una scarpa nera. Decisi di
toglierlo
interamente.
Per poco non mi scappò un urlo. Dovetti mettermi una mano
davanti alla
bocca per evitare di farlo e con l’altra strinsi
più forte il mazzo di chiavi,
che era quasi scivolato a terra.
Rimasi fermo in quella posizione per un bel minuto intero, con il cuore
che
batteva forte, il respiro decisamente irregolare, cercando di
trattenere le
lacrime.
“Sh… Sherlock?”
Era lui, ma allo stesso tempo non lo era davvero.
Era vestito di tutto punto, elegante, come vestiva di solito: pantaloni
e
giacca abbinati, la camicia viola. Era seduto, con le gambe accavallate
e le
braccia divaricate poggiate sui braccioli della poltrona.
Gli occhi erano spalancati.
Ma non erano davvero occhi. Fissavano un solo punto, ed erano freddi,
inespressivi.
Come quando li avevo visti l’ultima volta, privi di vita.
Tossii di nuovo, presi più di un respiro profondo e cercai
di calmarmi.
Quello non era Sherlock, ormai me ne stavo convincendo, ma era qualcosa di estremamente simile a lui,
una sorta di manichino.
La pelle e gli occhi erano lucidi, sembravano fatti di plastica
– proprio
come un manichino – così allungai un
braccio e
gli toccai una mano.
Sì, sembrava plastica, ma al tatto sembrava leggermente
più ruvida.
“Che cos’è
questo? Che cosa significa?”
mi ritrovai a pensare, cominciando seriamente a dubitare
della mia sanità
mentale.
Dovevo assolutamente contattare la signora Hudson. Lei sapeva, lei doveva sapere.
Mi allontanai dal manichino, dandogli un’ultima occhiata.
Iniziai a pensare che fosse molto simile alle statue di cera di Madame
Tussauds.
Ma perché, perché?
Uscii dalla stanza velocemente, scesi le scale, e nel frattempo provai
a
chiamare la signora Hudson tramite cellulare. E se lei non mi avesse
risposto,
avrei contattato Mycroft Holmes.
Ormai era evidente che c’era qualcosa che mi stavano
nascondendo. Ancora
una volta.
Uscii dal 221B e chiusi la porta con forza.
Ero arrabbiato, ero confuso. Ero… qualcosa di indefinibile.
La signora Hudson non rispose, così raggiunsi il marciapiede
di fronte e
provai a chiamare Mycroft.
Baker Street era deserta. Le nuvole ormai erano arrivate e cominciai a
sentire qualche leggera goccia di pioggia colpirmi
sul viso.
“John Watson?” mi sentii chiamare e mi girai
immediatamente.
Non riuscii neanche a guardare chi fosse stato a pronunciare il mio
nome.
Qualcosa mi colpì la testa e io caddi
all’indietro, sull’asfalto.
*
La
prima cosa che sentii fu un dolore atroce alla testa e un forte odore
proprio sotto il naso, accompagnato da qualcosa di appiccicaticcio.
Aprii gli occhi. Le immagini che avevo davanti erano alquanto sfocate,
così
in un primo momento non capii dove fossi, mossi le mie mani per capire
cosa
avessi alla testa, ma mi accorsi di avere le braccia bloccate dietro la
schiena
ed essere seduto su una sedia. Mi lamentai.
“Dottor Watson, si è svegliato!”
Il volto di un uomo si fece più vicino al mio.
“E giusto in tempo, direi. Altrimenti si sarebbe perso lo
spettacolo!”
Io dischiusi gli occhi per un attimo e feci un altro verso di dolore
che
probabilmente era dovuto ad una botta in testa.
Lo guardai meglio, non appena si allontanò, anche se di poco.
Aveva una folta chioma e una barba castane, molto ben curate, e gli
occhi
chiarissimi. Ma ciò che mi colpì fu un lungo
segno color carne che dal naso gli
arrivava fino quasi all’orecchio sinistro.
Improvvisamente, riconobbi quella
cicatrice.
“Moran…” sussurrai, ma lui dovette
sentirmi, perché si girò di nuovo e
sorrise.
Diedi un’occhiata
intorno a me, ma
ciò che vidi fu soltanto una stanza priva di mobili, vuota,
a parte due sedie -
tra cui quella su cui ero seduto io. Fu allora che notai il fucile,
perché
l’altra sedia era sistemata proprio lì dietro.
C’era anche un’unica grande
finestra coperta da delle tende semitrasparenti. La canna del fucile
arrivava
quasi fino a fuori dalla cornice.
“Dove
siamo?” chiesi.
Moran sembrava ben disposto a conversare. Mi sorrise di nuovo,
avvicinandosi, spostò la tenda e mi indicò la
strada.
Io strizzai gli occhi e guardai fuori.
“Siamo a Baker Street!”
esclamò.
Mi prese per le spalle improvvisamente e mi fece voltare.
“Sta comodo?” mi chiese, ma non fu una vera
domanda, perché non aspettò una
mia risposta.
“Non vorrei che si perdesse la parte migliore della serata!
Tra l’altro,
non mi aspettavo il suo arrivo.”
Mi guardò più attentamente. Io non stavo capendo.
“Ma questo rende le cose più
interessanti” si sfregò le mani.
La luce improvvisa di un lampo ci fece girare entrambi di nuovo verso
la
finestra. Il tuono che seguì fece tremare le vetrate.
“Oh!” esclamò lui “Abbiamo un
altro ospite!”
Io guardai la strada, e solo dopo capii che avrei dovuto rivolgere
l’attenzione verso le finestre di fronte a noi. Quello era il
221b.
“Faccio scegliere a lei, dottor Watson”
continuò Moran “A
chi dei suoi amici vuole che spari per
primo?”
Le tende del mio vecchio appartamento erano tirate e si riuscivano a
scorgere due persone al suo interno.
“L’ispettore di Scotland Yard” fece
ancora l’uomo “Oppure Sherlock Holmes?”
Guardai più attentamente e riuscii a scorgere Greg, che si
muoveva
nervosamente, facendo svolazzare il suo impermeabile beige. Stava
parlando con
qualcuno, e gesticolava.
Cosa diamine stava succedendo?
COSA?
Nella mia testa c’era così tanta confusione da non
riuscire a formulare un
pensiero che potesse avvicinarsi a qualcosa di reale, di concreto, e
questo mi
stava facendo andare su tutte le furie.
“Dal suo silenzio, mi pare di capire che non ha intenzione di
scegliere”
disse Moran “Non mi sarei aspettato diversamente”
ridacchiò, poi si abbassò
verso il fucile e si fece più vicino a me.
Fu un’azione decisamente rapida, quasi impercettibile, e
all’interno del
221b vidi Lestrade ripararsi dietro un tavolo e un altro corpo cadere a
pochi
passi da dove si trovava lui.
Mi tornò subito in mente il manichino, ma il mio pensiero fu
interrotto
bruscamente, perché una voce che non era quella di Moran
attirò la mia, anzi, la
nostra attenzione.
“Posa immediatamente il fucile e metti le mani dietro la
testa.”
Vidi l’ex colonnello sorridere, poi, proprio dietro di lui,
comparve un viso.
Ma non riuscii a vederlo attentamente, perché Moran si
girò e lo colpì
forte.
I due uomini cominciarono rapidamente a lottare, io invece sentivo
nuovamente la testa farmi male. Entrambi urtarono contro il fucile, che
cadde a
terra, e fu in quel momento che notai la mia pistola, il mio cellulare
e le mie
chiavi sul pavimento.
Se avessi preso la mia arma, nonostante le mani legate (durante il
servizio
militare ci era stato insegnato ad usarla anche in casi estremi come
quello),
avrei potuto fare qualcosa, ma rimaneva un’operazione molto
difficile. Avrei
dovuto agire d’istinto.
Mi alzai e cercai di superare il fucile, ma sentii
un’imprecazione.
“Non si muova, dottor Watson”
Moran aveva una pistola puntata contro di me.
“Gettala a terra!” esclamò
l’altra persona nella stanza, e io mi girai,
nello stesso istante in cui Moran gli rispose.
“Pessima scelta di parole, Sherlock.”
Sherlock…
Sherlock?
“Getta la pistola!” urlò ancora lui, ma
l’altro per
tutta risposta, si avvicinò di più a
me.
Improvvisamente si sentì un rumore fortissimo provenire
dalla stanza
accanto. Questo fece girare e distrarre Moran, che infatti cadde a
terra
urlando.
“John!”
Greg Lestrade si precipitò verso di me e cominciò
a squadrarmi con
preoccupazione.
“Stai bene?” mi chiese, e notando la mia ferita sul
capo e le mani legate
non aspettò ancora e cercò di sciogliere i lacci.
Io probabilmente non risposi. Forse annuì, forse no. Non
riuscii proprio a
rendermene conto.
Avevo paura di guardare l’uomo che aveva lottato con Moran, e
che gli aveva
sparato a una
gamba. Intorno a noi c’era
una dozzina di agenti della polizia, e
tutti puntavano contro l’ex colonnello le proprie armi. Ma io
guardavo sempre e
solo nella stessa direzione, senza alzare lo sguardo.
Più che incredulo, più che sconvolto. Senza
capire cosa provassi.
Probabilmente un termine per descrivere i miei sentimenti non esisteva
neanche.
Lestrade mi liberò definitivamente le mani e a quel punto
decisi di
recuperare le mie cose.
“Sapevo che non sarebbe stato facile ucciderti, Sherlock
Holmes” fece Moran
con una risata che sembrò più una smorfia di
dolore.
Mi girai di nuovo e notai che era seduto e teneva tra le mani il
ginocchio
sinistro, che sanguinava. Il mio primo istinto fu quello di andare a
vedere
cosa avesse, ma lui continuò a parlare.
“Ma sono venuto preparato!” rise ancora
“Harry ha tenuto la bocca chiusa.
Brava ragazza. E ora che mi avete preso pensate che sia al sicuro e che
parlerà”.
Io mi passai una mano intorno alla testa. Stavo ancora sanguinando.
“Harry?” chiesi, ma nessuno sembrò
sentirmi.
“Cosa le hai fatto?” domandò invece
Lestrade.
“Che ore sono?” fece ancora Moran, con
tranquillità.
Io puntai istintivamente la pistola contro di lui.
“Che cosa c’entra Harry? Cosa le hai
fatto?” urlai.
Greg mi prese per un braccio e mi guardò scuotendo la testa
leggermente.
Sembrava essere dispiaciuto, come se mi avesse nascosto qualcosa, e
probabilmente era proprio così.
“Che ore sono?” esclamò di nuovo Moran.
“Le ventuno e cinquantatre” rispose
l’uomo che non volevo guardare.
“Come immaginavo. È troppo tardi per lei, mancano solo
sei minuti all’esplosione.”
Ebbi solo un momento di indecisione, in cui Lestrade diede
l’ordine di
chiamare delle ambulanze, poi mi precipitai fuori
dall’appartamento. Qualcuno
mi chiamò, ma lo ignorai, continuando a muovermi velocemente
e scendendo le
scale.
Presi il cellulare, ma le mie mani tremavano e rischiai quasi di farlo
cadere. Composi il numero di mia sorella.
Avevo bisogno di una dormita, o almeno di fermarmi un attimo e capire
cosa
stesse succedendo.
Ma Moran aveva parlato di Harry, aveva detto che era troppo tardi per
salvarla.
Il colonnello Sebastian Moran. Per
molto
tempo avevo creduto che fosse rimasto anche lui vittima di
quell’esplosione in
Afghanistan. L’ultima persona che avevo visto prima di cadere
a terra, privo di
sensi.
Come faceva a conoscere Harry? Perché?
“Rispondi. Ti prego.”
Pensai tra
me e me.
Il cellulare di mia sorella stava squillando già da
parecchio.
Ero ormai arrivato in strada e avevo iniziato a correre, in cerca di un
taxi.
“John!”
Lestrade mi raggiunse e mi fece segno di salire su un’auto
della polizia.
Nello stesso momento, Harry rispose.
“Harry! Harry, stai bene?” urlai.
Lei mi rispose piano, con la voce di chi si era appena svegliata.
“Harry, ascoltami bene” mi mancava il respiro
“Esci immediatamente da casa
tua.”
“John, ma cosa…”
“Esci immediatamente! Prendi qualcosa di duro… un
ombrello, ed esci
immediatamente. Non parlare con nessuno e non salire in nessun taxi. Se
qualcuno
vuole farti del male, usa l’ombrello. Io… sto
venendo a prenderti.”
Lei provò a parlare di nuovo, ma le urlai ancora di muoversi
e di uscire di
casa.
“Va bene…” aveva ancora la voce
impastata e bassa.
“Descrivimi i tuoi movimenti. Non smettere di
parlare.”
“Sono appena scesa dal letto. Cerco la vestaglia, ma non la
vedo.”
“Lascia stare la vestaglia. Sei in pericolo! Esci!”
“Sono fuori dalla camera da letto, ecco, ora ho raggiunto le
scale. John,
mi dispiace.”
Sentii lo stomaco contrasi a quelle parole.
“Qualunque cosa sia, non importa. Sto arrivando, esci di casa
e allontanati
da lì.”
Intorno a me Lestrade e altri agenti stavano parlando furiosamente ai
propri telefoni.
Harry iniziò a piangere. A quel punto, anche io cedetti alle
lacrime.
“Sono… sto scendendo… sono alla fine
della scalinata” continuò a dire mia
sorella “Sono davanti alla porta” sentii il rumore
metallico della serratura
“L’ho aperta… sono…”
Allontanai l’orecchio dal cellulare a causa di un rumore
fortissimo e poi
la chiamata si interruppe.
“Harry… Harry…” le parole mi
si fermarono in gola. Non cercai più neanche
di trattenere le lacrime.
Provai a chiamare mia sorella per tutto il tempo rimanente, poi, fu una
nube nera a guidare l’ultima tappa del nostro viaggio.
Mi precipitai fuori dall’auto ancora prima fosse ferma del
tutto. Davanti a
me c’era uno spettacolo devastante. I due piani
dell’appartamento di Harry
erano completamente in fiamme, le vetrate in frantumi. Blocchi di
pietra e
cemento erano sparsi un po’ ovunque. Un ombrello bruciava.
Gocce leggere di pioggia continuavano a cadere.
Un piccolo gruppo di gente invece era ammassato in un punto non molto
lontano,
a pochi metri dall’edificio. Mi feci spazio tra loro. Harry
era lì, a terra. Il
suo corpicino era ricoperto di polvere e sangue, soprattutto in viso.
Provai a
parlare, provai a chiamarla, ma ancora una volta dalla mia gola non
provenne
alcun suono.
Sentii di sfuggita Lestrade, che intimava a quel gruppo di persone di
allontanarsi. Io mi inginocchiai e presi mia sorella tra le braccia con
il
terrore di tastarle il polso e di non sentire alcun battito.
Harry aveva preso tante decisioni sbagliate nella sua vita, ma,
nonostante
ciò, non avrebbe meritato di morire così. Non
le avrei permesso di morire prima ancora di provare a ricominciare a
vivere.
Le presi il braccio e premetti le mie dita intorno al suo polso.
------------------------------------------------------------
Salve! Vi prego di scusarmi
per questo
ritardo, questa volta è passato più di un mese e
mi dispiace. Spero comunque
che voi ci siate sempre. Ormai siamo quasi alla fine!
Spero anche che tutti conosciate il
racconto “L’avventura della casa vuota” di ACD a
cui mi sono liberamente ispirata, in
questa mia fan fiction e in questo capitolo in particolare .
Alla prossima! (Ora
sono un po’ più
libera, quindi sicuramente non vi farò aspettare di nuovo
così tanto).
Grazie,
buona giornata e buon
compleanno a Benedict Cumberbatch! :D